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Martedì, 28 Aprile 2020 14:56

Non trascurabili questioni di spazio

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L’allarme era già stato lanciato nei giorni scorsi da Antonio De Rossi che, trattando da posizione navigata e autorevole di aree interne su il Mulino [qui], esprimeva perplessità riguardo la carenza nelle varie task force governative anti-coronavirus di figure “in grado di spazializzare territorialmente i fenomeni”.

Questo perché le misure messe in atto per contrastare gli effetti del virus che è venuto a farci visita in questo funesto anno bisesto (distanziamento sociale, clausura domestica, movimenti di prossimità, ecc.) si traducono inevitabilmente in questioni spaziali che andrebbero interpretate, studiate e pensate dal punto di vista delle scienze che normalmente se ne occupano (geografia, urbanistica, architettura, prossemica, ecc.).

Per capirlo proviamo a fare un viaggio spaziale e temporale, dalla scala nazionale a quella domestica e dall’ultimo indirizzo governativo fino alle prime disposizioni del lockdown.

Macro-aree

Il DPCM del 26 aprile 2020 porta in qualche modo il limite degli spostamenti consentiti al rango amministrativo regionale senza introdurre una differenziazione delle misure tra le diverse regioni. Il Governo ignora in questo modo le differenze anche profonde che intercorrono tra aree ancora a forte contagio da aree ormai pressoché prive di nuovi contagi (ad oggi si contano due regioni e ben venti province a contagio zero). Queste differenze avrebbero permesso di discretizzare due-tre macro-aree a differente indice di contagio in cui suddividere oggi il Paese, così da attuare misure proporzionali alla gravità del fenomeno.

Al netto dei dovuti aggiornamenti all’oggi e al 4 maggio, il concetto è stato ben espresso da tre docenti del Politecnico di Milano (Coppola, Curci, Lanzani) e pubblicato ormai più di dieci giorni fa sul Forum Disuguaglianze e Diversità [qui] nel quale si invitava a guardare in modo diverso al Sud e alle tante specificità dell’Italia, con una mappa quanto mai eloquente delle origini del ragionamento.

Questa scelta del governo centrale non solo si presta a risultare ingiusta e dunque divisiva ma, alla lunga, rischia di produrre danni superiori a quanto la gestione del fenomeno richiederebbe, rallentando oltremodo la ripartenza dell’intero Paese. Lo diciamo evitando speculazioni su quelle che sarebbero le consapevoli motivazioni di una così grossolana svista, pur auspicando azioni decise da parte dei rappresentanti politici locali presso il governo centrale.

Aree interne

Scendendo ulteriormente di scala e scorrendo a ritroso nei principali temi trattati anche a livello nazionale, vale la pena soffermarsi sul dibattito portato all’attenzione generale da Stefano Boeri riguardo un ipotetico ritorno ai borghi e alle aree interne, quasi in fuga dalle città delle densità abitative e del pm10.

Un tema già all’attenzione di molti addetti ai lavori, quello delle aree interne, recentemente preso in cura dalla Strategia Nazionale delle Aree Interne avviata dall’allora ministro Fabrizio Barca.

Si tratta di un’azione che sta finalmente unendo i puntini di un attivismo già presente in maniera spontanea sui territori, con l’azione di accompagnamento da parte del Governo in alcuni territori-laboratorio con la speranza di poter estendere le buone pratiche agli altri territori. In questo processo molto faticoso la trovata comunicativa di Boeri potrebbe risultare una piccola svolta, non di certo pensando a chissà quale inversione di tendenza ma come occasione per dotare queste aree, normalmente al di fuori dal dibattito nazionale, degli elementi essenziali.

E allora adoperiamoci dalle aree interne nel promuovere e definire operazioni mirate per i nostri territori: più servizi essenziali (ma non solo), in maniera intelligente, aggregativa di più comunità presenti sugli stessi territori; più residenza che ricettività, come si sta provando a fare a Fontecchio, per esempio, con diverse forme di attrattività; più spazio pubblico e di condivisione mediante iniziative culturali che possano garantire il giusto distanziamento in periodi di pandemia, senza produrre necessariamente forme di isolamento.

Area Y

Ma la proposta sui piccoli centri lanciata da Boeri, oltre a dare risonanza a dei princìpi già ampiamente condivisi tra gli addetti ai lavori, ha introdotto quella che potrebbe davvero tradursi in una chiave di volta metodologica, se recepita.

