Sabato, 06 Marzo 2021 09:41

I tecnici di Mckinsey e la deriva tecnocratica del paese

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Si sta manifestando, in queste ore, la portata della deriva tecnocratica che sta investendo il paese. 

Nel silenzio generale, il Governo ha appaltato ai tecnici di una società multinazionale di consulenza, Mckinsey, la verifica delle misure che si intendono adottare col Recovery Plan; come svelato da Alessandro Gilioli in un editoriale sul sito di Radio Popolare, "l’arrivo dei tecnici privati è stato deciso senza renderlo noto, senza spiegazioni e in gran segreto: si è saputo solo perché trapelato anonimamente".

Il Mef si è affrettato a chiarire che "gli aspetti decisionali, di valutazione e definizione dei diversi progetti di investimento e di riforma inseriti nel Recovery Plan italiano restano unicamente in mano alle pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per materia. L'amministrazione - si legge in una nota diffusa da via XX Settembre - si avvale di supporto esterno nei casi in cui siano necessarie competenze tecniche specialistiche, o quando il carico di lavoro è anomalo e i tempi di chiusura sono ristretti, come nel caso del Pnrr. In particolare, chiarisce ancora il comunicato dell’Economia, "l'attività di supporto richiesta a McKinsey riguarda l'elaborazione di uno studio sui piani nazionali 'Next Generation' già predisposti dagli altri paesi dell'Unione Europea e un supporto tecnico- operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del piano".

Ovviamente il ministero minimizza, ma il suo comunicato non chiarisce un bel niente. Si chiede Gilioli: "perché l’esistenza di un contratto con McKinsey per la gestione del Recovery Plan è stata resa nota solo dopo che Radio Popolare ne ha dato notizie e altre testate l’hanno ripresa? In altre parole, perché l’esistenza di questo contratto è stata tenuta segreta? Non era il caso, prima di far entrare i tecnici di McKinsey, di avvertire l’opinione pubblica e soprattutto il Parlamento, nelle sue commissioni economiche? È consapevole il Ministero dell’economia delle inchieste e degli scandali in cui è stata coinvolta la società di consulenza McKinsey a livello mondiale, a iniziare dalla vicenda degli oppioidi negli Usa e dalla questione dei dissidenti sauditi arrestati? È consapevole il ministero dell’economia che McKinsey non è una società di consulenza politicamente neutrale ma da decenni portatrice di un pensiero e di una prassi ispirata al neoliberismo più duro? E poi: è ormai acclarato che la scadenza del 30 aprile per l’invio del piano in Europa allo stato delle cose non può essere rispettata. Il Ministero dell’economia può garantire che l’emergenza e la fretta non verranno usate come alibi per appaltare direttamente tutto il Recovery Plan a McKinsey? E ancora: La parcella di McKinsey è poco più che simbolica. Il che tuttavia anziché ridurre i dubbi li fa crescere: perché McKinsey ha accettato di mandare i suoi tecnici per una cifra irrisoria se non per influenzare le decisioni politiche sul Recovery Plan ed entrare nella cabina di regia?".

A queste domande non è stata data risposta. 

Verrebbe da chiedersi, poi, se l'idea di affidarsi ai tecnici della multinazionale americana rappresenti davvero una 'rottura', una 'inversione di marcia' rispetto all'intenzione di Conte di formare una task force da affiancare al lavoro dei ministeri, il motivo che aveva spinto Renzi a parlare di "deriva anti democratica" giustificando la spallata all'esecutivo, proprio il senatore Renzi che prende soldi per tenere conferenze in Arabia Saudita esaltando il rinascimento ispirato da un regime macchiato di sangue. 

Task force di tecnici, mancata adozione del Mes sanitario, uso improprio dei dpmc, struttura commissariale accentrata: su queste accuse si è consumato l'assassinio politico del governo Conte; un mese e mezzo dopo, ci ritroviamo con la consulenza di Mackinsey, il Mes non è stato attivato, oggi entra in vigore un nuovo dpcm, il primo dell'esecutivo Draghi, in perfetta continuità con i precedenti provvedimenti, e la struttura commissariale è guidata da un Generale e non più da Arcuri. E di nuovo, verrebbe da chiedersi: che cosa è cambiato?

E' cambiato l'umore dell'opinione pubblica, influenzato da una durissima campagna di stampa ispirata da precisi interessi economici avverso il governo Conte: d'altra parte, da mesi c'era la sensazione che 'pezzi di potere', con agganci a destra e tra i sedicenti progressisti, spingessero per affidare il governo del paese ad una personalità di comprovata fede europeista, ben visto dal mondo capitalistico, con un profilo riconosciuto a Bruxelles. Draghi, appunto.

E' cambiata la gestione del potere, rappresentata da un Presidente del Consiglio che non comunica, che non parla ai cittadini nel mezzo della terza ondata pandemica che si sta abbattendo sull'Italia, tra zone rosse e scuole chiuse, "un caso unico in tutte le democrazie occidentali" sottolinea ancora Gilioli. D'altra parte, la tecnocrazia è l’opposto di una visione politica pluralista: la sua essenza sta nel presupposto che ci sia una soluzione per qualsiasi problema e che gli esperti siano coloro che conoscono il modo migliore per raggiungere questa soluzione. In questa visione, non c’è spazio per il confronto e lo scontro tra le idee, per la mediazione tra interessi e valori opposti che dovrebbe essere l'essenza stessa della democrazia. 

