Lunedì, 28 Maggio 2018 13:47

La crisi istituzionale. Il ruolo di Mattarella, il dettato Costituzionale, lo scontro politico con Lega e Movimento 5 Stelle che già pensano alle prossime elezioni

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Viviamo uno scontro istituzionale senza precedenti; una situazione politica delicata, da ‘maneggiare’ con cura, e che chiama la politica ad un alto senso di responsabilità.

All’indomani della decisione di Giuseppe Conte di rimettere il mandato affidatogli dal Capo dello Stato per formare il governo [qui], con l'incarico appena conferito a Carlo Cottarelli, i partiti usciti vincitori dalle elezioni del 4 marzo, Movimento 5 Stelle e Lega, hanno attaccato frontalmente il Presidente della Repubblica, ‘reo’ di aver posto il veto sulla nomina di Paolo Savona al ministero dell’Economia attorno a cui il ‘Carroccio’, e i pentastellati di rimessa, avevano ancorato l’avvio del così detto ‘governo del cambiamento’.

E qui sta il primo paradosso della vicenda: il ‘governo del cambiamento’, a valle di 80 giorni di trattative, è naufragato intorno alla figura di un professore di 82 anni, una lunga carriera in Banca d’Italia, già direttore generale di Confindustria con vari incarichi istituzionali alle spalle, vicepresidente dell’Aspen Institute Italia, ministro dell’Industria e del riordino delle partecipazioni statali nel governo Ciampi, accanto a Guido Carli allorquando l’allora ministro del Tesoro firmò per l’Italia il trattato di Maastricht. Da anni, Savona è passato a contestare con rudezza le elité di Bruxelles e la moneta unica, prefigurando, tra l’altro, l’uscita dell’Italia dall’Euro e parlando della Germania come di un paese che “non ha cambiato la visione del suo ruolo in Europa dopo la fine del nazismo”. Savona è stato molto critico nei confronti dell’ex presidente del Consiglio Mario Monti, “portabandiera del servilismo agli interessi dei poteri dominanti”, del governatore della Bce Mario Draghi e di Ignazio Visco, colpevoli a suo dire “di aver contribuito a chiudere l’Italia nella gabbia europea”.

Per questo, il presidente della Repubblica aveva chiesto a Lega e Movimento 5 Stelle di indicare per l’Economia “un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con il programma, che non fosse visto come sostenitore di una linea più volte manifestata e che potrebbe provocare l’uscita dell’Italia dall’euro”. Innanzi all'irrigidimento di Matteo Salvini e Luigi Di Maio, ha chiarito che “il Capo dello Stato non può subire imposizioni”.

E qui sta l’altro nodo della vicenda. Torneremo più avanti sugli scenari politici prefigurati dalle parole di Sergio Mattarella.

In sostanza, il Presidente della Repubblica ha fatto riferimento all’articolo 92 della Costituzione che recita: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. Significa che anche se è la persona incaricata di formare il nuovo governo a presentare i nomi dei futuri ministri, è il presidente della Repubblica a nominarli. Tuttavia, i Costituzionalisti si sono ‘divisi’ sulla interpretazione dell’articolo 92.

Massimo Luciano, presidente dell’Associazione costituzionali italiani, ha dichiarato al Corriere della Sera che il Presidente “ha esercitato i suoi poteri costituzionali […] Ha ritenuto che la scelta di un certo ministro, per una posizione chiave del governo, mettesse a rischio gli interessi del nostro Paese. Questa è una valutazione istituzionale”. Stando a ciò che ha scritto Livio Paladin nel suo manuale di Diritto Costituzionale, tuttavia, “la predisposizione della lista dei Ministri da parte del Presidente del Consiglio incaricato costituisce una proposta vincolante per il Capo dello Stato, il quale non potrebbe rifiutare alcuna nomina, se non nel caso estremo di un soggetto palesemente privo dei requisiti giuridicamente richiesti per ricoprire l’ufficio. Viceversa, il compito che personalmente spetta al presidente della Repubblica si risolve nel mettere in moto il processo di formazione del governo, a prescindere da qualunque ulteriore ingerenza che possa condursi all’affermarsi di un indirizzo politico presidenziale”.