Si tratta del patto (anche finanziario e fiscale) tra città e piccoli centri inteso nelle forme di un soccorso reciproco, ora che anche le città hanno capito di non poter fare più tutto da sole.

Per quanto riguarda l’Abruzzo tornerebbe di attualità la messa a sistema della storica relazione con Roma e la sua enorme area metropolitana. L’ossatura potrebbe essere dettata dalla configurazione a Y dei principali assi autostradali, bilanciata da una parte dall’area urbana romana e, all’altro capo, dal sistema complementare di piccole città d’arte, borghi, parchi e attrezzature turistiche, a comporre un sistema pienamente concluso sulla rotta europea del Corridoio V° Mediterraneo, Barcellona-Civitavecchia-Ortona-Ploce.

Strade e piazze

Richiusi nelle nostre case, in vista di un futuro allentamento delle misure di lockdown maturiamo una certa aspettativa verso la natura e gli spazi aperti delle nostre città.

Confidando nella bella stagione e nel proverbiale clima mediterraneo, in molti sperano che la socialità che non potrà svolgersi nel chiuso dei ristoranti e dei teatri possa svolgersi all’aperto, in quello che è tra i patrimoni più invidiabili della città italiana ed europea: le nostre strade e le nostre piazze. Per raggiungere questo sogno di quasi-normalità sarebbe innanzitutto necessario predisporsi come cittadini, amministratori ed esercenti a una buona dose di creatività ed elasticità mentali.

In tal senso sarebbe importante prepararsi, nel periodo che andrà da oggi alla riapertura evocata per il primo giugno, affinché il suolo pubblico sia regolamentato e messo a disposizione gratuitamente, in misura proporzionale alla capienza dei locali. Allo stesso tempo andrebbero fatte proprie e messe in pratica, anche eventualmente in deroga a quelle che sono le ordinarie forme di tutela monumentale e paesaggistica, tutte quelle forme proprie dell’architettura provvisoria che vanno dal semplice disegno a terra fino a strutture multipiano con funzione di dehors.

Scuole

La nota forse più dolente di questo viaggio nello spazio covid è quello relativo alla formazione e alla socializzazione dei più giovani.

Nell’apprendere come in Germania avvengono i primi rientri non possiamo che fare i conti, ancora una volta, con la grande inadeguatezza del nostro patrimonio scolastico. Già lo sapevamo vulnerabile sismicamente, ora lo scopriamo anche incapace di flessibilità funzionale in tutti quegli edifici storici in cui non è attuabile la benché minima variazione dimensionale degli ambienti.

Detto che quella degli spazi esterni può essere una risorsa solo per alcune zone del Paese e solo per alcuni periodi dell’anno, la partita futura va giocata su maggiori dimensioni coperte e flessibilità spinta delle partizioni interne da incrociare con la turnazione delle classi sull’intera giornata scolastica. Ciò dovrebbe riguardare tutte le nuove strutture scolastiche fin da subito, tanto più a L’Aquila e nei crateri sismici 2009 e 2016.

La tardiva ricostruzione delle scuole serva almeno quale occasione per aggiornarsi a questa nuova emergenza!

Case

Delle case e del contraltare degli uffici abbiamo già detto [qui] più di un mese fa e non ci ripeteremo.

La previsione, giusta o sbagliata che sia, riscontra assonanze con quelle successivamente formulate da diversi mondi dell’architettura mondiale. Del resto la pandemia passerà, ma non passerà la paura di nuove pandemie che ci condizionerà, in ogni parte del pianete e in ogni scelta di vita futura.

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In conclusione, anche sotto gli effetti di una pandemia lo spazio può risentire di innumerevoli sollecitazioni e talvolta può consentire altrettanti opportuni aggiustamenti tesi a migliorarne la vivibilità, un po’ come per gli innumerevoli ritagli di tessuto che possono venir fuori da un cartamodello che abbiamo scelto per confezionare l’abito più adatto alle nostre esigenze.

Che questo virus resti un pericolo per anni o meno, come in una guerra ci sta spingendo verso nuovi usi, costumi e avanzamenti tecnologici che in qualche modo rimarranno nelle nostre vite di tutti i giorni. Tra queste nuove abitudini, la più visibile ai più (nel vero senso della parola) è senz'altro quella delle videochiamate, del telelavoro, dell'insegnamento a distanza.

