Anche stavolta, le elezioni sembrano averle vinte tutti; mai come stavolta, però, sembra non le abbia vinte nessuno.
Di certo, non le ha vinte la Lega che aveva cullato l'illusione di strappare al centrosinistra la Toscana; è finita come in Emilia Romagna, con un bagno di realtà: la Lega si è attestata al 21,78%, oltre 13 punti sotto il Partito Democratico. Alle Europee del 2019 aveva sfondato il 30%, superandolo ampiamente in diverse province: non si possono comparare elezioni diverse, sia chiaro, ma il dato ci pare piuttosto significativo. D'altra parte, in Puglia il Carroccio ha ottenuto il 9.57%, oltre 3 punti sotto Fratelli d'Italia; alle Europee del 2019, era arrivata al 25,3%.
Non è andata meglio in Campania, anzi. La Lega si ferma al 5.65%, battuta, di nuovo, da Fratelli d'Italia (sebbene di qualche centinaia di voti): alle Europee era arrivata al 19,21%. In Liguria, il Carroccio si attesta al 17,14% (quasi 20 punti sotto le Europee) e prende 5 punti in meno della lista del presidente eletto Giovanni Toti che, non a caso, in queste ore ha lanciato un messaggio preciso a Matteo Salvini: "Lui leader? Non vedo alcun progetto". Nelle Marche la Lega prende il 22,38%, sopra Fratelli d'Italia - che elegge il governatore - ma sotto di 16 punti percentuale rispetto alle preferenze accordate dagli elettori al movimento nel 2019.
Chiudiamo con il Veneto: qui ad imporsi è Luca Zaia, con la sua piattaforma civica che arriva a sfiorare il 45%, quasi 30 punti sopra la lista col simbolo della Lega; non è un mistero che Zaia rappresenti l'anima della fu Lega Veneta e che il risultato delle regionali apra un fronte interno difficile da gestire per Salvini.
Dunque, pare davvero pretestuoso coprirsi dietro l'aumento del numero dei consiglieri regionali eletti nelle regioni al voto, passati da 46 a 70. La Lega sperava di dare una spallata al Governo e, al contrario, ha subito una evidente battuta d'arresto.
Non ha vinto neanche Fratelli d'Italia: è vero, il partito di Giorgia Meloni ha strappato un'altra regione, le Marche, tuttavia è vero anche che il risultato non era contendibile e, come accaduto in Abruzzo, "avrebbe vinto anche un manico di scopa" (citazione di una frase attribuita a Marco Marsilio). Piuttosto, FdI subisce una pesante battuta d'arresto in Puglia, col candidato di bandiera, Raffaele Fitto, finito 8 punti percentuale sotto Michele Emiliano. Va detto, però, che il partito è l'unico che cresce in tutte le regioni al voto rispetto alle europee del 2019, con risultati decisamente positivi in Liguria, Marche, Puglia e Toscana. Se l'obiettivo era contendere la leadership del centrodestra a Salvini, il cammino può dirsi avviato.
Stendiamo un velo pietoso su Forza Italia, in via d'estinzione, sul Movimento 5 Stelle che, come sottolineato da Alessandro Di Battista, ha subito una disfatta storica, sebbene si sia intestato il referendum, crollando o scomparendo nelle regioni al voto, e su Italia Viva, un progetto politico che pare nato 'morto', considerato il risultato risibile in Puglia, laddove il partito di Matteo Renzi aveva candidato a governatore Ivan Scalfarotto col solo obiettivo di far perdere Michele Emiliano, e assolutamente deludente in Toscana, roccaforte del fu renzismo, con Iv ininfluente per la vittoria di Eugenio Giani.
Resta il Partito Democratico e, di nuovo, non si può dire che i dem siano i vincitori di queste elezioni. Anzi. Perse le Marche, e da tempo, i dem hanno tenuto in Puglia e Campania con gli 'eretici' Michele Emiliano e Vincenzo De Luca, personalità politiche piuttosto distanti dal modello di partito immaginato dalla segreteria nazionale, e in Toscana, come forma di resistenza, però, all'ascesa delle destre in territori fino a qualche anno fa considerati non contendibili e non con un progetto politico credibile. Rispetto alle Europee, il Pd perde consensi in Campania, Veneto e Liguria, tiene in Puglia, Toscana e migliora di quasi 3 punti nelle Marche.
La sensazione, a spoglio concluso, è che il combinato disposto tra voto referendario e regionali abbia rafforzato il Governo: ha vinto Giuseppe Conte, dunque? Di certo, il fine settimana elettorale ha allungato la legislatura: non si tornerà alle urne prima del 2023, ma era piuttosto chiaro anche prima. Non ci azzardiamo a dire, però, che Conte sia al riparo da scossoni, considerato che il fronte interno aperto nel Movimento 5 Stelle potrebbe esplodere agli Stati Generali dei pentastellati. Con conseguenze difficili da prevedere. Non è un caso che Conte abbia immediatamente aperto al Pd sulla modifica dei decreti sicurezza e sul Mes. Equilibri instabili, insomma.
Non ha vinto nessuno, e dunque possono dire di aver vinto tutti.
In realtà, si possono rintracciare alcune dinamiche interessanti; la prima: è stato un voto - quello delle regionali, ma il discorso vale anche per le amministrative - fortemente influenzato dall'emergenza sanitaria, con gli elettori che hanno deciso, per lo più, di confermare gli uscenti. Un voto di continuità in un momento difficilissimo per il paese. La seconda, collegata alla prima: si è affermato, più che in altre occasioni, il concetto di 'voto utile'. La terza: il voto ha premiato personalità forti, capaci di parlare oltre i recinti partitici tradizionali. E queste considerazioni attengono ad una riflessione sulle dinamiche che sottendono alle coalizioni di centrodestra e centrosinistra.