Andrea Piermarocchi, avvocato aquilano, dottore di ricerca in Diritto Costituzionale, ha aggiunto che “l’interpretazione tradizionale dell’articolo 92” inquadra il veto del Presidente della Repubblica sulla nomina di un ministro come “ipotesi del tutto eccezionale; tant’è vero – ha chiarito – che dovrebbe seguire una dettagliata motivazione delle ragioni della scelta. Infatti, non spetta al Capo dello Stato di sindacare la scelta di un ministro, che è un atto politico e, come tale, forma oggetto del vaglio successivo da parte del Parlamento che, riunito in seduta comune, è chiamato a votare la fiducia al Governo ex art. 94 della Costituzione”. In effetti, l’Italia non è una repubblica presidenziale, “né semi presidenziale, né parlamentare a correttivo presidenziale, sebbene alcuni autori moderni abbiano pure riscontrato un certo recente sconfinamento degli ultimi Presidenti della Repubblica in ambiti tradizionalmente non nelle loro disponibilità”. Il Capo dello Stato – ha ribadito Piermarocchi – “è organo di garanzia costituzionale ed il suo agire, salvo rarissimi casi, non deve confondersi con la politica”.

Qui sta il confine sottilissimo tra la prerogativa del Presidente della Repubblica di porsi a ruolo di garante che, come spiegato da Mattarella, “non ha mai subito, né può subire, imposizioni” e l’ingerenza politica sulle scelte di una maggioranza parlamentare. D’altra parte, non è la prima volta che un Capo dello Stato pone ‘veti’ sulla nomina di un ministro: è già accaduto in passato ma sempre per motivi che non attenevano direttamente agli intendimenti politici della maggioranza parlamentare e del ministro indicato; nel 1994, Oscar Luigi Scalfaro ottenne dal presidente del Consiglio incaricato, Silvio Berlusconi, che non venisse nominato Cesare Previti al dicastero della Giustizia, essendo all’epoca avvocato dello stesso Berlusconi e notoriamente avverso alla magistratura italiana che, in seguito, lo condannerà due volte in via definitiva per corruzione. Il presidente del Consiglio lo ‘dirottò’ alla Difesa. Sette anni dopo, Carlo Azeglio Ciampi si oppose alla nomina di Roberto Maroni allo stesso dicastero della Giustizia, per via del processo in corso a suo carico per essersi opposto ad una perquisizione nella sede del Carroccio. Maroni finì al Lavoro. Nel 2014, infine, Giorgio Napolitano ha dissuaso Matteo Renzi dal nominare ministro della Giustizia Nicola Gratteri per la consuetudine che un magistrato in servizio non possa ricoprire tale incarico. Stando ad alcuni rumors della stampa, tuttavia, pare che Napolitano non condividesse l’atteggiamento poco garantista di Gratteri. Sta di fatto che Renzi nominò Andrea Orlando.

Stavolta, però, il Presidente della Repubblica ha dichiarato esplicitamente di aver chiesto l’indicazione di un “autorevole esponente politico della maggioranza che non sia visto come sostenitore di linee che potrebbero provocare la fuoriuscita dell’Italia dall’Euro, cosa differente dal cambiare l’Unione Europea in meglio dal punto di vista italiano”. Ed eccoci al confine, che abbiamo definito sottilissimo, tra l'ingerenza sulle legittime scelte politiche di una maggioranza parlamentare eletta e il ruolo di garante del Capo dello Stato: “l’incertezza sulla nostra posizione nell’euro ha posto in allarme investitori e risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende”, ha dichiarato Mattarella; “l’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali. Le perdite in Borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi vi ha investito e configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e delle famiglie italiane. Bisogna fare attenzione, inoltre, al pericolo di forti aumenti degli interessi per i mutui e per i finanziamenti alle aziende: in tanti ricordiamo come, prima della Unione monetaria europea, gli interessi bancari sfioravano il 20%. E’ mio dovere essere attento alla tutela dei risparmi degli italiani”.