La casa è luogo fisicamente più intimo (nessuno può più accedervi se non il ristretto nucleo familiare) e allo stesso tempo mediaticamente più pubblico, di rappresentanza (non viene più vista solo da parenti e amici ma anche dai compagni di classe, dalle maestre, dai contatti lavorativi fino a piombare persino in televisione come nel caso dei tanti esperti intervistati in questi giorni).

Lo "smart" a cui, come italiani, eravamo tra i più refrattari entra improvvisamente nelle nostre vite e nelle nostre case, va progressivamente accompagnando ogni nostra attività quotidiana e con essa muta il senso ai nostri stessi luoghi fai vita.

D'improvviso ci scopriamo capaci di fare molte più cose negli stessi spazi, con inevitabili conseguenze di natura economica (di spazio, di denaro, di tempo, di energia, di impatto ambientale, ecc.).

Con ciò potremmo essere di fronte a una forte quanto velocissima ridefinizione dei valori immobiliari.

Lasciando da parte le destinazioni commerciali, i cui risvolti anche forti andranno valutati con maggior tempo e attenzione, e quelle manifatturiere che restano marginali rispetto alla dinamica, è possibile ipotizzare una crescita di valore per il residenziale e una conseguente riduzione per le destinazioni a terziario (uffici). In altre parole da oggi in poi potremmo orientarci maggiormente verso case più grandi/più flessibili e tecnologicamente più attrezzate e di uffici sempre più piccoli e meno ricercati.

Al netto delle mere considerazioni economiche e come contraltare ai suddetti processi via via più immateriali, qualitativamente questa dinamica potrebbe generare mutamenti fisici dalla scala micro a quella macro, dal disegno del tavolo del soggiorno alla pianificazione delle città passando proprio per la concezione delle nostre case.

Non è nuovo quello che stiamo dicendo. E' nuovo quello che si stia (finalmente?) verificando nelle parti anche più arretrate del mondo.

Per raccontare di quanto non sia nuova questa ibridazione casa-lavoro, basti per tutte la casa Schröder di Gerrit Rietveld realizzata a Utrecht tra il 1924 e il 1925. Funzionalmente questa casa si caratterizza per la sua flessibilità funzionale ed è considerata da molti la pietra miliare di svolta dall'architettura classica a quella moderna. Visitando questa casa si può apprezzare, meglio di quanto non possano le immagini, come tutto sia pensato al suo interno per rispondere a diversi usi negli stessi spazi che variano nel tempo, sia come dimensione che come utilizzo. Una pratica che in cento anni si è sviluppata, diventando di prassi in qualsiasi progetto di architettura residenziale d'interni che presenti una qualche limitazione di spazi rispetto ai bisogni dei futuri occupanti.

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[img. "Casa Schröder-Schröder - Gerrit Rietveld, Utrecht, 1924]

Ciò permette una prima considerazione, con riferimento agli aggettivi usati poco sopra per descrivere il nuovo ruolo che intravediamo per la casa: grande/flessibile alternativamente.

La domanda potrebbe attestarsi verso case innanzitutto più grandi, in modo da potervi adattare sia gli spazi per la famiglia che quelli per il lavoro, evitando per quanto possibile di farle entrare in conflitto. Laddove le maggiori dimensioni non fossero accessibili, però, è probabile che si vada a ripiegare verso una flessibilità degli stessi spazi a disposizione, contando sull'assenza di qualche componente della famiglia nel corso della giornata (ad esempio i figli a scuola) per evitare i conflitti già detti. In entrambi i casi si produrrebbe un aumento di valore (economico e urbano) rispetto al recente passato: nella prima ipotesi perché le case più ampie sarebbero le più richieste; nella seconda ipotesi perché le case flessibili permetterebbero più usi nella stessa unità di spazio rispetto alle abitazioni normali.

Questo approccio, come sappiamo, è già molto presente nel settore del design per l'arredamento d'interni. Sono molti gli esempi di arredi trasformabili e sempre di più lo sarebbero, in accoglimento dei crescenti bisogni di flessibilità delle case che stiamo ipotizzando.

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[img. Kai Table - Naoki Hirakoso & Takamitsu Kitahara, 2001]

Dal tavolo alla città cerchiamo di capire, infine, come questo processo potrebbe finire per condizionare la "crescita" di interi agglomerati urbani. Ebbene, proprio nella direzione opposta, ovvero della decrescita. Se fosse vero, infatti, che si ricercheranno case più grandi, sarebbe anche vero che queste ospiterebbero più usi, con una conseguente riduzione del fabbisogno di volumi edificati e di suolo.

