Si è aperta l’8 febbraio la mostra “Poetica e tecnica: costruzione dello spazio scenico” che l’Accademia di Belle Arti di L’Aquila ha dedicato a Ferdinand Wögerbauer e che durerà fino al 30 maggio. Un’occasione per guardare le foto di scena e modellini (realizzati dagli studenti dell’Accademia su quelli originari del Teatro dell’Opera di Salisburgo) di alcuni spettacoli per prosa e lirica che lo scenografo austriaco ha creato lungo la sua carriera.
Sono circa 20 anni che Wögerbauer e il light designer Joachim Barth, presente anch’egli in Accademia sia per l’inaugurazione che per il workshop che l’ha preceduta, lavorano con Peter Stein, “l’ultimo dei registi” secondo Umberto di Nino, uno dei professori della Scuola di Scenotecnica dell’Accademia che, dopo aver inviato lo scorso agosto 4 allievi a lavorare al “Flauto Magico” realizzato da Wögerbauer con Stein per il Teatro Alla Scala di Milano, ha organizzato l’evento espositivo affidato alla cura della tesista sul teatro tedesco Lucia Paolucci.
L’occasione è stata propizia per realizzare un’intervista a Ferdinand Wögerbauer e a Joachim Barth.
Vincitore del Premio Giovani “Vincenzo Cerami” per la Miglior scenografia per lo spettacolo “Der Park” scritto da Botho Strauss e diretto da Peter Stein nel 2015 per il Teatro di Roma, Wögerbauer, riferendosi a Strauss dice “lui è un autore degli anni ’70 - anni ’80 di Berlino. A me piace molto come lui guarda alle persone, perché lui scrive tanti libri che non sono testi teatrali, ma anche novelle”, come fossero flash di idee su persone che incontra. La sua scenografia non ha risentito di quella che Stein aveva per l’esordio alla Schaubühne a Berlino negli anni ’80 perché, dice, “il ritmo dello spettacolo è stato molto chiaro. Abbiamo cercato di approfittarci di qualche soluzione della struttura della scena che funzionava a Berlino, trasformata in un altro sistema teatrale” visto che la Schaubühne e il Teatro Argentina sono diversi come luoghi. “Abbiamo cercato una sintesi. Perché in questo testo teatrale contano gli attori. Io ho cercato cosa fare: quando queste figure come Oberon e Titania si confrontano con una città dei nostri tempi è un’idea geniale, di questa Arcadia del periodo di Shakespeare, dove quasi l’Arcadia è il simbolo del Paradiso, questo paesaggio della natura in equilibrio.” Sebbene, dice “Con gli spazi e le possibilità siamo stati limitati. Si comincia a trovare dei collegamenti.” E aggiunge: “Con loro ho cercato una soluzione per una tournée”, soprattutto perché il Teatro di Roma aveva anche un problema economico.
Com’è lavorare con Peter Stein? Come vi relazionate alle sue opere teatrali lunghissime? “Der Park” durava 4 ore e mezzo…
F.W. Questo è poco! “Demoni” era lungo, “Wallenstein” era lungo e “Faust” era un po’ più lungo. Quello è dove era lungo!
J.B.: “Faust” 21 ore.
F.W.: Questo è del 2000. Tutto il “Faust”, 1 e 2, senza tagli. Questo era un sogno di Peter da realizzare. Questo sogno esisteva in lui già da una decina di anni prima e poi con il finanziamento dell’Expo [di Hannover, ndr], con i soldi di Berlino, con i soldi di Vienna, con i soldi…
J.B.: di televisione…
F.W.: di Vodafone… é stato messo in piedi un finanziamento per questo “Faust” completo…
J.B.: integrale…
F.W.: Presentato in 2 giorni, tutto: dal sabato pomeriggio fino a domenica a mezzanotte.
J.B.: Vuol dire uno spettacolo per settimana. Sabato, domenica e il resto preparazione, preparazione, riposo…
Come vi siete organizzati per questi spettacoli?
F. W.: Joachim era il direttore tecnico, produttore dello spettacolo. Spettacolo con 54 tir!
J.B.: 55!
