Giovedì, 26 Dicembre 2013 12:21

I conti in tasca alla riforma: province, serve davvero abolirle?

di 

Cancellare le Province ordinarie è diventato quasi un mantra politico e a Roma si fa sul serio, a costo di violare la Costituzione. Ora ci prova il governo guidato da Enrico Letta, con il ddl “Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni”. Che, sabato 21 dicembre, ha avuto il via libera della Camera.

Dopo diversi mesi di discussione in commissione, il DDL è stato approvato con i voti del PD, Scelta Civica e del NCD. SEL ha votato contro, mentre Lega Nord, M5S e Forza Italia hanno abbandonato l’aula, in un tentativo di far mancare il numero legale sul provvedimento.

Il disegno di legge, in sostanza, regola tre aspetti pratici dell’abolizione delle province. Il primo: stabilisce che i consigli e le giunte provinciali saranno abolite e sostituite da assemblee di sindaci del territorio della vecchia provincia. In altre parole non ci saranno più elezioni, presidenti di provincia, giunte e assemblee provinciali: l’assemblea dei sindaci sarà costituita da tutti i sindaci dei comuni con più di 15 mila abitanti e dai presidenti delle unioni di comuni con più di 10 mila abitanti.
L’assemblea eleggerà un presidente con un sistema di voto ponderato (ogni sindaco conterà in proporzione al numero di abitanti del suo comune). Le funzioni di questa nuova assemblea saranno essenzialmente di pianificazione in aree per cui in precedenza erano competenti le province, come l’edilizia scolastica e le strade. Gli incarichi nell’assemblea provinciale non saranno remunerati.

Gli altri due aspetti regolati dalla legge sono l’istituzione delle città metropolitane e nuove regole per la fusione dei comuni. Quest’ultimo punto serve in sostanza a rendere più facile per i comuni riunirsi e quindi partecipare all’assemblea provinciale. Il primo punto invece è più importante. Le città metropolitane si sostituiranno alle province dal primo gennaio 2014 a Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria (Roma capitale, invece, avrà uno status ancora più particolare).

In queste città, in altre parole, non ci sarà un’assemblea provinciale formata dai sindaci e nemmeno la vecchia provincia. Il sindaco della città metropolitana sarà automaticamente il sindaco della vecchia città capoluogo di provincia. Il sindaco metropolitano sarà affiancato da un consiglio metropolitano – formato da sindaci del territorio eletti dagli altri sindaci – e da una conferenza metropolitana – formata nello stesso modo dell’assemblea provinciale.

In alternativa, ma il punto non è ancora chiaro, il sindaco metropolitano potrebbe essere eletto dai cittadini della ex provincia, diventando in questo modo simile a un presidente di provincia, ma senza un’assemblea di consiglieri eletti (e pagati) dai cittadini.

Il DDL Delrio dovrà essere ora approvato anche dal Senato. Inoltre, bisognerà modificare la Costituzione. Per questo motivo il governo, il 20 agosto (lo stesso giorno in cui venne presentato il DDL Delrio), ha presentato anche un DDL costituzionale con il quale viene modificata la Costituzione per eliminare tutti i riferimenti alle province.

Le leggi che modificano la Costituzione devono essere approvate per due volte da ciascuna Camera e se nella seconda lettura non ricevono almeno due terzi dei voti devono essere sottoposte a un referendum prima di entrare in vigore (un referendum senza quorum). Si tratta, come è chiaro, di un processo piuttosto lungo e complicato.

La domanda è: serve davvero abolire le province? A dare una risposta ci ha provato Zenone Sovilla, per Altreconomia. Ha fatto i conti in tasca alla riforma. E ha tratto spunti interessanti. Una riflessione tutta da leggere. 

"Gli abolizionisti vogliono passare a Comuni e Regioni competenze (e patrimoni) provinciali, per 'razionalizzare' le funzioni amministrative locali e ridurre il personale politico: promettono, per le prime, due miliardi di euro di risparmi l’anno, per il secondo 110 milioni. Ma da tempo è guerra di cifre: c’è chi sostiene che in realtà una simile riforma moltiplicherebbe i costi, per il venir meno delle economie di scala nei servizi e perché il personale passerebbe a enti che applicano contratti più onerosi rispetto alle Province. Inoltre, uno su cinque dei 57 mila dipendenti probabilmente finirebbe ricollocato anche in termini di mansioni e luogo di lavoro, con la necessità di cambiare città.

