C'è un dato che, meglio di ogni altro, descrive il buco nero in cui è sprofondato il sistema universitario italiano.
"Negli ultimi dieci anni" spiega il professor Gianfranco Viesti, docente di Economia all'Università di Bari e curatore del volume L'università in declino. Un'indagine sugli atenei da Nord a Sud (Donzelli) "l'università italiana ha perso un quinto della propria dimensione: un fatto mai successo prima non solo nella storia del nostro Paese in nessun'altra parte del mondo".
Il libro curato da Viesti, realizzato con il contributo di ricercatori appartenenti a diverse istituzioni e contenente i dati del Rapporto annuale all’istruzione universitaria finanziato dalla Fondazione Res (l'Istituto di ricerca su economia e società presieduto dall'ex ministro Trigilia), è stato presentato all'Aquila presso il Dipartimento di Scienze Umane alla presenza, tra gli altri, della rettrice Paola Inverardi, del presidente dell'Anvur Stefano Fantoni, di Andrea Fiorini (membro del Consiglio nazionale degli studenti) e di Mario Ricciardi, docente dell'Università di Milano e fondatore di Roars. Per le istituzioni locali, invece, erano presenti i soli Stefano Palumbo (capogruppo del Pd in consiglio comunale), l'assessora alle Politiche sociali Emanuela Di Giovambattista più il presidente del Consiglio regionale Giuseppe di Pangrazio.
Università italiana a rischio marginalizzazione e Sud a rischio estinzione
Cosa vuol dire perdere un quinto della propria dimensione? Vuol dire che, in dieci anni, il fondo di finanziamento ordinario (FFO) è diminuito, in termini reali, del 22,5%; che le immatricolazioni sono crollate del 20%; che i docenti sono passati da 63 mila a meno di 52 mila, un calo a cui si deve aggiungere anche quello del personale tecnico-amministrativo, passato da 72 mila a 59 mila unità.
E' un declino che riguarda tutto il Paese ma che si è concentrato maggiormente al Sud, dove si sono acuite le distanze rispetto al Nord.
Come si è arrivati a questo punto, di chi sono le responsabilità?
"La crisi economica c'entra fino a un certo punto" afferma Viesti "C'entra invece la demografia - perché, specie a sud, i giovani sono meno di prima - ma soprattutto c'entrano le politiche di contrazione selettiva dell'università attuate, senza distinzione alcuna, da tutti gli ultimi governi".
Questo disinvestimento sistematico, dice Viesti, continuerà anche nei prossimi anni e sta già producendo una serie di effetti a valanga difficilmente arginabili se non ci sarà un sussulto della politica.
Un Paese che vuole avere prospettive di crescita deve investire in capitale umano e formazione, come sta avvenendo in Europa e nel resto del mondo. Invece non solo in Italia sta avvenendo il contrario ma il tema l'università è scomparso dal dibattito pubblico e politico e dall'agenda dei partiti: "Di questo declino non si discute per niente" afferma Viesti "in Italia c'è una visione dell'università molto sommaria. In Europa siamo al 28° posto su 28 per numero di laureati, tra poco saremo sorpassati anche dalla Turchia. La riforma del 3+2 ha migliorato un po' la situazione ma negli ultimi anni si è registrata un'inversione di tendenza. Di questo passo l'università italiana sarà sempre più marginalizzata e quella del sud rischia l'estinzione".
Perché il sud è più penalizzato? "Per questioni anzitutto demografiche" dice Viesti "In Italia meridionale ci sono meno giovani e 1 su 5 va a studiare fuori. Ma il sud condivide tante dinamiche con altre regioni italiane. Le politiche selettive messe in atto negli ultimi anni, basate su parametri e indicatori a nostro avviso discutibili, hanno provocato una polarizzazione del sistema: una parte d'Italia - la Lombardia, l'Emilia e il Veneto - è stata messa al riparo dalla crisi mentre un'altra parte, da Firenze in giù, è stata molto più colpita. Ridurrre l'università nelle regioni più deboli non va bene perché è proprio lì che bisognerebbe investire maggiormente nella formazione delle persone. Anche l'Abruzzo, che a lungo è stato il miglior sud e che aveva un bun numero di laureati e dei livelli di istruzione più elevati rispetto ad altre regioni del meridione, ha accusato una riduzione del passaggio dal diploma all'università molto forte, che è un campanello d'allarme molto pericoloso".
Per effetto dei tagli del Miur, le università italiane, per finanziarsi, hanno dovuto fare ricorso a contributi non ministeriali e aumentare le tasse. A causa degli incrementi susseguitisi in questi anni, l'Italia è diventato uno dei paesi dell'Europa continentale con il regime di tassazione universitario più alti. Ma, a differenza di altri paesi, gli aumenti non si sono tradotti in maggiori servizi.
La riduzione strutturale dell'università avrà effetti a lungo termine negativi non solo sulle capacità competitive dell'Italia, sul suo sviluppo economico, ma anche sul suo progresso sociale e civile nonché sulla partecipazione dei cittadini alla vita politica. Con una popolazione meno scolarizzata il governo della nazione e i processi decisionali rimarranno sempre in mano a meccanismi complessi e oscuri.
Fantoni (Anvur): "Taglio finanziamenti preoccupante ma la ricerca italiana non è in declino"
L'analisi di Viesti è condivisa solo in parte da Stefano Fantoni, presidente dell'Anvur (l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca).
"Sicuramente negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a dei tagli pesanti ma secondo me la ricerca non ha avuto lo stesso declino che si è visto in altri ambiti. Certo, quello dei finanziamenti rimane un problema cruciale: se potessimo contare su dei fondi adeguati potremmo attrarre più ricercatori dall'estero e introdurre dei veri meccanismi di premialità. Ma tutto sommato la ricerca italiana riesce ancora a competere bene con quella di altri Paesi".
Secondo Fantoni, tuttavia, i tagli sono solo uno dei problemi, per quanto quello più urgente a cui far fronte: "Ci sono anche altre patologie che riguardano la didattica e la governance delle università".
Fiorini (Consiglio nazionale degli studenti): "Intervenire sul diritto allo studio"
Una delle tante criticità del sistema universitario italiano è rappresentato dall'esiguità dei fondi che lo Stato stanzia per le borse di studio. Viesti, su questo punto, è tranchant: "Il diritto allo studio, in Italia, semplicemente non esiste".
Nell'ultima legge di Stabilità, per la prima volta dopo tanti anni, non ci sono stati tagli ai fondi per le borse di studio, che anzi sono stati rimpolpati di 50 milioni. Cifra ancora troppo bassa, tuttavia, rispetto al fabbisogno di 200 milioni calcolato dalle associazioni studentesche.
"Quello del diritto allo studio" afferma Andrea Fiorini, del Consiglio nazionale degli studenti "è un tema centrale. 50 milioni di euro sono pochi e sono solo per il 2016, c'è un sottofinanziamento cronico e la quota parte della Regione abruzzo è da anni in continuo e costante calo. Il nuovo regime dell'Isee, inoltre, ha prodotto un innalzamento dello status economico di molti studenti senza che la ricchezza fosse aumentata. La Regione deve assolutamente innalzare le soglie entro la fine di maggio. Se non lo farà aggiungerà ad anni di disinteresse per il diritto allo studio un ulteriore elemento discriminatorio che andrà a danno degli studenti".