F.W.: 55! C’erano due scenografi all’epoca per “Faust”: per “Faust 1” e per “Faust 2”. Io ho lavorato su “Faust 1”. Era una preparazione di un anno e mezzo, poi con le prove di un anno lo spettacolo viveva un altro anno. Quello sono progetti che non so… io non conosco un altro progetto di questo genere in Europa in questo periodo in cui vivo io. Perché è partito da zero, poi ha fondato teatro, macchinisti, lavoratori: lavoratori scenici, lavoratori per i costumi… L’unica cosa che esisteva erano i soldi, il resto è stato necessariamente organizzato.
Quale delle vostre opere teatrali vi sentite più soddisfatti di aver realizzato?
F.W.: Non c’è una risposta a questa domanda perché il principio, secondo me, è che quando le cose vanno bene esiste una certa soddisfazione, ma nello stesso momento è accompagnata da questo lato in cui non è stato risolto dove si sperava. Non so come vedi tu la situazione? [rivolto a Joachim, ndr]
J.B. “Demoni” era un bel spettacolo, no? Quale spettacolo era più bello?... No, non funziona.
Penso che il motivo sia che sono tutte opere vostre e quindi le amate tutte.
F.W.: No, perché sono opere diverse. E’ difficile di comparare su quale valore si decide ‘questo è un bello spettacolo’. Il migliore ha avuto due mesi di prova felici, con tanti sorrisi. Bello! Avere due mesi di prova dura, bello! Ogni spettacolo ha una sua vita. Poi ogni testo porta un comportamento diverso: come si vive, come si gestisce una serata. Non so! Un valore è quando un’opera teatrale è stata accettata dal pubblico e lo spettacolo diventa con la sala quasi piena: questa è un soddisfazione, sì!
J.B.: Si può scegliere forse un punto che è l’attore, l’autore o il compositore. Shostakovich era meraviglioso. Abbiamo fatto altre opere che non mi piacciono così, ma questa è una cosa dell’autore e del compositore.
Per fare una buona scenografia esiste una regola?
F.W.: No! Sarà facile? Si fa così? No, perché di una lettura dello spettacolo, secondo me, come noi siamo costruiti, esiste per ogni spettacolo un’altra lettura, un’altra interpretazione. A me non mi interessa quasi di usare uno ‘stile’, uno stile di scenografia per mettere su uno spettacolo. No! A me piace scoprire una possibilità di mille per ogni spettacolo perché questo è anche divertente, così si è riempito anche il mio mondo ricco e le mie esperienze diventano ricche.
Come lavorate?
F.W.: E’ un misto perché è un team dove esistono le situazioni, dove qualcuno è più concreto, esiste una sicurezza, dove le domande sono aperte, come posso avvicinarmici e vive della coesistenza del lavoro insieme, perché le idee, quelle che esistono all’inizio non è detto che siano le idee finali. Una cosa, secondo me, importante in generale è di avere una relazione insieme a quel gruppo, una relazione in buono e in male, in momenti in cui non si è per niente carino l’uno sull’altro e non perdere il collegamento, quello dove siamo contenti e felici insieme, quello di dividere tutti questi lati della strada. Quella crescita della relazione è collegata almeno con lo sviluppo: così un testo teatrale, così l’opera lirica. E’ sempre lo stesso meccanismo. Si parte sperando di aver trovato una strada e si cerca di seguire quella strada e non è detto che si arrivi a quel punto che ci si aspettava all’inizio. La soddisfazione alla fine è di aver trovato di meglio di quella situazione. Di non bloccarsi in un punto.
Voi lavorare a livello internazionale in Italia, Austria, Germania…
J.B.: Russia, Svezia, Francia…
F.W.: America…
Pensate ci siano delle differenze con il teatro italiano?
F.W.: Tantissimo, semplicemente tantissimo.
J.B.: Ogni Paese ha la sua maniera, il suo sistema, la sua organizzazione e ci si deve sempre adattare al sistema del teatro dove si lavora. Non possiamo venire noi e mettere sul teatro il nostro sistema: non funziona perché ogni teatro ha la sua organizzazione, la sua maniera. È sempre differente, come la lingua.
Come vi siete formati? Chi sono stati i vostri maestri principali? E’ stata diversa la vostra formazione rispetto a quella che c’è oggi?
J.B.: Dal mio punto di vista era come io ho dato il libro oggi di Max Keller, che era anche un team in un piccolo teatro a Monaco, “Kammerspiele”, molto famoso in Germania, con regista Dieter Dorn, con scenografo Jürgen Rose e come light designer Max Keller. E loro per me hanno creato degli spettacoli che io non dimenticherò mai nella vita perché in questo tempo, quando l’ho visto la prima volta, era pazzesco.
