Dal punto di vista militare, la montagna ha rappresentato in ogni epoca (dai tempi di Annibale a quelli di Napoleone o di Cadorna) un obiettivo primario, giacchè il suo controllo assicura il privilegio di vedere senza essere visti, specie laddove il manto boschivo aggiunge potenza al già evidente vantaggio della quota.
Non è casuale, dunque, che anche durante l’ultimo conflitto il comando tedesco abbia individuato in Italia la propria linea di contenimento dell’avanzata Alleata a sud di Roma (la “linea Gustav”) proprio lungo l’aspro territorio montagnoso abruzzese e laziale, ricco di corsi d’acqua e di rilievi e poco adatto alla manovra di eserciti fortemente motorizzati come quelli inglese e americano. Considerando inoltre che già nell’autunno del ’43 le forze alleate potevano contare su una schiacciante superiorità aerea, i tedeschi contavano sulla rilevante copertura che la fitta boscaglia montana può offrire ad uomini e mezzi rispetto alle incursioni nemiche.
Ma la stessa montagna dell’Appennino centrale che doveva essere la roccaforte naturale del sistema difensivo tedesco, divenne subito il naturale ricettacolo di fuggiaschi, renitenti e patrioti che per nove mesi si aggirarono alle spalle dell’esercito di occupazione. Se è vero infatti che la montagna rappresentò solo uno dei fronti della spontanea Resistenza abruzzese (che fu attiva anche nelle maggiori città), è altrettanto vero che l’organizzazione delle bande partigiane trovò sui nostri monti la sua sede naturale. Qui ad esempio si svolse uno dei primissimi episodi della Resistenza italiana, quello di Bosco Martese (sulla provinciale Teramo-Ceppo), dove nel settembre ’43 si radunarono cittadini antifascisti, ufficiali dissidenti e soldati sbandati per costituirvi un caposaldo armato che si sarebbe voluto mantenere fino all’arrivo degli angloamericani.
Su quelle stesse montagne - lungo boschi, sentieri, grotte, casolari - si svolse per tutto il tempo dell’occupazione il gioco terribile e brutale delle razzie tedesche e dei più astuti espedienti messi in atto dai contadini per sottrarre ad esse animali, generi alimentari e altri beni materiali.
E sempre lungo quei monti trovarono rifugio i numerosi prigionieri di guerra alleati usciti dai nostri campi di reclusione dopo lo sfascio dell’8 settembre, migliaia di uomini ospitati e assistiti dalle genti locali in un rischiosissimo slancio di solidarietà verso gli ex-nemici che non ha uguali nella storia.
Nazisti e fascisti, mediante rastrellamenti e rappresaglie, cercarono di estirpare sul nascere ogni presenza che minacciasse la stabilità delle loro retrovie, ma nonostante la pioggia, la neve, la nebbia, il fango e il freddo invernale, la montagna non cessò di offrire protezione ai ribelli. Anzi, dagli inizi del ’44 in poi essa perse la funzione di semplice rifugio, per diventare invece la base operativa ideale per sferrare fulminei attacchi soprattutto lungo le vie di comunicazione.
A partire dal marzo '44 i tedeschi equipararono la guerra anti-partigiana in Italia alla guerra convenzionale, costituendo reparti appositamente addestrati per la lotta anti-guerriglia (come il battaglione specializzato “Brandenburg”) che si muovevano ovunque consultando carte topografiche costantemente aggiornate sulla “Bandelage Stand – situazione delle bande”, con l’indicazione delle zone controllate o insidiate dalle bande partigiane. Tutte le strade montane abruzzesi ove si erano verificati attacchi partigiani furono inoltre contrassegnate con cartelli del tipo "Vorsicht" (prudenza) o "Bandengebiet" (zona di bande).
L’organizzazione in Abruzzo di permanenti basi operative partigiane fu resa possibile dall’allestimento di complessi sistemi di rifornimento e di comunicazione, che saldarono la Resistenza montana con quella cittadina, estendendo considerevolmente il numero dei patrioti - uomini e donne - coinvolti sul piano logistico nella lotta per la libertà.
In tal modo si diffusero le piccole e grandi formazioni partigiane che nei nove mesi di occupazione agirono sull’intero scenario montuoso abruzzese al di qua e al di là della catena del Gran Sasso. Dal Teramano alla Maiella, dal Sangro alla Marsica, dalla Valle Peligna alla Valle Roveto, dal Reatino al Carseolano, l’attività delle bande partigiane rappresentò lungamente una spina nel fianco delle truppe tedesche e dei reparti fascisti.
Le cifre ufficiali parlano complessivamente di 48 bande operanti in Abruzzo, con 3.500 partigiani combattenti e 3.000 patrioti e con un contributo di 246 partigiani caduti.
Vogliamo qui ricordare solo le principali formazioni partigiane abruzzesi che hanno agito in montagna : la banda “Giovanni Di Vincenzo”, la banda della “Duchessa”, la banda “Porzio”, la banda del “Bardo”, la banda “Conca di Sulmona”, la banda “Ettore Corti”, la banda “Patrioti Marsicani”, la banda “Palombaro”, la banda “Ammazzalorso” e naturalmente la “Brigata Maiella”. Fu anche grazie alla loro attività che nell’estate ’44 i reparti tedeschi decisero di arretrare sulla “linea Gotica”, lungo la quale la lotta di liberazione proseguì per un altro durissimo inverno,fino alla vittoria totale del 25 Aprile.
Molti anni dopo, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (che nei pressi di Scanno trovò ospitalità durante i mesi successivi all’Armistizio), ricorderà che “nel silenzio di queste montagne, si avviò un dialogo: ci ponevamo la domanda sul come ritrovare il fondamento del vivere civile. Se fummo capaci di ritrovare i punti cardinali di riferimento, di riconquistare la serenità dell’animo, di fare le conseguenti scelte e di perseguirle con determinazione, di sentirci di nuovo parte viva di una società di uguali, ciò fu dovuto al clima umano che respirammo in queste montagne, in questa terra d’Abruzzo.”