E' la morte della politica, si è detto al momento dell'insediamento del governo Draghi; in realtà, è la morte della rappresentanza politica.

E' un processo di destrutturazione che viene da lontano, portato avanti per anni, e bisognerebbe risalire alla strategia della tensione, alla P2 di Licio Gelli e al suo 'piano di rinascita democratica' per capire che gran parte di quel progetto che consisteva, di fatto, nell'assorbimento degli apparati democratici della società italiana dentro le spire di un autoritarismo legale è stato realizzato, di riforma in riforma, dai diversi governi che si sono succeduti, fino all'ultimo referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari.

Con la caduta del Muro, l'ondata di Tangentopoli ha spazzato via il modello partitico novecentesco, il primo segnale di una disarticolazione dei corpi intermedi che ha portato, con gli anni, alla disintermediazione politica e all’affermarsi di un modello giacobino di democrazia immediata e centralizzata, favorito più di recente dal sistema dei mass media e dai social network.

Un modello che potremmo definire 'leaderistico' che sfocia quasi naturalmente nella tecnocrazia.

Il partito, nella sua accezione novecentesca, incarnava un universo valoriale chiaro, in cui gli iscritti si riconoscevano, in nome del quale delegavano il potere a chi, in questo modo, veniva legittimato ad imprimere contenuto al comando politico, dovendo rispondere direttamente di quella legittimazione. Non è più così.

E non è affatto un caso che l’ascesa dei tecnocrati si sia accompagnata ad una presenza ridotta di ministri politici, politicamente inquadrati dentro una storia collettiva, la cui capacità di collegarsi ai propri elettori sia stata provata nelle elezioni; una volta, gli incarichi ministeriali erano detenuti da persone che avevano alle spalle lunghe carriere partite dalla politica locale; iniziavano come consiglieri locali o regionali, passando per qualche incarico esecutivo a livello subnazionale e poi candidarsi alle elezioni per il parlamento nazionale.

In altre parole, la classe politica non risponde più ai partiti, agli interessi collettivi di una comunità di cui dovrebbe essere espressione - non è più delegata, insomma, ad imprimere contenuto al comando politico, a realizzare una visione - bensì a gruppi di potere che decidono delle sorti del paese lontano dai luoghi dell'esercizio democratico. E che hanno pensato fosse arrivato il momento di affidarsi ad un governo tecnico per gestire la partita del Recovery Plan, con la connivenza di gran parte del mondo politico sancendo, di fatto, il fallimento della terza repubblica.

Il professore di Scienze politiche Lorenzo De Sio sostiene che la leadership tecnocratica deresponsabilizzi tanto i partiti quanto gli elettori. I partiti hanno abbandonato, di fatto, il proprio ruolo di attori di scelte difficili nell’allocazione delle risorse; così, la sensazione è che le decisioni vengano assunte al di fuori della politica, anche se, in realtà, l’allocazione delle risorse implica sempre una decisione politica su chi ottiene cosa; gli elettori, d’altro canto, sono portati a credere che le loro decisioni di voto siano prive di conseguenze. Se sanno che il loro voto non influenza la formazione e l’orientamento politico del governo, potrebbero finire per votare per partiti più estremi in segno di protesta. O potrebbero decidere che lo stesso voto non conti quasi niente e astenersi.

D'altra parte, la spiegazione più ovvia della tendenza a rivolgersi ai tecnocrati è che l’amore per gli esperti è semplicemente l’opposto dell’odio verso i politici: in tutti i sondaggi, i partiti politici italiani sono tra le istituzioni della vita pubblica che riscuotono meno fiducia, con punteggi sempre tra i più bassi in Europa.

In un momento così drammatico per il paese, la classe politica ha preferito abdicare ai tecnici: che siano gli esperti, che sia il 'governo dei migliori' - supportato dai gruppi di potere e dalla stampa - a gestire questa fase delicatissima, in attesa di tempi migliori; l'orizzonte potrebbe essere l'elezione del Presidente della Repubblica, con la salita al Colle di Draghi ed elezioni anticipate nell'estate 2022. Tuttavia, c'è da fare attenzione: ciò che sta accadendo rischia di determinare un aumento della sfiducia degli italiani nelle istituzioni, un allontanamento ancora più marcato tra cittadini e rappresentanti. Ricorderete l'esperienza del governo Monti: ha aperto la strada al maggiore successo elettorale populista di sempre.

Draghi potrebbe sembrare un leader che impersona la stabilità quando c’è più bisogno di una mano ferma, ma la storia ci insegna che quello che sembra stabile al momento può dimostrarsi dirompente nel lungo periodo. E d'altra parte, i tecnici non salveranno il paese: i salvatori della Patria non hanno mai avuto successo; senza una classe dirigente rinnovata, senza una vera politica che riannodi i legami proprio con i corpi intermedi, l'Italia non si salverà. Bisogna ripartire dal basso, dunque, dai territori, alimentando partecipazione, dibattito, confronto e produzione politica che sola determina la possibilità di una delega vera di rappresentanza; è oramai chiaro che i leader imposti dall'alto, il richiamo a presunti poteri taumaturgici che possano risolvere i problemi non attraverso l'elaborazione orizzontale di una visione culturale e politica bensì imponendo la leadership in modo verticistico, hanno vita breve.

Ultima modifica il Sabato, 06 Marzo 2021 21:42

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