Aveva detto al padre che doveva partire. Non se ne era preoccupato nessuno, ogni tanto lasciava Rosarno per andare alla ricerca di un lavoro. E invece Luigi Preiti era diretto a Roma, dove alle 11:34 di ieri mattina, nei minuti in cui i ministri del governo Letta giuravano fedeltà alla Repubblica, ha sparato 6 colpi di pistola calibro 7.65 contro due carabinieri che presidiavano palazzo Chigi. “Puntavo ai politici”, confesserà al procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani e al pm Antonella Nespola.
Ha ferito, invece, due agenti: il carabiniere scelto Francesco Negri, di 29 anni, colpito ad una gamba, e il brigadiere Giuseppe Giangrande, di 50 anni, le cui condizioni restano molto gravi. Il proiettile che lo ha raggiunto ha lesionato la colonna vertebrale cervicale: è stato sottoposto ad un lungo intervento neurochirurgico e resterà in prognosi riservata per 72 ore. Ha una figlia di vent’anni, ha perso la moglie solo due mesi. Scriveva sui social network: “tagliamo gli stipendi ai politici”.
Luigi Preiti aveva perso il lavoro e si era da poco separato dalla seconda moglie. Era tornato a vivere in Calabria dopo quasi 20 anni di emigrazione al nord. Nel paese della Piana si dava da fare. Piccoli lavori, alla giornata. Aveva dilapidato tutti i risparmi al videopoker, sussurra qualcuno. Una storia di disperazione come tante, nell’Italia morsa dalla crisi.
Una storia che non giustifica, in alcun modo, l’azione violenta compiuta ieri. Che va condannato senza se e senza ma. E' un campanello d’allarme, però. A coglierlo, per primi, i colleghi dei due carabinieri feriti. "E' il gesto di un disperato. I politici non lo sanno che vuol dire prendere 800 euro al mese, entrare in un negozio e non poter comprare nulla a tuo figlio”, ha sussurrato un agente in lacrime, pochi minuti dopo la sparatoria. Si è sfogato davanti ai giornalisti: "E' una guerra tra poveri".
Scatenata dall’austerity, dalle misure economiche imposte dall’Europa che stanno avendo degli effetti devastanti in molti paesi. In Italia, in particolare. Il 5 aprile si sono tolti la vita, impiccandosi insieme nel garage, due coniugi di Civitanova Marche. Non ce l’hanno fatta. Lui, Romeo Dionisi, di 62 anni era un esodato. La moglie, Annamaria Sopranzi, 68 anni, aveva una pensione da 500 euro. L’uomo era disoccupato, dopo aver lavorato in una ditta edile che l’aveva lasciato a casa e si arrangiava con piccoli lavoratori da muratore, ma non riusciva nemmeno a versare i contributi che gli mancavano per la pensione. Saputa la notizia, anche il fratello della donna, Giuseppe, di 73 anni, si è ucciso, gettandosi in mare. Giuseppe Burgarella, 61 anni, operaio edile, si è suicidato qualche settimana prima. Attivista sindacale, ha lasciato un biglietto scrivendo tutta la sua disperazione: “dobbiamo suicidarci tutti per far capire quanto è grave la situazione?”. E ancora, Alessandro Franzo, di 39 anni, sposato con due figli piccoli, professione imbianchino. Aveva espresso paura e ansia per il suo lavoro ad alcune persone che non avevano capito la gravità della sua angoscia.
Non ci sono solo esodati, pensionati o giovani senza lavoro in questa Spoon River di suicidi. Ci sono anche piccoli imprenditori in crisi per la loro attività. Solo nei primi tre mesi del 2013 nel nord “locomotiva d’Italia” ci sono stati 39 casi, oltre il 40% dei suicidi censiti in Italia fino a metà marzo. Una vera e propria emergenza. Non ci sono neanche più soldi per pagare la cassa integrazione. Se ne parla per qualche ora, poi ce ne dimentichiamo.
Ora la disperazione ha bussato alle porte del potere politico. E ci si domanda, infine, cosa diavolo stia accadendo. L’eco degli spari a palazzo Chigi non avevano ancora smesso di echeggiare che già erano scattate le polemiche: “un pazzo spara ma in quella zona troppi hanno alimentato un clima di violenza. Non minimizzare. La violenza ha padri noti”, ha scritto Maurizio Gasparri su Twitter. Il riferimento al Movimento 5 stelle è parso fin troppo chiaro. Sottolineato dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno: “non ci dobbiamo stupire quando si inveisce continuamente contro il palazzo, come se fosse da abbattere”. Beppe Grillo ha risposto immediatamente, sul suo blog. Si è detto vicino ai carabinieri e alle loro famiglie e ha condannato “il folle gesto di violenza”.
Stop all’odio, hanno detto in coro dal Pdl. Si sente parlare di coesione, di unità. L'invito è ad abbassare i toni, non protestare, non sollevare questioni scomode. “L'atto di un singolo non può essere strumentalizzato contro chi non si piega all'inciucio”, ha risposto Nichi Vendola. E via, altre polemiche. Come se il gesto violento di stamane fosse figlio di quanto accaduto nei giorni scorsi. Come se fosse figlio delle polemiche e non di scelte che, da anni, stanno stremando il paese in nome del rigore, del pareggio di bilancio, del fiscal compact.
