Venerdì, 07 Agosto 2020 22:42

Tra le ceneri: cosa ci dicono gli incendi che hanno devastato i boschi dell'Aquila. Un'analisi

di 
Vota questo articolo
(0 Voti)

A poche ore dalla fine degli incendi che hanno devastato le pinete della fascia pedemontana che percorre il versante Nord della conca aquilana, ci si chiede cosa si sarebbe dovuto fare e si può fare per proteggerci dal fuoco estivo, doloso, e salvaguardare dalla distruzione il patrimonio forestale che circonda la città.

Inoltre, si fanno supposizioni e ipotesi sul movente e sull’artefice di tale crimine.

Partendo dalla prima questione, si potrebbero dire molte cose. Proviamo ad individuarne alcune.

1) La tipologia dei boschi (o più correttamente delle pinete)

La pineta come ormai da alcuni anni sentiamo, almeno da quando la sensibilità e la cultura ecologista si è diffusa, non è una vegetazione autoctona, è frutto di rimboschimenti partiti principalmente negli anni del fascismo, continuati con la Repubblica, ad esempio il Piano Fanfani, ed erano finalizzati a ri-fertilizzare il terreno e bloccarne i cedimenti prevenendo frane e smottamenti. Avrebbero dovuto lasciare il posto alla piantumazione o alla nascita spontanea, previo diradamento della pineta, di vegetazione autoctona e tipica delle nostre latitudini.

Questa seconda fase non è mai stata avviata, come nella più classica tradizione italiana. Le pinete sono molto facilmente infiammabili e, come abbiamo visto in questi anni, danno vita a incendi difficili da spegnere. 

I boschi di querce, faggi e altra vegetazione autoctona offrono più resistenza alle fiamme.

Da tanti anni, associazioni ambientaliste, botanici, forestali, chiedono che si vari un piano per la sostituzione almeno parziale, senza addentrarci nei tecnicismi, delle pinete.

Il piano presentato anche alla passata amministrazione regionale, prevedeva, a fronte di un impegno economico di alcuni milioni di euro, una ricaduta occupazionale almeno decennale. Le pinete andrebbero sostituite con nuove piantumazioni da seguire e coltivare negli anni.

Mai nessuna amministrazione ha preso sul serio tale progetto, che avrebbe rappresentato e rappresenterebbe un esempio virtuoso di cura e manutenzione del territorio, da tutti sbandierata ma da nessuno praticata.

Senza volere tornare su questioni eterne e divisive, le amministrazioni, tutte, preferiscono buttarsi nella retorica delle grandi opere, delle grandi infrastrutture, tutte denominate ipocritamente indispensabili e sostenibili, e i soliti arroccamenti sciistici, ignorando la manutenzione e cura del territorio. Perché?

A mio avviso la ragione risiede nell’immaginario collettivo costruito e coltivato negli anni del consumismo esasperato dei decenni che abbiamo alle spalle.

Le grandi opere richiamano un’idea di grandiosità, di dominio sulla natura, di forza incontrastata, di antropocentrismo vincente. Ogni amministrazione punta a lasciare traccia di sé attraverso un’opera grandiosa, enorme.

L’impiantistica per lo sci invernale, ancor di più, richiama nell’immaginario collettivo un’umanità ricca, festeggiante, lussuosa, rappresentata benissimo dai film di Vanzina. Uomini e donne bellissimi, lusso, denaro, tutto chiaramente da ostentare per mostrarsi vincenti. Questo è l’immaginario sul quale si gioca.

Al contrario, il lavoro nel bosco evoca uno scenario più simile al dipinto di Teofilo Patini “Bestie da soma”, sudore, muli, zappe, trattori.

Non c’è da stupirsi se l’uomo contemporaneo, antropologicamente mutato in consumatore, inconsciamente finisca per accettare alcuni modelli rifiutandone altri. Ma come sovente è accaduto nella storia dell’umanità, ciò che si credeva moderno è divenuto nel frattempo vecchio, di più, arcaico. E la politica, anche essa mutata alla radice, incapace di indicare una visione, ma pronta solo a “fiutare l’aria” per assecondare anche gli istinti peggiori e autodistruttivi di una collettività disorientata, si limita a inseguire miti vecchi e logori, quanto il primo e bellissimo “Vacanze di Natale”.

Quanti roghi ancora dovremmo subire affinché si destinino milioni di euro alla manutenzione e cura del territorio, boschi compresi, invece che ad opere inutili e irrealizzabili?

"Finita la festa gabbato lo santo” si dice al Sud: tempo qualche giorno e svanirà l’attenzione sul pino nero per tornare a parlare di tunnel e seggiovie.

2) La soppressione del Corpo Forestale dello Stato

Rappresenta un errore madornale e imperdonabile, sia per come è stato pensato sia per come è stato realizzato. Pensato per ragioni di demagogica razionalizzazione delle spese dello Stato. Renzi, per mostrarsi un efficiente tagliatore di sprechi, ha finito per combinare un guaio i cui effetti subiremo per decenni, fino a quando non si avrà il coraggio di ripristinare un corpo di polizia ambientale, radicato nel territorio.