Nel mese di ottobre, la Cgia di Mestre ha diffuso una stima, secondo la quale la soppressione delle 107 Province a statuto ordinario farebbe risparmiare solo il 3,9% (510 milioni di euro) del loro costo annuo complessivo di 13 miliardi di euro. Gran parte della spesa, infatti, va in servizi da preservare, quali la gestione di 125mila chilometri di strade (circa l’80% della rete nazionale), 5mila edifici scolastici (medie inferiori e superiori), 2.700 palestre, 600 centri per l’impiego, cui si aggiungono trasporto locale, difesa del suolo, ciclo dei rifiuti, pianificazione territoriale di area vasta, tutela ambientale. Quanto ai costi meramente politici, l’agguerrita Unione delle Province italiane (Upi) contesta i 110 milioni ipotizzati dal governo: era così prima della cura dimagrante del 2011, che ha ridotto anche il numero degli eletti. Oggi la cifra corretta si ferma a 32 milioni.

Il paladino della linea dura anti Province - come detto - è il ministro renziano degli Affari regionali Graziano Delrio, già sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci (l’Associazione nazionale dei Comuni italiani). Neanche a dirlo, per lui lo snodo dell’autonomia territoriale sono i municipi, cui passerebbero per esempio tutte le competenze sulla scuola, mentre gli enti intermedi sono ritenuti superflui. Le Province atttuali sarebbero ridotte al rango di agenzie funzionali al servizio dei Comuni (per continuare a occuparsi della rete stradale) e, sul versante politico, a semplici assemblee di sindaci, per ragionare “a costo zero” di questioni marginali. 

La soppressione del diritto di voto per i vertici delle Province, però, è uno dei temi roventi della riforma. A novembre il disegno è stato bocciato anche da parlamentari di maggioranza, e fra i critici ci sono numerosi giuristi, come Piero Ciarlo (uno dei 35 saggi scelti dal governo per le riforme), che non esita a definire la legge “un incomprensibile pasticcio anticostituzionale, che anche se approvato probabilmente sarebbe cancellato dalla Consulta”.

Il nodo dell’elettività è lo specchio di un feroce decisionismo politico contro le Province, che spinge molti detrattori a parlare di restaurazione centralista e di un profilo autoritario, incurante della volontà dei territori coinvolti e dunque del principio di sussidiarietà. Lo stesso presidente dell’Upi e della Provincia di Torino, Antonio Saitta (Pd), contrapponendosi a Piero Fassino -suo compagno di partito e sindaco del capoluogo piemontese-, denuncia in un’intervista con Altreconomia un “disegno incostituzionale che abbassa per legge il livello di democrazia nel Paese”. Il sindaco metropolitano non eletto, come prevede Delrio, “di fatto è un podestà”, accusa Saitta in un appello sostenuto anche da 250 primi cittadini piemontesi.

Si propone, piuttosto, di riprendere il cammino della riforma elaborata dal governo Monti e franata con la fine anticipata della legislatura. All’epoca erano pronti una serie di accorpamenti delle Province piccole, salvo le due interamente alpine di Belluno e Sondrio. La prospettiva individuata l’anno scorso, peraltro secondo criteri opinabili (almeno 350mila abitanti e 2.500 chilometri di estensione), avrebbe innescato un’inversione di tendenza toccando forse il casus belli di questa vicenda: la proliferazione che ha visto il numero delle province salire dalle 94 del 1970 alle 107 attuali. Con il ddl Delrio, invece, anziché ripensare gli enti intermedi cui si potrebbero trasferire maggiori funzioni in una logica di economie di scala (c’è anche chi suggerisce di accorparvi Camere di commercio e prefetture), si preparano 700 unioni comunali, “con una frammentazione gestionale -dice l’Upi- traducibile in perdite di efficienza e maggiori spese di 645 milioni nell’edilizia scolastica e in quasi un miliardo e mezzo negli altri settori”.

A suffragare questo j’accuse è arrivato uno studio del Censis (disponibile sul sito www.censis.it), che difende su tutta la linea la dimensione territoriale provinciale e suggerisce di rafforzarla per rispondere alle esigenze dei territori. L’indagine conferma i fallimenti anche economici cui nel Paese dei campanili sarebbe destinato un sistema iper parcellizzato: 1.484 Comuni dovrebbero gestire mediamente cinque scuole ciascuno in più, coordinandosi con quelli vicini per ripartire gli oneri. Anche dall’analisi dei distretti produttivi e degli ambiti occupazionali emerge una coerenza con gli attuali confini provinciali, nel 75% dei casi per esempio vi è connessione tra residenza e attività lavorativa. Insomma, vien da pensare che non sia un caso se questi enti nascono in gran parte già con l’unità d’Italia: “Le attuali circoscrizioni provinciali contengono all’interno dei propri perimetri tutti i principali processi socio-economici di area vasta. Gli enti che le governano sono dunque il livello istituzionale più adeguato per questo scopo”, osserva il presidente del Censis, Giuseppe De Rita.

