La storia di Sikandar, un ragazzo di 21 anni dell’Afghanistan che ora vive all’Aquila come rifugiato politico, è simile a quella degli altri ragazzi accolti nel Progetto Sprar: viaggi lunghissimi per raggiungere l'Italia, lo sfruttamento subìto dai trafficanti che controllano le rotte migratorie, il costante pericolo cui si è esposti, le difficoltà connesse all’esistenza nel paese di approdo.
Ilaria Carosi, psicologa e psicoterapeuta che cura per l’Arci il sostegno psicologico a richiedenti asilo e rifugiati accolti nello Sprar, partendo proprio dalla storia di Sikandar, ha fatto luce sui risvolti psicologici che tali pesanti esperienze comportano nella vita di chi le subisce.
di Ilaria Carosi* - Commentare le storie dei richiedenti asilo e rifugiati espone all’imbarazzo di chi sa che si corre il rischio, sempre e ancor più nell’ultimo periodo, di essere retorici, indelicati, parziali, attenti ad esaltare questo o quell’aspetto, a sottolineare che “vanno aiutati”, che sono tutte “brave persone”, che bisogna accogliere a prescindere, anche a discapito del come, non omettendo di ribadire che la tanto paventata e spesso strumentalizzata “invasione”, in Italia, non sta avendo luogo.
Pur ammettendo che lo stesso rischio di parzialità si corre analizzando le questioni di ambito specificamente psicologico, non si ritenga superfluo o, peggio, irriguardoso, soffermarci a ricordare che le persone che arrivano hanno oggettive difficoltà e sofferenze, quando non peculiari, riconoscibili, patologie: legate all’esilio forzato; ai traumi di guerre, lutti precoci e rottura definitiva di legami affettivi; alla perdita di riferimenti linguistici, culturali, religiosi, ambientali; alle incertezze e al tempo sospeso dell’attesa (di documenti, di lavoro, di ricongiungimento familiare) che lascia in un eterno presente, tra un futuro che è difficile poter concretamente progettare e un passato che, spesso, si ri-attualizza in notti funestate da incubi e flash-back che nella mente si ripropongono.
Chi scrive soprattutto questi disagi -ma non solo- è abituata a “prendere in carico”, con un ascolto specialistico che non si abitua mai, e che tiene sempre in debito conto l’unicità della persona che si ha di fronte e della storia di cui si diventa testimoni.
Una storia la cui ricostruzione non è mai fine a se stessa, poiché ambisce alla restituzione di senso, ove possibile, ma soprattutto alla ri-costruzione di quell’integrità che le esperienze vissute hanno messo a dura prova e che, proprio attraverso il racconto all’altro da sé, si tenta di mantenere coesa.
Partendo da tale doverosa premessa, mi accosto ad introdurre la storia di Sikandar con un lieve sorriso sulle labbra, irrinunciabile quando pensiamo, non solo io ma anche gli altri operatori Sprar che lo conoscono e con lui hanno lavorato, ai progressi che questo ragazzo ha fatto dal suo arrivo in Italia ad oggi.
Intanto, con la nostra lingua, che parla benissimo e con una cura e una ricercatezza di vocaboli e concordanze di maschili e femminili che potrebbero far vergognare più di qualche italiano. Inoltre, grazie al lavoro costante e progressivo che sta facendo su se stesso per conoscere, comprendere e costantemente confrontarsi con una cultura che non è la sua. E che, invero, dalla sua differisce moltissimo.
Non possiamo omettere di considerare, al di là della singola storia che ogni richiedente asilo si porta dietro, che il viaggio che si intraprende nei casi di cui stiamo parlando, difficilmente origina da una scelta consapevole e volontaria: spesso non c’è molto da scegliere, si parte conoscendo soltanto quel che si lascia ma non si sa altro, né se si arriverà e né dove. In Europa, nel migliore dei casi, a questo si ambisce, pur ignorando le profonde contraddizioni interne che si sperimenteranno una volta arrivati. Chi arriva sano e salvo si porta dentro l’ambivalenza di una condizione di privilegiato che, a volte, con grande fatica si concilia con le difficoltà che comunque ci si trova ad affrontare nei cosiddetti “paesi di approdo”: non solo quelle legate alla non conoscenza di lingua e cultura altra ma anche e soprattutto ai tempi e ai modi per ottenere dei documenti che regolarizzino e stabilizzino la permanenza sul nuovo territorio, concedendo anche la successiva possibilità di cercarsi un lavoro.