Siamo al nodo politico.

Oltre l’interpretazione dell’articolo 92 che, come detto, è oggetto di autorevoli pareri che pure divergono tra di loro, sebbene l’impostazione consolidata data dalla consuetudine interroghi, senza dubbio, sulla decisione assunta dal Capo dello Stato, e oltre le pericolose derive auspicate da alcuni esponenti politici – in particolare dal Movimento 5 Stelle – che hanno parlato di ‘messa in stato d’accusa del Presidente’, una procedura complicatissima e che, a dire il vero, pare davvero non perseguibile, l’intervento del Presidente della Repubblica, stavolta sì, molto politico e irritualmente aspro, tra le righe lascia spazio a più ampie riflessioni.

Rileggiamo, passo dopo passo. “Si è manifestata una maggioranza parlamentare tra il Movimento 5 Stelle e la Lega che, pur contrapposte alle elezioni, hanno raggiunto una intesa dopo un ampio lavoro programmatico; ne ho agevolato in ogni modo il tentativo di dar vita ad un governo, ho atteso i tempi da loro richiesti per giungere ad un accordo di programma e per farlo approvare dalle rispettive basi di militanti, pur consapevole che questo mi avrebbe attirato osservazioni critiche”. Seppur velatamente, Mattarella ha inteso sottolineare la irritualità dell’atteggiamento politico di Luigi Di Maio e Matteo Salvini in questi 80 giorni: è stato concesso loro di accordarsi, a valle di un lungo tira e molla, di stendere un contratto di governo pieno zeppo di provvedimenti e per cui, tra l’altro, non si conoscevano le fonti di finanziamento, un contratto sostanzialmente in deficit che teneva dentro il reddito di cittadinanza e la flat tax che flat più non era, ma a due scaglioni; è stato concesso loro il tempo di trovare una sintesi su chi dovesse ottenere l’incarico di primo ministro e pure di sottoporre l’accordo ad un voto online, per i sostenitori del 5S, e ad una firma ai gazebo, per i simpatizzanti della Lega, uno strumento di propaganda e poco più.

Altra sottolineatura del Capo dello Stato: “Ho accolto la proposta per l’incarico di Presidente del Consiglio, superando ogni perplessità sulla circostanza che un governo politico fosse guidato da un Presidente non eletto in Parlamento”. Scelta poco comprensibile, in effetti, se è vero che le forze politiche che hanno sottoscritto il contratto non avevano mancato di denunciare come, in passato, dalla fine del governo Berlusconi in poi, ci si fosse ritrovati con presidenti del Consiglio “non eletti dal popolo”. Scelta difficile da mandar giù, per il Capo dello Stato, considerato che il primo ministro sarebbe stato, in sostanza, un mero esecutore degli intendimenti dei capi politici delle principali forze di governo che avrebbero assunto la guida di dicasteri chiave. Altra situazione piuttosto irrituale. Eppure, “ne ho accompagnato con piena attenzione il lavoro per formare il governo” le parole di Mattarella, che ha aggiunto: “nessuno può dunque sostenere che io abbia ostacolato la formazione del governo che viene definito del ‘cambiamento’”. E non si può che notare il passaggio del Capo dello Stato, allorquando sottolinea come il governo nascente “fosse definito” del cambiamento.

Ma c’è di più.