Come a dire che fra qualche anno un nuovo ministro potrebbe spiegarci che bisogna fare retromarcia e ripristinare urgentemente le Province per riordinare il caos gestionale atomizzato nella dimensione municipale. Sul ruolo strategico e democratico di quest’ente intermedio il noto urbanista Edoardo Salzano, sul suo blog Eddyburg (www.eddyburg.it), ha ricordato che lo strumento di pianificazione territoriale di area vasta colma un vuoto e storicamente rappresenta il tentativo di dare risposta all’evoluzione reale vissuta dal Paese nel secondo Novecento. Lo studioso -che è stato preside della Facoltà di Pianificazione del territorio dell’IUAV di Venezia- indica fra le materie in cui è essenziale il ruolo delle Province (elette dai cittadini) il contenimento del consumo di suolo, la politica della casa, la promozione dei trasporti collettivi, la tutela del paesaggio e dell’ambiente.

Lo stesso Saitta menziona casi in cui è stata proprio la Provincia a tutelare i territori ostacolando progetti di cementificazione speculativa assecondati dalle Regioni o dai Comuni. E proprio a questi due enti il presidente dell’Upi attribuisce la volontà di sbarazzarsi del brutto anatroccolo provinciale anche per appropriarsi del suo ingente patrimonio (immobiliare e non) da utilizzare magari per aggiustare bilanci in profondo rosso. Un altro capitolo da approfondire sono i servizi locali: con il venir meno delle Province potrebbero più facilmente aprirsi spiragli per nuove forme di privatizzazione.

Quanto alla spesa pubblica, Saitta spiega un’ovvietà. I veri snodi in cui intervenire sono lo Stato e le Regioni: “Negli ultimi dodici anni -osserva- le uscite dell’amministrazione centrale sono cresciute di cento miliardi, quelle regionali di quaranta. Mentre Province e Comuni subivano tagli anche sui servizi essenziali, le Regioni (responsabili del 20% della spesa pubblica nazionale) creavano una miriade di enti e agenzie strumentali: oggi sono circa 7.800 e costano 15 miliardi di euro di personale e due miliardi e mezzo per i cda. Altro che la propaganda sulle Province, che rappresentano appena l’1,3% del totale delle uscite”.

Contro la riforma Delrio si sono mobilitati anche 44 costituzionalisti, fra i quali Valerio Onida, che in un appello diffuso a fine ottobre (lo trovate su www.upinet.it) ne denunciano i contenuti “confusi” e il metodo scorretto: il governo Letta vuole modificare la Costituzione con legge ordinaria, malgrado nel luglio scorso la Consulta abbia già bocciato l’analogo tentativo dell’esecutivo guidato da Mario Monti, che cancellava per decreto l’elezione diretta dei consigli provinciali. Dopo quella sentenza si dovevano mandare i cittadini alle urne, invece il governo ha prorogato i commissariamenti e reiterato, nel ddl Delrio, la sospensione del voto in attesa di sopprimere l’ente trasformandolo in dependance dei Comuni.

Nelle ultime settimane, vista la crescente ostilità, il ministro ha ripetuto con toni ultimativi che se la legge non sarà approvata entro gennaio si “rischia” il ritorno al voto popolare per rinnovare 72 consigli provinciali (52 per scadenza naturale e 20 commissariati). Interpellato da chi scrive per avere chiarimenti sui profili di incostituzionalità, Delrio tre mesi fa annunciava una imminente risposta (“dalla mia segreteria”) che non è mai arrivata.

Intanto che tenere in vita le Province sia deprecabile lo ha ribadito anche Matteo Renzi, il 27 ottobre, parlando alla Leopolda, seduto accanto all’amico Delrio. In quell’occasione il sindaco toscano, interpellato dai media sull’appello dei costituzionalisti, ha tagliato corto: “Non so che farmene”. Nel frattempo dovrà però meditare su che cosa fare della futura città metropolitana, dato che dal 2004 al 2009 è stato presidente della Provincia di Firenze e ora la legge Delrio, se approvata, gli riconsegnerà anche quella poltrona".

 

Articolo di Zenone Sovilla, pubblicato su Altreconomia - rivista di economie solidali, diritti e nuovi stili di vita. Se vuoi sostenere questa importante esperienza editoriale, clicca qui.

Ultima modifica il Giovedì, 26 Dicembre 2013 16:20

Articoli correlati (da tag)

Chiudi