In campagna elettorale, i principali partiti non hanno mai parlato degli impegni contratti dal nostro paese, così come dagli altri stati membri dell’Ue, con il “Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria”, che imporranno all’Italia decenni di impoverimento. Dopo essersi combattuti senza esclusione di colpi, evidentemente fino a qualche mese fa le polemiche erano ammesse, hanno dato vita insieme ad un esecutivo che porterà avanti quegli impegni, un governo sostenuto dall’Europa e dai grandi poteri economici. E l’opposizione non è ammessa, è pericolosa, rischia di armare le mani di altri disperati. Ci vuole unità. La politica, si affrettano a dire, darà delle risposte. Perché non l’abbiano fatto fino ad ora, resta un mistero.
Qualche mese fa, era il 19 ottobre 2012, Guido Viale sulle pagine de Il Manifesto ha scritto un articolo molto interessante, di straordinaria attualità in queste ore. “Affamare la bestia del nostro debito”, titolava. “Affama la bestia” è lo slogan con cui Ronald Reagan aveva inaugurato il trentennio di liberismo che stiamo pagando oggi. La bestia da affamare è la democrazia, l’autogoverno, la possibilità per i cittadini e i lavoratori di decidere il proprio destino. “Il programma è di mettere tutto in mano ai privati, che si appropriano così delle funzioni di governo e le gestiscono in base alle leggi del profitto. Quel programma è stato ora tradotto dall'Ue e dai governi dell'eurozona in due strumenti micidiali: il pareggio di bilancio e il fiscal compact”, ha scritto l’economista.
Vi riproponiamo qualche stralcio di quell’articolo, che offre alcune delle risposte che in molti, oggi, sembrano cercare.
“Con il pareggio di bilancio e il fiscal compact, in Italia, verranno prelevati ogni anno dalle tasse, cioè dai bilanci di chi le paga, quasi 100 miliardi di interessi e altri 45-50 di rate, per versarli ai detentori del debito: in larga parte banche e assicurazioni sull'orlo del fallimento per operazioni avventate e altri grandi speculatori nazionali ed esteri, e solo in minima parte singoli risparmiatori. L'assurdità di queste misure non va sottovalutata: nessun paese al mondo, nemmeno la Germania di Weimar, condannata al pagamento dei danni di guerra, ha mai rimborsato un proprio debito: che è stato sempre ridimensionato o riassorbito dalla «crescita» del Pil - quando c'è stata - o dall'inflazione, o da un condono, o da un default. Sottoporre a un salasso del genere un paese come il nostro, con un debito di oltre il 120 per cento del Pil, vuol dire condannarlo alla rovina. L'esempio della Grecia, a cui pure sono imposte per misure meno drastiche di quelle previste dal fiscal compact, è sotto gli occhi di tutti. Ma bisogna ricordare che tre anni fa, quando la Grecia ha cominciato a dare attuazione al primo memorandum della Trojka (Bce, Fmi e Commissione europea), Monti aveva salutato il cammino intrapreso come l'alba del risanamento economico del paese. Esattamente quello che ripete ogni giorno, mentre occupazione, redditi da lavoro, produzione, bilanci aziendali, Pil e debito pubblico precipitano verso il baratro.
[…] Pareggio di bilancio e fiscal compact devono venir respinti e disattesi e il debito pubblico va affrontato con altri strumenti. L'Italia ha un avanzo primario consistente: consolidando il proprio debito potrebbe evitare di ricorrere al mercato finanziario per parecchi anni. E senza «uscire dall'euro», a meno di venirne cacciata; cosa che porrebbe più problemi che vantaggi anche a tutti gli altri paesi dell'eurozona.
[...] La stretta monetaria e fiscale imposta dalle autorità europee - e, per lo meno fino a ieri, dal Fmi, che con queste imposizioni ha mandato in rovina ben più di un paese nel corso del tempo - ha il suo riflesso più vistoso nel patto di stabilità interno: quello che mette alle corde le finanze degli enti locali - e innanzitutto dei Comuni - costringendoli a svendere patrimonio immobiliare, beni comuni e servizi pubblici per far cassa. Così, nonostante che 27 milioni di italiani abbiano abrogato, con il referendum dello scorso anno, l'obbligo di svendere i servizi pubblici, sono ben quattro i decreti e le leggi che da allora prima il Governo Berlusconi e poi quello Monti hanno varato per reintrodurre quell'obbligo; e l'ultimo anche dopo che la Corte Costituzionale aveva decretato l'illegittimità dei primi tre; e tutti prontamente controfirmati dal Presidente della Repubblica, supremo «tutore» della Costituzione, per il quale evidentemente la volontà degli elettori non conta proprio nulla.
La cosa è tanto più grave perché è solo dai territori e dalle comunità che lo abitano, e proprio facendo leva su un approccio innovativo ai servizi pubblici locali, che possono prendere piede progetti e pratiche di una vera politica industriale orientata alla conversione ecologica. Una politica industriale fondata sul decentramento delle decisioni, sulla partecipazione della cittadinanza attiva, su impianti di piccola taglia, su servizi flessibili diffusi e diversificati in base alle risorse disponibili e alle esigenze locali: nel campo della cultura, dell'educazione, dell'energia, della mobilità, degli approvvigionamenti alimentari (e quindi di un'agricoltura a km0), della gestione delle risorse materiali (oggi chiamata gestione dei rifiuti), dell'edilizia ecologica, della salvaguardia del territorio; e di tutte le produzioni che potrebbero essere avviate, creando un mercato e riconvertendo molte aziende in crisi, per fornire materiali, impianti, attrezzature e supporto tecnico a quei progetti. E' l'unico modo per salvaguardare l'occupazione e promuoverne di nuova, legandola al sostegno attivo della cittadinanza”.