di Jacopo Intini. Striscia di Gaza. E’ pari a 5,4 miliardi di dollari (1miliardo solo dal Qatar) la somma che il mondo ha stanziato per la ricostruzione della Striscia di Gaza, pesantemente bombardata da Israele con l’operazione “Margine Protettivo” di questa estate, ma i fondi rischiano di stagnare nelle tasche delle banche per decenni.
Questo è quanto emerso a seguito della conferenza dei donatori, riunitasi al Cairo i primi di Ottobre. La Oxfam International denuncia la criticità della situazione affermando che i fondi potranno arrivare a destinazione solo una volta allentato il blocco e che dovranno essere gli stessi donatori a porre la dovuta pressione verso la forza di occupazione israeliana affinché ciò avvenga. Catherine Essoyan, direttrice regionale di Oxfam, afferma che potrebbero volerci 50 anni prima che la popolazione della Striscia possa vedere le proprie abitazioni ricostruite. Si parla di 89 mila case, 226 mila scuole, fabbriche e strutture sanitarie indispensabili, ora più che mai, alla popolazione gazawi. Inoltre, è stimato che servano circa 700 mila carichi di materiale tra cui calcestruzzo, cemento e barre in acciaio. Nei primi sei mesi del 2014, Israele ha consentito l’accesso di soli 1.100 carichi al mese.
Nonostante il fresco riconoscimento da parte della Svezia e la votazione di 274 parlamentari britannici a favore di una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina (a breve si riunirà anche il governo spagnolo), nulla di nuovo si muove. Si tratta di posizioni, quelle britanniche, del tutto simboliche dato che il riconoscimento non andrà a modificare le attuali politiche nazionali di Cameron, ma rappresentano per Tel Aviv fonte di grande pressione. Timide e vaghe le dichiarazioni a riguardo da parte della comunità internazionale, soprattutto quella europea. Parigi si accontenta di rimandare il riconoscimento dello Stato a “quando sarà il momento giusto” e quando questo “sarà utile alla pace” tra i due popoli. Non si sbilancia troppo l’Italia, la cui posizione è invece inficiata in virtù degli accordi bilaterali siglati nel 2008 e 2012. La ministra Mogherini, in un incontro dello scorso 14 Ottobre con il ministro degli Esteri israeliano Lieberman, ha ribadito la necessità di “far ripartire il processo di pace e arrivare in tempi brevi alla nascita di uno Stato palestinese, con garanzie di sicurezza per Israele”, non accennando nulla a proposito degli ultimi riconoscimenti, definiti come “prematuri” da parte degli Stati Uniti.
Intanto Gaza piange le sue vittime, ancora una volta isolata e con un’economia strozzata dal rigido embargo che va avanti ormai da sette anni e che ne rallenta ancor più la ripresa. Nessun bene in entrata, carenze di petrolio ed energia elettrica, interrotta spesso fino a 12 ore al giorno. Il 90% dell’acqua di falda non è potabile e il restante 10% proviene quasi per intero dagli aiuti umanitari di cui circa l’80% della popolazione ne è beneficiario. Il 57% delle famiglie di Gaza soffre di insicurezza alimentare, in più, sono circa 90 milioni di litri le acque reflue non trattate che inquinano il territorio e il mare ogni giorno. In uno degli ultimi rapporti dell’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) , viene stimano che, senza adeguati interventi, entro il 2016 mancherà totalmente l’acqua ed entro il 2020 la situazione di Gaza sarà incompatibile con la vita. Sono 2.145 le vittime dopo 51 giorni di operazione, 11.200 i feriti, 450.000 gli sfollati di cui 110.000 senza tetto e l’inverno si avvicina.
Numeri esorbitanti, nonostante i quali viene ancora una volta a mancare una forte presa di posizione da parte delle Nazioni Unite. Hamas preme il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, in visita i giorni scorsi in Medio Oriente, affinché si attivi per l’interruzione dell’assedio, principale ostacolo al rilancio dell’economia di Gaza Strip. Intanto, nonostante il via libera al commercio concesso per la prima volta nel 2007, lo scorso martedì Israele ha bloccato, senza alcuna giustificazione ufficiale, un carico di prodotti provenienti dalla Striscia, per lo più patate e datteri, diretti in Cisgiordania (Gaza esporta meno del 2% della sua produzione locale). Il commercio con la West Bank è forse uno degli unici contatti che hanno le due realtà parallele palestinesi.
