In questi giorni di dure proteste in Turchia si susseguono freneticamente analisi (più o meno fallaci), commenti, fotografie e video dei momenti di tensione a Istanbul. Noi vogliamo proporvi un'attenta analisi politica pubblicata su "ISPIonline" (il website dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) da Stefano Torelli*, ricercatore ed esperto di politica mediorientale:
la Turchia è nel mezzo della più grande manifestazione di dissenso contro il governo dell’AKP che si sia mai registrata e la situazione nelle piazze di Istanbul e Ankara è diventata progressivamente più tesa, a seguito della repressione delle forze dell’ordine e dell’inasprimento delle proteste stesse. Tutto era nato con delle manifestazioni nelle principali città turche contro il progetto del governo targato Erdogan di costruire un centro commerciale e una moschea a Gezi Park, un’area verde di Istanbul, al prezzo di circa 600 alberi tagliati. Con la risposta repressiva della polizia – centinaia di feriti e 1.700 arresti – la manifestazione ha assunto altri toni, fino a diventare una vera e propria manifestazione permanente (con tanto di “occupazione” delle centralissima Piazza Taksim a Istanbul) di dissenso contro il governo di Ankara e quella che viene descritta dagli oppositori come una deriva autoritaria. In realtà i segnali erano nell’aria e, sebbene non si potesse prevedere una simile escalation dello scontro tra manifestanti e forze dell’ordine, è da ormai due anni che il malcontento di parte della popolazione cresce sempre di più. Le motivazioni alla base di tale dissenso e il significato di queste rivolte meritano qualche riflessione.
In molti hanno voluto dipingere i fatti di Istanbul – e di altre città turche, in realtà – come una sorta di resa dei conti tra il Primo Ministro Erdogan e le forze laiche e secolari, che accusano il capo del governo di voler islamizzare la società turca. Sebbene, nei giorni scorsi, la misura legislativa atta a vietare la vendita di alcolici dalle 22 nei locali pubblici e a dare un giro di vite anche sulle pubblicità e sulle concessioni di vendita dei liquori, sia stata l’ultima questione in ordine cronologico al centro del dibattito sulla supposta islamizzazione della Turchia voluta dall’AKP, non è di questo che si tratta. O non solo. Piuttosto, ciò che viene criticato dai manifestanti e che, da anni, viene denunciato da molte organizzazioni non governative e percepito da molti cittadini turchi, ha a che fare con il metodo di governo. Quel 50% di voti totali guadagnati dall’AKP alle ultime elezioni del 2011 rappresenta un’arma a doppio taglio, in quanto da un lato legittima il partito di Erdogan con delle cifre che non hanno eguali in tutto il mondo europeo. Dall’altro, invece, l’alto indice di popolarità rischia di far cadere lo stesso Erdogan nella facile tentazione di governare a colpi di grande maggioranza, proprio forte del risultato ottenuto. E’ proprio la percepita deriva autoritaria del Premier a far scendere in piazza i manifestanti, al di là dei supposti tentativi o meno di attuare un progetto di islamizzazione del Paese. Quest’ultimo aspetto è sicuramente importante da considerare per chi si oppone all’AKP, ma rientra nella più ampia questione di quella che sembra essere un’intolleranza del governo al dissenso.
Fatta questa considerazione, vi è da dire che, nonostante alcuni abbiano voluto offrire un’interpretazione degli scontri di questi giorni in Turchia come la nascita di una sorta di “primavera turca”, questo paragone potrebbe apparire fuorviante. Nonostante le critiche, la Turchia è e rimane un esempio virtuoso di sistema democratico e liberale all’interno del quadro mediorientale; Erdogan non può essere paragonato ad Assad o a Gheddafi e risulta difficile immaginare una reazione del governo che vada oltre il livello di repressione – di per sé già inaccettabile per gli standard europei – già dimostrato. Non sembra essere in pericolo la tenuta della Turchia come sistema democratico, quanto piuttosto i metodi politici adottati dal partito di maggioranza. Il Primo Ministro ha dovuto difendersi da accuse come quella di essere un dittatore, ancor prima che un islamista e, in questo contesto, la polarizzazione tra laici e sostenitori dell’AKP torna, ma solo a un livello secondario. Ciò cui si assiste sembra essere la crisi di un partito e di un modello di governo, più che di un paese, ma allo stesso tempo va detto che l’opposizione, attualmente concentrata soprattutto intorno al CHP, deve dimostrarsi capace di rappresentare una valida alternativa all’AKP, altrimenti continuerà ad esservi quella mancanza di copertura del vuoto creatosi intorno al partito di governo che ha caratterizzato gli ultimi 10 anni di vita politica turca.
L’ultimo aspetto da considerare è come l’AKP potrà uscire dall’attuale crisi. Il presidente Gul ha invitato Erdogan a scusarsi per la mano pesante utilizzata dalla polizia, ma il Premier – a parte l’annuncio di una commissione d’inchiesta sull’accaduto – non sembra intenzionato a tornare sui suoi passi circa il progetto del Gezi Park. Erdogan, uomo politico ben visto e in alcuni casi addirittura ammirato da Washington e da parte dell’Europa, rischia di portare Ankara più lontana dall’Occidente e più vicina a paesi come la Russia. Allo stesso tempo, però, gli stessi Stati Uniti devono fare i conti con la trasformazione di Erdogan, da governante modello a primo ministro poco incline al dialogo con l’opposizione. La democrazia non è in pericolo per via dell’islamizzazione della Turchia – aspetto su cui si sono concentrati molti detrattori di Erdogan in questi dieci anni – ma per la deriva autoritaria che sembra aver colpito un partito troppo forte. Del resto, si tratta di un rischio che si corre in tutti i sistemi democratici, laddove non si siano sviluppati gli adeguati anticorpi strutturali. Uno di questi, potrebbe essere l’abbassamento della soglia di ingresso in parlamento, attualmente fermo al 10%: una percentuale altissima che fa sì che solo tre partiti siano attualmente rappresentati. Il processo di democratizzazione della Turchia ha sicuramente compiuto progressi inconfutabili negli ultimi decenni, ma l’attuale sistema, così come si presenta, ha ancora delle falle da coprire. Gli scontri di questi giorni mettono in evidenza le mancanze del sistema democratico turco, più che metterne davvero in dubbio la sua esistenza.
* Stefano Maria Torelli è Research Fellow dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, e direttore responsabile della Rivista italiana di studi sull’Islam Politico, pubblicata dal CISIP. La sua ricerca si concentra sugli studi mediorientali e, in particolare, sull’Islam politico, Tunisia e Turchia. Su queste tematiche, cura una rubrica settimanale per il magazine del Corriere della Sera, Sette.