In questo discorso, come al solito, sarebbe altresì possibile immaginare varie forme di ibridazione tra i diversi elementi del discorso fino, per esempio, a un ritorno verso le cosiddette architetture-città, ovvero grandi condomìni (in chiave sostenibile e contemporanea) con al loro interno servizi di condivisione tali da ridurre le necessità di spostamento degli occupanti. Ma di questo, magari, parleremo un'altra volta.

Alla base del sistema cruciforme, spaziale e relazionale di Collemaggio di cui avevamo parlato in un precedente articolo [qui] c'è la Villa Comunale, che è anche il luogo di due tra le migliori sorprese post-sisma. Almeno finora. Prima di tutto perché si è ridato l'Emiciclo alla città, con una mossa semplice quanto rivoluzionaria. L'altra sorpresa, non meno importante, è il campus universitario che vi si è impiantato grazie al GSSI: le aule da una parte, i dipartimenti dall'altra, le foresterie organizzate da un'altra parte ancora che si vanno ad aggiungere ai preesistenti uffici della Giunta Regionale.

Il campus urbano della Villa è l’esempio lampante di come un luogo poco più che ameno, tenuto così così ma mai troppo male, luogo di commemorazione ai caduti e di mercatini di Natale, possa diventare il quotidiano campo di incontro, attraversamento, vita e studio di ragazzi provenienti da tutte le parti del mondo e di come una piazza oggigiorno, per essere tale, prima ancora che un bel posto debba essere contornata di funzioni, possibilmente diverse.

E’ tornata ad essere forte luogo di incontro Piazza Regina Margherita, potremmo dire che lo è diventata (certamente più che in passato) Piazza Chiarino e lo sono, in modo un po' diverso e talvolta inconsapevole, Via Leonardo da Vinci tra la Regione e il Movieplex, Via XX Settembre tra il Tribunale e Gusto, via Strinella e Via De Gasperi (il Torrione) per tutta la loro lunghezza. Per lo stesso motivo, all'opposto, non possono dirsi piazza tanti spazi della periferia nati con l’ambizione di esserlo ma ridotti a piazzali per lo più di parcheggio, quando va bene, cosi come non può ancora dirsi piazza la stessa Piazza Duomo: ancora poche le attività commerciali, ancora in esilio il mercato, nessun ufficio o sportello pubblico ad agevolarne la ripresa.

Le condizioni che stiamo ponendo come minime affinché uno spazio possa ritenersi un luogo pubblico di incontro potremmo definirle prestazionali, perché capaci di innescare un certo numero di presenze e relazioni insieme. E’ un aspetto quantitativo, dunque, che è condizione necessaria e sufficiente all’inverarsi di una piazza dal punto di vista funzionale, mentre è condizione necessaria ma non sufficiente al verificarsi di una piazza nel senso pieno del termine.

L’altro ingrediente è quello qualitativo, monumentale ed evocativo, di cui proprio in Italia esistono esempi mirabili in ambito storico ma che, d’altro canto, risultano inadeguati se calati senza i necessari adattamenti nei brani della città contemporanea e periferica.

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Con una battuta potremmo dire che nel senso comune la piazza è diventata un luogo comune: si crede basti nominarla come tale perché sia animata di socialità; la si associa sempre e comunque a quinte e arredi storici, anche se in brani recenti o contemporanei di città; alcuni danno per scontato che gli spazi di periferia debbano servire esclusivamente per parcheggiare; i luoghi di aggregazione spontanea ma interferenti con la viabilità automobilistica vengono regimentati e ingessati per garantire la libera circolazione delle automobili. E così, certe città, da una parte sono costellate di vuoti progettati tra i condomini di fine ‘900, magari con lampioni e panchine in ferro battuto, privi di qualsiasi forma di vita perché mancanti di qualsiasi motivo di attrazione, mentre dall’altra ci sono strade o spiazzi regolarmente attraversati da persone che si muovono da un attrattore funzionale all’altro, magari rischiando la vita, senza un minimo di disegno o di pensiero progettuale. Altre volte ancora vuoti urbani in contesti storici anche di pregio sono dimenticati se non dalle automobili.