Dunque, immaginiamocelo, questo ragazzo che oggi ha appena vent’anni, immaginiamoci le esperienze che nella sua breve vita ha dovuto affrontare, immaginiamoci un ciclo di vita con dei passaggi “critici” assolutamente diversi da quelli di un suo coetaneo europeo.
Sikandar non è mai andato a scuola, nel suo paese solo il 28% della popolazione è scolarizzata. Inizia a fare il cameriere all’età di dieci anni, a quattordici è già muratore, in diciannove anni di vita, vive sempre la condizione di guerra sul suolo natio. Una terra, quella afgana, che ama moltissimo, come tutti i suoi connazionali, del resto. Lo capisci anche solo osservando quel vessillo identitario nero, rosso e verde che si tiene stretto intorno al collo e che sottolinea quell’irrinunciabile identità che anche attorcigliando quel pezzo di stoffa si cerca di mantenere intera.
Una terra amara e bruciata dal sole, quella di Sikandar, una terra che, se resti, offre un’aspettativa media di vita pari a 43 anni.
La guerra, lo sradicamento dal proprio paese e l’abbandono forzato della famiglia, sono comunemente definiti in ambito psicologico eventi paranormativi, eventi spesso inattesi ed imprevedibili che non tutti siamo destinati a vivere, nell’arco di una vita.
Ciascuna di queste condizioni da sola sarebbe sufficiente ad incrinare la propria esperienza interna, il senso di continuità del proprio Sé, esposto alla cesura tra un prima e un dopo. Il viverne più di una simultaneamente, esperienza comune a molti beneficiari accolti all’interno del progetto Sprar, rende l’equilibrio psicologico di queste persone estremamente fragile.
Alle delicate situazioni di partenza, qualche volta, se ne sommano altre, altrettanto disgreganti e dure, quel che si è costretti a subire durante il viaggio: lo svilimento dei propri bisogni fisiologici e corporali, la deprivazione di acqua e cibo, i soprusi e le rapine subite in “paesi di transito” che in quanto al rispetto di diritti umani non sono molto più garantisti di quelli da cui si è partiti, la condivisione di spazi angusti, in carcere, nei barconi, nei camion o nei furgoni con cui si attraversano i confini europei via terra, come fa Sikandar.
Un ragazzo che, dopo aver vissuto una precoce adultizzazione, legata ad esperienze lavorative e a condizioni di viaggio durissime, si trova ora a poter recuperare anche la leggerezza dei suoi vent’anni e la bellezza di imparare a leggere e scrivere, seppur in una lingua che non è la sua. Un entusiasmo che da sempre lo ha motivato e sostenuto nei lunghi e complicati mesi di attesa della Commissione, aiutandolo a non abbattersi, anche quando non riusciva a comunicare con la sua famiglia, o quando era in grado di trovare conforto anche solo nella somiglianza che riscontrava tra le nostre montagne e le sue.
Se il suo sia un esempio di resilienza “da manuale”, effetto della tenacia caratteristica dell’età o della fede smisurata in un dio che “se vuole” concede -che ce se ne preoccupi o meno- non so dirlo, malgrado l’esperienza clinica e quella collezionata negli anni in ogni incontro con i migranti. Quello che so è che Sikandar e il suo bel sorriso sereno, malgrado i dolori, le lontananze e le nostalgie che si porta nel cuore, è la risposta più bella ai dubbi e agli interrogativi che i processi e la gestione dell’accoglienza quotidianamente sollevano.
*Ilaria Carosi
Psicologa e psicoterapeuta aquilana, si occupa di migranti dal 2000