Avevo fatto presente, sia ai rappresentanti dei partiti sia al presidente incaricato, senza ricevere obiezioni – ha tenuto a sottolineare Mattarella – che su alcuni ministeri avrei esercitato una attenzione particolarmente ampia sulle scelte da compiere”. Insomma, Lega e Movimento 5 Stelle erano state avvertite per tempo, eppure Giuseppe Conte si è presentato al Capo dello Stato con una lista di ministri che prevedeva l’incarico a Paolo Savona: un atteggiamento che, in Quirinale, è stato vissuto come un atto di sfida inaccettabile. “A fronte delle mie sollecitazioni, ho registrato con rammarico indisponibilità ad ogni altra soluzione”, ha chiarito Mattarella agli italiani; sebbene il Capo dello Stato avesse aperto alla nomina di “un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con il programma”.

Un passaggio che ‘apre’ ad ragionamenti: il Presidente della Repubblica ha inteso ribadire di aver fatto di tutto per consentire a Lega e Movimento 5 Stelle di avviare, finalmente, la legislatura, di aver accettato passaggi irrituali e poco chiari, di avere avvertito per tempo che la nomina di Savona non sarebbe stata gradita aprendo alla figura di Giancarlo Giorgetti, vice di Matteo Salvini, uomo forte della Lega, parlamentare dal 1996 e presidente della Commissione bilancio dal 2001 al 2006. In sostanza, il Capo dello Stato ha voluto lanciare un messaggio chiaro: a spingere il primo ministro incaricato a rimettere l’incarico è stata la presa di posizione di Lega e M5S che, invero, è difficile da comprendere, dato che Giorgetti è uomo di fiducia che avrebbe consentito a Di Maio e Salvini di mettere in pratica l’accordo di governo faticosamente raggiunto. E poco ‘regge’ la giustificazione del leader della Lega che ha sottolineato come Giorgetti “non avesse lo stesso peso di Savona a Bruxelles”: se il professore ha un peso in Europa, in realtà, è proprio per le durissime prese di posizione anti-euro assunte in questi anni e, dunque, la scelta avrebbe dato una connotazione chiara alle intenzioni del governo giallo-verde.

E infatti, Mattarella ha aggiunto di aver chiesto la nomina di un autorevole esponente politico della maggioranza “coerente con il programma”. E questo, è un passaggio davvero importante: sebbene Lega e Movimento 5 Stelle, in campagna elettorale, avessero assunto posizioni fortemente critiche verso l’Europa, arrivando a prefigurare l’uscita dalla moneta unica – si era parlato persino di un referendum – nelle settimane che avevano preceduto il voto del 4 marzo avevano fatto decisi passi indietro e, infatti, nel contratto di governo non si parla affatto di uscita dall’Euro che, al contrario, Savona ha “più volte” evocato. Come dire, l’accordo di programma su cui si è fondata la maggioranza emersa a seguito delle consultazioni non dettava la linea dell’intransigenza a Bruxelles: se M5S e Lega avessero voluto perseguire un tale indirizzo politico, avrebbero dovuto manifestarlo chiaramente e senza infingimenti.

Ecco il senso delle parole di Mattarella, e qui si annida anche la critica di chi, in queste ore, ha accusato il Capo dello Stato di aver compiuto una insopportabile ingerenza politica. Da una parte, il Presidente della Repubblica si è fatto garante della Costituzione che sembra prescrivere – come sottolineato da Piermarocchi – “la partecipazione necessaria dell’Italia all’Unione, evidente da una innumerevole serie di riferimenti espliciti ed impliciti agli articoli 11, 55, 70, 80, 117 e altri”; dall’altra, però, l’uscita dall’euro sarebbe una opzione giuridicamente lecita, prevista dall’articolo 50 del Tfue che – aggiunge Piermarocchi – “disciplina un meccanismo di recesso unilaterale e volontario dello Stato membro”: stando all’orientamento prevalente, sarebbe necessaria una riforma costituzionale che, come noto, è prerogativa politica del Parlamento.