F.W.: Come nello stesso periodo esiste da voi il teatro di Strehler, o anche Luca Ronconi, c’erano anche altri spettacoli che sono rimasti. Ma qualcosa sulla scuola diversa, ma sulla cultura diversa perché ogni Stato, praticamente, diciamo quando si parla adesso della prosa, lavora sulla lingua dello Stato. Ogni lingua ha la sua melodia, il suo comportamento, la sua espressione, la sua lettura. Ma per me anche Kammerspiele, Achim Freyer, così Schaubühne, per me prima anche il teatro tedesco e poi dipende pure un po’ dal punto, quando si aprono gli occhi e si scopre, oh!, esistono anche un Peduzzi che lavora con Chéreau in questo strano laboratorio un po’ fuori di Parigi in quel “Peer Gynt”, eccetera… Si è scoperto Il Piccolo di Strehler, molto dopo ho visto qualche documentazione di Ronconi quando lui ha fatto nei primi anni ’70 le Valchirie sull’ala dell’aereo… E’ un processo, come a scuola. Secondo me l’importante è di avere le fiamme e l’interesse, la curiosità. Serviva. E’ servita a noi questa voglia della curiosità così come serve anche alla giovane generazione di essere curiosi perché solo con la curiosità si alza la vista, diciamo, dalla scrivania verso l’orizzonte.
Nella locandina della mostra c’è scritto “So wenig wie möglich, soviel es braucht", cioè “il meno possibile, per quanto è necessario”. Perché?
F.W.: Genau! [trad. italiana = Esatto!, ndr] In primo luogo, alla prosa e alla lirica, secondo noi, conta l’umano/la persona, il carattere e il collegamento di questo Umano si presenta in un parco e con quel ponte questo si apre durante la serata in qualsiasi modo dell’interpretazione del teatro, in qualsiasi lingua del teatro. Lo stesso punto la lirica, quando la musica trasporta noi il canto e la persona che lo fa il canto. Quando loro sono bravi, cosa serve attorno? Serve solo un approccio, così abbiamo quasi un po’ completato l’immagine, ma non essere prepotente di metterci in più e in più perché c’è ancora l’idea, mettiamo quell’idea. È più giusto fare quello che serve e fermarsi prima di andare verso il manierismo o semplicemente la decorazione. Questo serve come a “Demoni”: per qualche scena serve solo un tavolo e una sedia, basta: non serve di più. Sì, un piccolo aiuto dietro di lui, ancora un piccolo pezzo di parete così lui non sta vuoto nello spazio scenico. Ma più di questo, come abbiamo visto, non serviva: è abbastanza. Joachim ha visti tanti, mille spettacoli, con tante mille varianti, mille altri artisti. Il suo mondo è ricco. Ma credo che questa non è una frase da me. Questo secondo me è una frase che accade per tante cose della vita. Cosa serve di, non so?, di riempire un regalo di formaggi di 50 diversi tipi? Io voglio comprarne solo uno. E’ meglio quando se ne ritrovano 10 e si sceglie fra i 10. E già basta.
J.B.: Ma questa è la scelta perché ci sono tanti formati, ma la scelta è: io voglio solo mangiarne 3. Quali sono i 3 per questa sera? E la scelta è di eliminare tutto quello che è possibile e rimane quello che è necessario e che funziona. E così con le luci, perché ci sono miliardi di possibilità, di colori, di intensità: fare una scelta a quello che è necessario e che funziona qui. E lasciar perdere tutto il resto.
Quale è l’opera teatrale alle quale state lavorando in questo momento? Quale sarà il vostro prossimo spettacolo?
F.W.: La Scala sarà il prossimo anno. Stein prepara un “Richard II” per Prato e questa è una produzione molto piccola perchè non hanno soldi. Fanno più o meno un po’ come quello di Pinter di due anni fa, “Il ritorno a casa”. Poi vediamo, per il momento un po’ di pausa perchè abbiamo fatto adesso un mezzo anno di percorso. Abbiamo cominciato con le prove agli inizi di giugno a Mosca, da Mosca si è spostato a Milano per il “Flauto”, dopo il “Flauto” siamo andati in Svezia per il “Figaro”, dopo il “Figaro” abbiamo fatto la ripresa del “Carlos” alla Scala.