Insomma, quando pure ci fosse una qualche attenzione alla sistemazione degli spazi pubblici, il più delle volte non vi corrisponde una cultura del “luogo”.

Eppure la ricetta non dev’essere poi così difficile se Barcellona già prima del 1992 ha saputo cogliere l’occasione delle Olimpiadi per aggiornare il sistema delle relazioni e del decoro urbano, all’interno del tessuto storico come lungo e a cavallo delle tangenziali automobilistiche. La “ricostruzione” di Barcellona ha visto interi quartieri riqualificati sperimentando forme e materiali nuovi, facendo diventare occasione di rigenerazione, decoro e aggregazione il verde urbano come la pergola fotovoltaica, il sovrappasso infrastrutturale come l’ampliamento museale. Nella ricostruzione dell’Aquila, invece, il tema dello spazio pubblico è evidentemente di grado secondario se non totalmente dimenticato: nessuna misura direttamente collegata alla ricostruzione degli edifici sta producendo miglioramenti allo spazio urbano circostante e quelle pochissime misure amministrative finalizzate a questo scopo - le cosiddette “Aree a breve” per esempio - sono totalmente abbandonate al loro destino, se non rigettate nei rari casi di attivazione da parte privata.

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In tutta la periferia aquilana gli spiazzi tra i condomìni sono lasciati a distese di asfalto e breccia, l’assenza di forme di aggregazione e anche solo di alberi non stimola l’attecchimento di servizi di vicinato, già fortemente penalizzati dalla grande distribuzione commerciale. I quartieri sono sempre più dormitori e anche un’eccezione storica come Via Strinella mostra forti segnali di un prossimo impoverimento, per nulla aiutata da un disegno urbano diffuso che sappia far fronte al mutare delle condizioni che un tempo l’avevano resa, se non attraente, quantomeno attrattiva. Anche per il piazzale della stazione ferroviaria, per fare un esempio tra i tanti stabilmente attrattivi per ragioni meramente funzionali, non si riesce a concepire altro che un ridisegno e rinnovamento del parcheggio (se mai arriverà). Nessuno spunto verso la sua evidente vocazione morfologica alla stratificazione dove al già esistente parcheggio si potrebbe sovrapporre una copertura leggera, praticabile e verde in grado di fare ombra al parcheggio, rendere gradevole la permanenza in quello spazio di attesa e - perché no – di incontro. Donare insomma un po’ di decoro e benessere urbano ai piedi delle mura. Esistono numerosi esempi in giro per il mondo, basterebbe solo dare uno sguardo in giro e saper copiare.

A L’Aquila non mancano neppure i casi di spazi appositamente attrezzati ma incapaci di svolgere questa loro funzione, come nel caso dei giardinetti posti tra Viale Ovidio e Piazza Battaglione Alpini (Fontana Luminosa), a meno che non si sia voluto deliberatamente destinare quel boschetto a chi voglia tornare a bucarsi. Abbiamo ben altri problemi, per carità, ma le operazioni urbane succedutesi negli anni riguardo quel triangolo di suolo cittadino dimostrano come, talvolta, si intervenga più per dire di aver fatto qualcosa che non per migliorare lo stato delle cose.

E poi c’è Piazza Duomo, probabilmente meno bella di altre ma allo stesso tempo la più significativa! Il suo ruolo non può prescindere dallo storico mercato giornaliero e la sua ridefinizione non può semplicemente risolversi con una piantata di alberi messi a mestiere. Anche qui, secondo chi scrive, la chiave sta nella stratificazione e in un buon progetto di sezione. Il sottosuolo può e deve essere utilizzato per aggiungere valore alla vocazione preesistente, magari con uno spazio museale dedicato ai terremoti e alle ricostruzioni che hanno interessato la città. Di certo scartando la destinazione commerciale ipogea che, né qui né alla Fontana Luminosa, deve andare a fare concorrenza alle attività commerciali che dovranno tornare ad animare l’intero centro storico. Al di sopra, visto l’uso e il clima del luogo, bisognerebbe trovare il coraggio di coprire anche solo parzialmente la piazza, con una struttura leggera eventualmente amovibile che sia frutto di un processo progettuale attento quanto laico.

Il giudizio estetico sulla piazza, l’ipotesi ipogea e ancora più quella di inserire una copertura faranno certamente storcere il naso a più di un aquilano eppure, se sul de guistibus non possiamo che sorvolare, le ipotesi progettuali possiamo suffragarle con numerosi esempi in contesti simili per tipologia urbana e d’suo senza doverci spingere molto lontano, dalla bolognese Piazza Re Enzo a Piazza Ghiaia di Parma. Del resto, che Piazza Duomo debba rimanere com’era-dov’era non è che l’ennesimo luogo comune.

