Di Pietro Pulsoni* - Lo scorso 11 gennaio, conclusasi la prima lettura del ddl Renzi-Boschi di revisione costituzionale, da parte di molti autorevoli commentatori si è affermato che la sua eventuale approvazione avrebbe determinato una modifica della forma di Stato in senso non democratico.
Mercoledì 20 gennaio, con l’approvazione da parte del Senato, è iniziato l’iter di seconda lettura, che si concluderà tra tre mesi con la deliberazione della Camera.
Democrazia è parola antica che esprime il potere popolare quale presupposto del governo della cosa pubblica ma non ha avuto nelle diverse età storiche una concettualizzazione univoca.
Nei primi utilizzi documentati, secoli prima dell'anno zero, democrazia aveva un'accezione negativa, implicando una sorta di degenerazione plebiscitaria e demagogica del governo popolare.
Nel corso del tempo e delle età la considerazione nel senso comune è poi mutata positivamente, tanto che, a livello mondiale, quasi non vi sono governanti che non rivendichino una propria legittimazione democratica all'esercizio del potere, anche nel contesto di forme di Stato autoritarie.
Nelle democrazie moderne, il principio democratico basato sul suffragio universale ha trovato contemperamento in una serie di principi ulteriori, espressi in un sistema di garanzie costituzionali volte a evitare che una maggioranza (assoluta o relativa) possa detenere il potere politico in modo illimitato nei contenuti e nel tempo, così da impedire la possibilità del ricambio delle persone o delle fazioni al vertice del sistema statale e forse di pregiudicare la stessa esistenza delle minoranze.
Chi scrisse la Costituzione italiana nel 1947 ha avuto ben presente tale rischio – avendone percepito le conseguenze sulla propria pelle, nei precedenti venticinque anni dell'era fascista - e ha delineato un sistema basato sulla sovranità popolare di cui è espressione il Parlamento.
Il Parlamento approva le leggi e, tramite atti di indirizzo e controllo, determina la politica nazionale, la cui parte esecutiva è affidata al Governo.
Quest'ultimo dirige la macchina pubblica e si rapporta con gli altri Stati.
Il rapporto tra i due organi e l’ordine dei magistrati (che esprime il potere giudiziario) è vigilato dal Presidente della Repubblica, che nomina i Governi in base alle indicazioni del Parlamento e ha il potere di sciogliere il Parlamento.
A chiusura del sistema è previsto che i principi e le regole della Costituzione, trovino poi un ulteriore custode nella Corte Costituzionale.
Questa è un organo collegiale, composto da quindici persone con un'opportuna preparazione (giudici, avvocati e professori di diritto), cinque delle quali nominate dal Presidente della Repubblica, cinque elette dal Parlamento in seduta comune e cinque elette dai magistrati. La Corte Costituzionale verifica che le leggi non vadano contro i principi espressi nella costituzione e che i poteri pubblici agiscano in conformità ad essa.
Per modificare la Costituzione è previsto che vi sia una doppia deliberazione di Camera e Senato e che tra le due debba trascorrere un intervallo di tempo lungo (almeno tre mesi), per evitare che possa essere frutto di un “colpo di mano” della maggioranza.
Se poi le modifiche vengono approvate con una maggioranza inferiore ai due terzi, vi è la possibilità che anche il popolo venga chiamato direttamente ad esprimersi sulla riforma con un referendum costituzionale. Anche la riforma Renzi-Boschi sarà sottoposta a referendum.
La riforma appena approvata non è, infatti, ancora efficace e lo diventerà solo dopo una definitiva approvazione parlamentare e referendaria, altrimenti diventerà lettera morta.
Riguardo i contenuti, la riforma Boschi-Renzi non porta delle vere novità, le modifiche proposte sono infatti presenti nel dibattito politico dal oltre trent’anni e hanno costituito l'oggetto di vari tentativi falliti di riforma – chi non ricorda l’ “inciucio” della bicamerale di D'Alema o la riforma voluta da Berlusconi e bocciata dal popolo nel 2006?
Sono molti i punti in comune tra tali proposte e quella oggi in discussione.