E’ chiaro, tuttavia, che l’uscita dalla moneta unica non è in agenda e, dunque, si spiega ancora meno l’impuntatura di Matteo Salvini sulla figura di Paolo Savona, a meno di non volerla leggere in modo squisitamente politico: per molti osservatori – e ad ascoltare con attenzione le parole di Mattarella, pare che l’ipotesi circoli anche in Quirinale – il leader del Carroccio ha intuito che poteva aprirsi un conflitto istituzionale che avrebbe portato allo stallo attuale che, di fatto, premia la Lega già pronta a giocarsi una campagna elettorale di contrapposizione con “gli interessi di Bruxelles e delle banche”. Una intuizione politica ‘felicissima’, pericolosa se lo scontro col Colle dovesse acuirsi, e che, di fatto, ha spiazzato il Movimento 5 Stelle.

I pentastellati hanno tentato fino all’ultimo una difficile mediazione, proponendo dei nomi che facessero da contrappeso a Savona in seno all’esecutivo e persino lo ‘spacchettamento’ delle deleghe – e di nuovo, si tratta di una formula quantomeno irrituale – chiedendo al professore un deciso passo indietro sull’euro, a qualche ora dal vertice con Mattarella in Quirinale. Non è servito a nulla. E ieri sera, la reazione furente e piuttosto scomposta di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista non ha fatto altro che mostrare la debolezza dei pentastellati, imbrigliati da Salvini. In diretta televisiva – Di Maio da Fazio, Di Battista da Giletti – è iniziata la campagna elettorale, con la richiesta di impeachment per il Capo dello Stato che è parsa una pericolosa forzatura, su cui, d’altra parte, il leader della Lega è rimasto molto freddo, ennesimo segnale di lucidità politica.

Ed ora, Matteo Salvini punta dritto a Palazzo Chigi, che si voti in autunno o all'inizio del 2019, da vincitore assoluto della lunga partita politica iniziata la notte del 4 marzo: potrebbe rinsaldare l’alleanza con i 5 Stelle, e sarebbe comunque il leader indiscusso della coalizione giallo-verde, seppure la strada pare davvero stretta da percorrere. Altrimenti, potrebbe completare la sua ‘opa’ su Forza Italia drenando altri voti dagli azzurri, soprattutto se Forza Italia dovesse decidere di votare la fiducia al governo Cottarelli col tramonto definitivo della coalizione di centrodestra. Con Fratelli d’Italia che, guarda caso, ieri sera ha fatto il ‘gioco sporco’ chiedendo la messa in stato d’accusa del Presidente, potrebbe nascere così un polo sovranista capace di acuire la contrapposizione tra popolo ed establishment sull’Europa. A meno che Berlusconi non decida di abdicare, e si aprirebbe un’altra stagione per la destra italiana.

Stante la volontà di Matteo Renzi d’intraprendere una ‘marcia’ macronista, con la fuoriuscita dal Pd verso un elettorato moderato e liberare, i forzisti centristi - in realtà - potrebbero dare una spallata, contribuendo alla nascita di un nuovo ‘contenitore’ politico e rinsaldando, così, l’antico legame tra l’ex sindaco di Firenze e il fu ‘Cavaliere’; certo è che l’ipotesi del voto anticipato renderebbe difficoltoso il cammino: non è un mistero che Renzi fosse pronto a ‘rompere’ alla prossima Leopolda che si terrà dal 19 al 21 ottobre. Potrebbe essere troppo tardi.

A sinistra, ‘buio pesto’: si tornasse davvero alle urne entro la fine dell’anno, sarebbe complicato ricostruire un campo progressista allargato; in questo senso, il silenzio di Pd e LeU nelle drammatiche ore che stiamo vivendo è il segno inequivocabile di una assoluta irrilevanza politica che potrebbe davvero segnare la fine del centrosinistra in Italia.

Ultima modifica il Lunedì, 28 Maggio 2018 22:27

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