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Passando ai parchi, anche su Piazza d’Armi si è abbattuta la iattura dei luoghi comuni aquilani per cui, come già abbiamo avuto modo di argomentare [qui], per inseguire il parco duro e puro si è gettata alle ortiche l’irripetibile opportunità di risolvere in un colpo solo anche il nodo ovest della mobilità cittadina, con un gate intermodale ipogeo – la stratificazione, ancora lei - garantendo al parco stesso un’inesauribile fonte di frequentazioni a tutte le ore del giorno e della notte. Il che forse non sarebbe neppure troppo piaciuto a una città che i parchi tende a chiuderli, ma tant’è. Potremmo indugiare ancora sui tanti, troppi luoghi comuni di questo post-terremoto, appesi come zavorre alle braghe di chi invece avrebbe voluto ricostruire una città coraggiosamente migliore. Ma è tutto sotto gli occhi di tutti, tranne che dei benpensanti.

Marco Morante – architetto e dottore di ricerca in architettura e urbanistica  Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Venerdì, 28 Settembre 2018 14:15

Collemaggio Connection

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Fa molto discutere la nuova veste del Parco del Sole.

Prima di entrare nel pieno di questo dibattito, però, proviamo a sollevare un po’ lo sguardo e chiediamoci cosa rappresenta e cosa potrebbe rappresentare quel parco. E’ evidente che il suo ruolo non può essere disgiunto da quello svolto dal complesso della Basilica di Santa Maria di Collemaggio, ma anche dall’ex Ospedale psichiatrico i cui relitti occupano ampia parte della collina omonima.

Prima che dal punto di vista squisitamente architettonico, per giudicare un’opera di uso pubblico bisogna ascoltare la gente e osservare l’effetto che fa. Aggirandosi ai margini e tra le pieghe dell’Amphisculture di Beverly Pepper ci si può imbattere nell’insigne studioso locale che grida allo sfregio dalla cima dell’anfiteatro, nella madre che indica compiaciuta al proprio figlio la bellezza delle forme del proscenio naturalmente posto ai piedi della cavea come anche nelle studentesse che cercano divertite l’inquadratura giusta da postare su Instagram.

Per il resto: molta curiosità per la novità; riappropriazione degli spazi preesistenti e rinnovati; probabilmente troppo sole.

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Teatro parco alla Villa di Celle

L’intervento della Pepper è una variazione sul tema, allora felicemente riuscito, del “teatro parco” di Celle nell’omonima Villa nei pressi di Pistoia.

Nel sistemare un’area che può essere legittimo pensare fosse già a posto com’era, l’intento è stato quello di marcare una relazione con le forme e i colori della vicina basilica, non tanto e non solo con la straordinaria facciata ma con certe peculiarità del pavimento.

Diremo che il parco di Celle è riuscito perché se ne può apprezzare, oggi, la riappropriazione che ne ha fatto la natura: è un teatro funzionante, perfettamente inserito nel prato circostante, che funge anche da scultura e opera d’arte autonoma. Lo stesso può dirsi per l’opera aquilana della Pepper, forse, tranne che per l’inserimento. In attesa che i lavori appena conclusi vengano riconquistati in qualche misura dalla natura, così da eliminare i segni del cantiere e qualche approssimazione costruttiva di troppo, si deve infatti riscontrare un impatto maggiore che a Celle. La pietra della cavea e la stessa conformazione, imposta e solo parzialmente adattata alle forme del luogo, rendono l’opera piuttosto artificiale e anche per questo così discutibile da parte di chi apprezzava e amava la naturale adeguatezza della cavea preesistente.

L’Amphisculture si allontana dal parco e si avvicina al principio del teatro greco, tralasciando il semicerchio focalizzato sul palcoscenico per farsi cavea retta dal respiro più ampio. In questo modo la scena è tanto la conchiglia-proscenio posta ai piedi della cavea, con cui rifiuta particolari rapporti morfologici, quanto lo splendido paesaggio appenninico che spazia da Monteluco a Monte Ocre. E’ un teatro sempre funzionante, che vada in scena lo spettacolo dell’uomo o quello della natura.