Il centrodestra a trazione sovranista non sfonda, soprattutto nelle così dette 'regioni rosse'; l'ascesa della Lega di Salvini ha spostato a destra l'asse della coalizione, svuotando di significato l'area moderata: così facendo, il Carroccio è cresciuto fino al risultato inatteso delle Europee ma ha polarizzato il voto allontanando i centristi che hanno iniziato a guardare altrove. E la parabola di Salvini pare aver raggiunto il suo apice, considerato pure che i temi cari al Carroccio, i migranti e l'Europa matrigna, non tirano più l'opinione pubblica. E' per questo che Zaia e Meloni pariono leader più adatti a 'ricucire' la coalizione.
Il Partito democratico ha rappresentato l'argine all'ascesa delle destre sovraniste, mantenendo una 'infrastruttura elettorale' intorno a cui si sono costruite delle coalizioni 'larghe' e di formazione anche civica. Su questo principio, i dem stanno reggendo da tempo. Tuttavia, non potrà durare a lungo. Il voto di resistenza di Emilia Romagna prima e Toscana poi è una apertura di credito: va costruito un progetto politico capace di rappresentare davvero un'alternativa, credibile, radicale nell'impostazione culturale prima ancora che politica, coerente con un universo valoriale condiviso da ricostruire rinnovando linguaggi e impostazioni. In questi mesi, il segretario Nicola Zingaretti ha evocato continuamente il concetto di argine: non può e non deve bastare. Serve una visione. E in questo quadro, sarebbe utile la costituzione di una forza politica capace di raccogliere le istanze di sinistra, un contenitore ecologista, socialista, femminista, a ricomporre la frammentazione che, negli anni, ha cancellato, di fatto, la rappresentanza di un'area politica che c'è, che potrebbe essere determinante nella definizione di un campo largo progressista, ma che non ha rappresentanza.
Andrebbe inquadrato, poi, il tema dell'alleanza col Movimento 5 Stelle: su questo torneremo però, molto dovranno dire gli Stati generali.
Appendice: il voto abruzzese
Fa storia a sé il voto abruzzese, quello nei comuni più importanti almeno. Ad Avezzano e Chieti, città storicamente a vocazione di destra, la coalizione d'area si è presentata spaccata.
Ad Avezzano, il candidato Tiziano Genovesi ha strappato il ballottaggio per qualche decina di voti, azzoppato dalla candidatura di Anna Maria Taccone, sostenuta da Forza Italia, e dai transfughi del centrodestra che hanno preferito sostenere Gianni Di Pangrazio. Da una parte, hanno 'pesato' i pessimi rapporti personali - una categoria che non dovrebbe appartenere alla politica, ma tant'é - tra esponenti di spicco del centrodestra regionale; dall'altra, non ha premiato l'impostazione 'cencelliana' tipica delle forze d'area abruzzesi che si dividono le poltrone 'su carta'. E' su questa impostazione che si definiscono le candidature, e poco importa che si arrivi a catapultare sui territori dei corpi estranei che trovano, come ovvio, degli anticorpi. Fino a quando tirava forte un vento favorevole ai sovranisti, bastava la presenza di Salvini a trainare coalizione e candidato: stavolta, è andata diversamente.
D'altra parte, le forze di centrosinistra si sono ritrovate sulla candidatura civica di Mario Babbo che, di fatto, è partito in solitudine costruendo alcune liste per poi 'accogliere' prima Italia Viva e soltanto in seguito il Pd. A dire che le forze partitiche, e i dem in particolare, si sono ritrovati su un percorso che non avevano condiviso dall'inizio. Non è bastato. Anzi, è stato Babbo a trascinare la coalizione andando molto oltre le liste: in altre parole, l'elettorato si è ritrovato sul candidato piuttosto che su un progetto condiviso capace di restituire una prospettiva politica.
Ad approfittarne è stato Gianni Di Pangrazio, con un assembramento di liste trasversali. L'antitesi di un progetto politico compiuto.
A Chieti, le dinamiche sono state più o meno le stesse. La Lega ha rivendicato la candidatura e ha imposto Fabrizio Di Stefano, aprendo delle crepe nel centrodestra; per ragioni prima personali che politiche, Mauro Febbo ha rotto il fronte sostenendo il civico Bruno Di Iorio con l'appoggio di Italia Viva, fuori dalla coalizione di centrosinistra a differenza di quanto accaduto ad Avezzano. E si è rischiato un ballottaggio fratricida che avrebbe dato altri scossoni alla traballante maggioranza di centrodestra in Regione. Ne ha approfittato il centrosinistra che, di nuovo, senza un progetto politico chiaro e definito, si è ritrovato infine intorno all'onesta candidatura di Diego Ferrara che ora, al ballottaggio, rischia davvero di aggregare le forze anti Di Stefano. Staremo a vedere che cosa deciderà di fare Febbo e come si muoverà il giovane imprenditore Paolo De Cesare che, col suo progetto civico e moderato di centrodestra, ha ottenuto un risultato oltre le aspettative e che rischia davvero di essere decisivo.
Al ballottaggio, sia ad Avezzano che a Chieti, può succedere davvero di tutto. E i risultati del 4 e 5 ottobre determineranno, in un senso o nell'altro, il destino della coalizione di centrodestra in Abruzzo, dalla Regione e fino ai comuni. L'Aquila in primis.