West Bank. Intanto, in Cisgiordania, destano forti preoccupazioni i recenti espropri attuati nell’area di Betlemme e di Gerusalemme Est. Si tratta di un sequestro di 4.000 dunam (1.000 acri, c.a. 400 ettari), su cui lo Stato di Israele ha espresso chiaramente l’intenzione di voler costruire 2.160 nuove abitazioni illegali da aggiungersi alle 3.000 unità abitative già dichiarate nel 2012, immediatamente dopo l’attribuzione alla Palestina dello status di osservatore non membro presso le Nazioni Unite. Alcuni funzionari europei si stanno muovendo in questi giorni per cercare “nuove strade per far pressione sull’autorità di occupazione israeliana al fine di fermare la costruzione di nuovi insediamenti nella Cisgiordania occupata”, come si può leggere in un articolo di Memo (Middle East Monitor) del 15 Ottobre. Al momento, sono circa 200.000 i coloni israeliani risiedenti nell’area di Gerusalemme Est, capitale del futuro Stato di Palestina secondo gli accordi di Oslo.
La convivenza con i coloni è assai difficile e frequenti sono le provocazioni, negli ultimi tempi. Secondo fonti palestinesi, riferite all’agenzia di stampa Ma’an News, martedì scorso un gruppo di coloni ha incendiato la moschea di Abu Bakr al-Saddiq nel villaggio di Aqraba, sud di Nablus, dopo aver rotto porte e finestre e averne vandalizzato gli interni con scritte discriminatorie e razziste. La popolazione locale è riuscita a scacciarli e ad estinguere il fuoco. Diversamente è andata a Betlemme e nell’area vicino ad Ebtat, dove mercoledì i coloni provenienti dagli insediamenti di Beitar Illet hanno devastato alcuni frutteti di proprietà palestinese sradicando e incendiando decine di alberi di ulivo, l’orgoglio dell’economia locale, la cui produzione è, per questi motivi, spesso troppo costosa e poco accessibile. Quella della devastazione territoriale ed agricola è una pratica molto ricorrente, soprattutto nel periodo del raccolto, e che rientra pienamente nella strategia, apportata dall’occupazione, di annientamento del mercato palestinese rendendo, in questo modo, la maggior parte della popolazione dipendente dall’economia israeliana.
Negli ultimi giorni, la Cisgiordania è teatro di duri scontri con le forze di occupazione israeliane. Mercoledì sera, dopo l’ennesima limitazione (due volte in una settimana) all’accesso ai musulmani al di sotto dei 50 anni presso la Spianata delle Moschee a Gerusalemme Est, l’esercito israeliano ha arrestato 17 palestinesi, di cui 4 bambini, radunatisi con una folla che contava 400 persone nei pressi dell’Al Aqsa Mosque, terzo luogo sacro per l’Islam, e lasciando entrare solo un centinaio di israeliani, di cui molti armati. La Spianata da anni è vista dalla comunità ebraica come il cuore dall’ebraismo, in quanto rivendicata come probabile parte del Tempio di Salomone. Sangue invece a Beit Laqiya, nord ovest di Ramallah, dove Bahaa Samir Badir, un ragazzino di 13 anni, è stato ucciso giovedì scorso colpito al petto da una pallottola mentre giocava a calcio, sorpreso da un’incursione dell’esercito. Con questa, sale a 42 il numero delle vittime palestinesi in West Bank dall’inizio dell’anno. Scene simili si sono susseguite presso Aida, Betlemme. Dalla scorsa domenica due volte l’esercito israeliano è entrato nel campo profughi scontrandosi con la forte resistenza degli shebab palestinesi. Tamer Abu Salem, un bambino di 11 anni è stato ferito gravemente. Un proiettile di gomma gli ha perforato la scatola cranica colpendolo sopra l’occhio destro. Ricoverato d’urgenza presso l’ospedale di Beit Jala, il bambino ora è in rianimazione intensiva, ma per mancanza di macchinari specifici l’ospedale si sta attivando per il suo trasferimento.
Dopo la prima riunione di gabinetto del governo di unità nazionale palestinese Fatah-Hamas, nonostante la pressione USA che invita ad attendere nuovi negoziati, il consiglio politico dell’OLP ha scelto di appellarsi all’ONU e di andare in Consiglio di Sicurezza per consegnare una risoluzione che ponga fine all’occupazione dei Territori Palestinesi entro la fine di Ottobre. Il voto si terrà almeno due settimane dopo la presentazione. Così il presidente palestinese Abu Mazen ha deciso di rispondere debolmente con la diplomazia ai colpi di cannoniera israeliana. Intanto Tel Aviv fa i conti con il successo militare, ma non politico, di “Protective Edge” ed in Palestina torna la normalità, la solita tragica normalità.
Jacopo Intini