La Forestale, al di là di qualche degenerazione, viveva e conosceva il territorio. Dal punto di vista fisico, sociale, umano e ambientale. Sapeva dei conflitti che vivevano alcune realtà, conosceva potenziali settori criminali, aveva una formazione specialistica e specializzata.

Borghi e montagne ora sono abbandonati, i mezzi che aveva in dotazione il CFS sono in molti casi fermi, gli stessi forestali sono vittime di una diaspora lavorativa che ha sciupato professionalità e saperi maturati negli anni.

Dispiace e irrita constatare l’assenza del minimo segno di ravvedimento da parte di chi ha realizzato questa sbagliatissima riforma.    
       
3) Disorganizzazione

L’organizzazione degli interventi di spegnimento è apparsa, pur rispettando profondamente il lavoro degli addetti, improvvisata e lacunosa.

Personalmente partecipai alle operazioni di spegnimento dell’incendio di Monteluco, qualche anno fa, e in quell’occasione mi colpì la totale mancanza di organizzazione e coordinamento.

Gli intervenuti non avevano nessuna conoscenza del luogo, delle vie di accesso e fuga, degli spazi più impervi, della presenza di sentieri e piste per portare i mezzi vicino al fronte del fuoco.

La presenza di uomini e donne “del territorio” è fondamentale, così come lo è un sistema di controllo e avvistamento, che nei mesi a seguire gli incendi di San Giuliano e Monteluco fu introdotto, ma nel giro di un anno è andato perduto.

4) Artefice e movente

Il quarto aspetto è legato all’analisi dell’artefice e del movente.

La ferocia ottusa con la quale si aggrediscono ecologisti e idee di tutela e protezione della natura, finisce per giustificare azioni violente contro l’ambiente, mostrandole come ripercussioni contro ipotetiche politiche che bloccherebbero un magnifico sviluppo.

Negli anni la cronaca ci ha raccontato episodi di uccisioni di orsi, lupi e altre animali protetti come vendetta nei confronti di leggi che impedivano all’uomo di vivere il “suo” territorio.

In realtà questo atteggiamento nasconde la frustrazione per non poter avere, come è stato per secoli, mano libera sull’ambiente, libertà di sopprimere gli animali definiti “nocivi”, di bruciare boschi per creare pascoli e per evitare i “fastidi” della macchia e per privare di nascondigli la fauna selvatica (la necessità dei rimboschimenti nasce da questa distruzione sistematica delle foreste), di costruire ovunque, di scaricare rifiuti e liquami nei fiumi e nei boschi, di cementificare ogni angolo  e si badi bene che la cementificazione non è più rappresentata dall’espansione edilizia, ormai satura, ma il suolo viene occupato al ritmo di due metri al secondo da grandi opere, complessi turistici, occupazione delle spiagge e altri, tanti, interventi similari.

Nella nostra sfortunata città sono riecheggiati, anche in questa occasione, attacchi a presunte leggi volute dagli ambientalisti che avrebbero impedito la cura dei boschi! L’ignoranza è pari alla malafede!

Venendo all’artefice e al movente, premesso che solo l’autorità competente potrà, speriamo, chiarire questo aspetto, mentre questo accade ci si interroga e si formulano ipotesi.

La natura dolosa è fuori discussione, così come la conoscenza da parte del criminale incendiario del luogo, delle sue caratteristiche climatiche e fisiche.

L’appalto milionario per la gestione dei Canadair desta perplessità e aperte contrarietà che spesso sfociano in sospetto. Senza dubbio, anche in questo settore, è tempo che lo Stato torni a riappropriarsi dei suoi compiti.

Ma se fosse opera “semplicemente” di un necrofilo? Di un individuo che ama la distruzione, che gode della morte, della sensazione che questa genera, del panico, dell’angoscia, della paura e del disorientamento.

L’animo distruttivo del necrofilo si nutre di queste sensazioni, che provocano un piacere anche fisico, un eccitamento pornografico che si nutre della situazione generata e della sofferenza altrui.

Molti sopravvissuti ai campi di sterminio hanno raccontato del piacere fisico che avevano gli aguzzini nazisti nel provocare dolore e morte. Non è solo questione di mancanza di empatia, caratteristica peraltro diffusa in un’epoca di narcisismo trionfante, ma qualcosa di più tremendo: il piacere del male e la più assoluta mancanza del senso di colpa, aspetti questi ultimi tipici anche dei serial killer.

Questa mostruosità emotiva viene giustificata, attraverso sofisticati meccanismi di difesa come la razionalizzazione o l’intellettualizzazione, al fine di potersi assolvere raccontandosi una realtà di comodo. In casi ancora più gravi si riscontrano deliri salvifici che descrivono il proprio atto criminale come un gesto di estrema e dolorosa giustizia per un torto subito.

Se così fosse, ci troveremmo di fronte ad una realtà mostruosa, dove non è un interesse economico a muovere un crimine ma un pericoloso delirio e scostamento dalla realtà. E ad oggi ancora non conosciamo cause e artefici dell’incendio di Monteluco...

Letto 8527 volte Ultima modifica il Giovedì, 17 Settembre 2020 10:57
Chiudi