Lunedì, 22 Dicembre 2014 16:05

Netanyahu in crisi: l'Europarlamento riconosce la Palestina. Ma non basta

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di Jacopo Intini - E’ stata approvata, “in linea di principio”, con 498 voti favorevoli, 88 contrari e 111 astenuti, la risoluzione per il riconoscimento dello Stato di Palestina presentata dal presidente palestinese Mahmoud Abbas mercoledì 17 Dicembre presso il Parlamento Europeo.

Si tratta di un riconoscimento non vincolante per gli stati membri, ma che, secondo l’Unione Europea, potrebbe accompagnarsi a degli sviluppi concreti nei colloqui di pace. L’Europarlamento riafferma “il forte sostegno alla soluzione dei due stati sulla base dei confini del 1967, con Gerusalemme come capitale di entrambi, confini sicuri per Israele e uno stato palestinese indipendente, democratico, autosufficiente e contiguo, in pace e sicurezza, sulla base del diritto di auto-determinazione e del pieno rispetto della legge internazionale” (Ma’an, Memo). Sicuramente un brutto colpo per lo Stato Ebraico; il leader del partito nazionalista Likud, Benjamin Netanyahu, ha incontrato lunedì scorso a Palazzo Chigi il premier Matteo Renzi e il segretario di Stato americano John Kerry per assicurarsi del sostegno politico di Italia e Stati Uniti, fondamentali, ora più che mai, per Israele.

C’è da dire, infatti, che i rapporti di Tel Aviv con l’estero sono in una fase molto critica, specialmente a seguito dell’operazione “Protective Edge” di questa estate che ha rappresentato una grande sconfitta politica per lo Stato di Israele che non è riuscito a raggiungere gli obiettivi prefissatosi e che ha sollevato un polverone mediatico con la strage di civili nella Striscia di Gaza le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. Anche la Casa Bianca, ultimamente, ha mostrato grande diffidenza nei confronti di Netanyahu definito da un funzionario americano, in un articolo pubblicato il 28 ottobre scorso sull’Atlantic Magazine, un “Chickenshit” esprimendo in questo modo l’insofferenza di Barack Obama nei confronti della linea israeliana: “L’unica cosa che gli interessa è proteggere se stesso dagli attacchi politici … Non ha coraggio e non farà nulla per raggiungere un accordo con i palestinesi..”.

La recente ondata di riconoscimenti che ha portato all’approvazione della risoluzione di Abu Mazen, però, non riesce ancora a sfondare il muro della retorica europea; infatti, ad eccezione della Svezia, nessuno degli ultimi riconoscimenti rappresenta un fattore realmente condizionante ed incisivo nei confronti della politica israeliana, limitandosi ad essere, seppur molto importante per la causa palestinese, una presa di posizione del tutto labile e simbolica, ma che è comunque per Israele fonte di grandi pressioni. E ancora pressioni che, mercoledì 17 dicembre, Netanyahu ha percepito chiaramente con la rimozione, da parte della Corte UE, di Hamas dalla “Black List” delle organizzazioni terroristiche internazionali. Scelta che il Tribunale Europeo ha giustificato con un errore procedurale dichiarando che “l’inserimento di Hamas tra le organizzazioni terroristiche nel 2001 non era basata su sentenze giuridiche ma su imputazioni derivanti dalla stampa e da internet”. Insomma, una grande vittoria per il movimento di resistenza che ha scatenato l’ira di Netanyahu che ha accusato gli Stati Europei di non aver imparato nulla dalla tragicità dell’Olocausto e che per questo continuerà a combattere il movimento islamico. 

Dunque sono gli stessi Stati, quelli europei, caratterizzati fino ad oggi da una politica estera apparentemente immobilista nei confronti della questione mediorientale, che vengono accusati di poca chiarezza morale dall’attuale Ministro dell’ Economia Israeliano Naftali Bennet leader del Jewish Home Party. L’unico no europeo arriva dai tedeschi, ancora legati alle questioni storiche della Germania Nazista. La Merkel afferma che un riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina non potrà portare ad una soluzione del conflitto.

Intanto a Israele, il 16 dicembre scorso, vengono consegnate quattro navi militari da ricognizione “Made in Eu”. Protagonista dell’accordo è proprio un’azienda tedesca, la Thyssen Krupp. L’accordo ha creato forti discussioni all’interno dello Stato tedesco, soprattutto dopo l’ultima operazione a Gaza. La Germania ha già venduto in passato allo Stato Ebraico cinque sommergibili nucleari "Dolphin". Un sesto verrà consegnato nel 2017.

La risoluzione consegnata da Abu Mazen il 17 dicembre prevedeva il ritiro delle forze occupanti entro il 2016. Una proposta, però, ritenuta ancora troppo rigida dagli Stati occidentali. Al Consiglio di Sicurezza Onu, per questo, giovedì 18 la Giordania ha presentato al Palazzo di Vetro una bozza più morbida che prevede il “ritiro in fasi entro il 2017” (Nena News). Anche la Francia si è mobilitata, presentando una bozza di risoluzione poi scartata dai leader palestinesi. E’ stata convocata in Svizzera, inoltre, sempre in data 17 dicembre, la Conferenza a Ginevra sui diritti umani nei territori palestinesi occupati. Tra i 196 paesi firmatari della IV Convenzione, Israele, Canada e Usa non si sono presentati all’incontro che hanno definito “senza alcun fondamento”. Nel frattempo in Israele ci si prepara alle elezioni previste per marzo 2015. Sondaggi pubblicati da Haaretz il 18 dicembre, affermano che oltre il 50% degli israeliani non vorrebbe Netanyahu come premier, pur risultando il favorito in assenza di avversari credibili (Nena News).

E in Cisgiordania c'è una nuova escalation. A seguito dell’attentato alla Sinagoga di Gerusalemme il 18 novembre scorso rivendicato dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Israele irrigidisce l’occupazione che ha portato alla morte di Ziad Abu Ein, ministro palestinese, il 10 dicembre scorso. Nonostante gli ultimi passi in avanti con i riconoscimenti europei, l’impasse sembra essere ancora un nodo ben stretto. A Gaza la crisi umanitaria si aggrava e per la prima volta dal termine dell’operazione, sabato 20 dicembre, i boati delle bombe israeliane tornano a farsi sentire a Khan Younis, sud della Striscia, non provocando, però, alcuna vittima. Quella notte un grido si è levato tra la popolazione Gazawi: era quello delle vittime di Shujayea, quattro mesi dopo il massacro.

di Jacopo Intini

 

Ultima modifica il Lunedì, 22 Dicembre 2014 16:14

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