I tratti più significativi della riforma Boschi-Renzi sono:
- la trasformazione del Senato in un organo non eletto dal popolo, ma dai consiglieri regionali e composto non più da 315 ma da soli 100 senatori;
- la trasformazione del procedimento legislativo (oggi è unico: le leggi devono essere votate nello stesso testo dalla Camera e dal Senato per entrare in vigore) che viene “pasticciato” creando, in ragione della materia, una serie di sette (secondo alcuni otto o dieci) diversi procedimenti in cui il Senato assume un ruolo diverso, a volte intervenendo con gli stessi poteri della Camera, a volte esprimendo un parere e a volte restando estraneo alle deliberazioni, ogni volta con quorum di approvazione differenziati;
- la restrizione alla sola Camera della possibilità di sfiduciare il Governo, costringendolo alle dimissioni (oggi può anche il Senato);
- il trasferimento dalle Regioni allo Stato di una serie di competenze legislative, che attualmente sono ripartite, in materie importanti, su tutte la produzione e la distribuzione dell'energia (parliamo spesso di trivelle, gasdotto snam, ombrina ecc.);
- l'elezione dei giudici costituzionali non più da parte del Parlamento in seduta Comune ma, separatamente, tre dalla Camera e due dal Senato.
Non è un pazzo né un gufo chi ritiene che le trasformazioni che la riforma apporterebbe alla forma di Stato siano pericolose. Né è esagerato dire che dalla combinazione delle riforme costituzionali con il sistema elettorale, il cosiddetto Italicum, risulti un complessivo assetto non democratico della forma di Stato.
È opportuno ricordare che, dopo anni in cui lo si era affermato in ogni sede politica e accademica, nel gennaio del 2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale (Porcellum) con cui nel 2013 è stato eletto il Parlamento in carica, per violazione del principio democratico.
Ha ritenuto la Corte che tale legge, basata sulle liste bloccate (l'assegnazione dei seggi non dipende dalle preferenze ottenute dal candidato ma dall'ordine di presentazione nelle liste decise che viene deciso dai singoli partiti), sulla possibilità per i candidati di essere presentati in più collegi (dunque di disporre di concerto con il partito dei seggi ottenuti) e su un premio di maggioranza relativa che assicurava la maggioranza della Camera alla lista più votata (anche se per ipotesi avesse avuto solo l'1% dei voti), aveva privato il cittadino della possibilità di scegliere i propri rappresentanti.
Il Parlamento, dunque, non è attualmente legittimato dal voto popolare.
Il sistema delle garanzie previsto dalla Costituzione, dopo la sentenza n. 1/2014, avrebbe imposto al Presidente della Repubblica (Napolitano), di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni con la legge elettorale modificata dalla sentenza della Corte (proporzionale puro senza premio di maggioranza, divieto di candidatura in più collegi e assegnazione dei seggi in base alle preferenze personali).
Ciò non è avvenuto ed anzi il Parlamento ha celermente approvato una legge elettorale affetta dai medesimi vizi della precedente, l’Italicum appunto.
L'avvocato Besostri, che patrocinò la causa che ha condotto alla dichiarazione di incostituzionalità del Porcellum, dopo l'approvazione dell'Italicum ha dichiarato che «ci sarebbe da pentirsi per essersi spesi nel far dichiarare incostituzionale il Porcellum». Tuttavia ha già avviato iniziative giudiziarie analoghe nei confronti dell’Italicum.
L'eventuale approvazione della riforma costituzionale, combinata con l'Italicum, ridurrebbe clamorosamente il sistema di garanzie costituzionali a tutela della separazione tra i poteri e della democrazia.
Infatti, vincendo le elezioni e ottenendo la maggioranza assoluta della Camera, alla luce della sproporzione numerica tra questa e il Senato (630 a 100) un partito da solo potrebbe:
1. eleggere il Presidente della Repubblica, che a sua volta nomina cinque giudici costituzionali;
2. eleggere tre giudici costituzionali;
3. eleggere un terzo dei membri del consiglio superiore della magistratura (espressione del potere giudiziario).
Tutto questo in aggiunta alla legge elettorale che già permette ai vertici dei partiti di selezionare i parlamentari nelle liste (spesso sulla base dell'appeal elettorale e sulla “fedeltà alla linea”), dunque di esercitare un'influenza considerevole sul Parlamento.
Senza voler dare giudizi di merito o men che meno indicazioni di voto, l'analisi che precede vuole sottolineare come la riforma, intervenendo su un sistema politico la cui dissoluzione è sotto gli occhi di tutti, compie un ulteriore – forse decisivo – passo, allontanandosi da una democrazia effettiva e partecipata verso un sistema di investitura del leader di un partito ormai privo qualsiasi substrato ideologico.
Riprendendo le parole dell'intervista a Gustavo Zagrebelsky pubblicata da La Repubblica dello scorso 13 gennaio, «È in corso da 30 anni un'involuzione che ha rovesciato la piramide della democrazia. La base, cioè i cittadini, le loro associazioni, le strutture sociali, contano sempre di meno, e sempre di più contano i vertici, che siano i vertici dei partiti o delle istituzioni».
* Dottorando, studioso e autore di saggi di diritto costituzionale