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L’espediente formale dello spazio scenico del teatro è, come già a Celle, felice quanto suggestivo: una piccola collina conica è sezionata da un muro di contenimento a pianta semicircolare che funge da quinta e genera il piano scenico. Il semicerchio, nella sua zona mediana, si interrompe e piega in obliquo fin dentro il terrapieno, a produrre un corridoio divergente verso il retro. Una fessura di accesso per gli attori ma anche una via di fuga verso il territorio che però, una volta attraversata, né offre sufficiente spazio per un retropalco, né tantomeno si proietta verso il paesaggio, deludendo le aspettative del fruitore o, almeno, di chi scrive.

Il piano scenico è pavimentato a cerchi bianchi e rossi concentrici, la stessa figura che caratterizza grande e isolata la parte sommitale della cavea. E’ l’evidente riferimento a un motivo della pavimentazione della vicina basilica, in particolare a un quadrante posto sulla navata principale e in prossimità del transetto. Il tema è ripreso e semplificato, spogliandolo dei significati mistici e religiosi, per diventare vero e proprio landmark territoriale visibile fin dalle montagne prospicienti. Su questo aspetto emerge il contributo più intimo della land artist venuta da lontano, quel tocco proprio della cultura nordamericana che, inevitabilmente, ci contamina rendendoci più ricchi.

Le due “Colonne di Narni” poste in cime alla cavea mettono in relazione il teatro con il viale di accesso al parco che è stato brutalmente e colpevolmente privato del doppio filare di alberi preesistente.

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Se la Fontana delle Novantanove Cannelle è il logo ante-litteram dell’Aquila, la facciata di Santa Maria di Collemaggio ne è canone e simbolo di bellezza.

Di questa bellezza è parte integrante il grande sagrato verde, spazio laico in cui si riflette il tempio cristiano proprio attraverso lo specchio della facciata, importante tanto quanto l’interno per il suo ruolo in direzione longitudinale in relazione con la città e in direzione trasversale a riconnettere parco e ex ospedale psichiatrico, aprendo a significati non solo sociali ma anche logistici e di economia urbana.

L’area ospedaliera di Collemaggio, infatti, ha le potenzialità spaziali e posizionali per ospitare diverse funzioni insieme, il che le permetterebbe di rimanere viva in tutte le ore del giorno con il coinvolgimento di persone diverse per interessi, attività, età e provenienza. Le destinazioni sociali più volte auspicate dal basso, la destinazione amministrativa recentemente dichiarata dal Sindaco Biondi, una destinazione a incubatore tecnologico di spin-off dei numerosi centri sperimentali e di ricerca presenti in città, potrebbero e dovrebbero coesistere con l’innesto di vari servizi di prossimità. Ne scaturirebbe un polo della conoscenza di rilevanza extraterritoriale, attrattivo perché calato in un luogo di grande valore ambientale e monumentale, dall’alto grado di mixité funzionale e relazionale (condizione necessaria per il funzionamento dei luoghi della contemporaneità), della cui capacità rigenerativa l’intera città potrebbe giovarsi.

La croce trilobata formata dall’asse centrale viale – sagrato - basilica (a cui reintegrare possibilmente l’orto botanico) e dalla trasversale parco – sagrato - polo tecnologico potrebbe costituire una città nella città in cui affondare le radici nella storia, rigenerare il presente con la bellezza dei luoghi, protendersi verso il futuro tra cortocircuiti e contaminazioni.

La Collemaggio Connection può essere tutto questo sistema di relazioni tra differenti componenti interne, preesistenti e da integrare, come anche tra Collemaggio e l’esterno (cittadino, territoriale, globale); asso nella manica che varrà la pena giocare nella competizione con le altre città.

Marco Morante – architetto e dottore di ricerca in architettura e urbanistica

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Giovedì, 13 Settembre 2018 17:21

L'Aquila e la guerra delle città

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Solo qualche giorno fa si ragionava su queste stesse pagine di ricchezza e disuguaglianze territoriali (qui), facendo eco all’allarme lanciato qualche mese prima su L’Espresso riguardo l’economia della conoscenza che, unitamente ad altri fattori, starebbe uccidendo la provincia. Dinamiche già note agli addetti ai lavori e tangibili da chi si faccia anche solo una passeggiata fuori porta.

«Il sistema capitalistico funziona perché esistono persone e gruppi che vincono e altri che perdono. Se vincessero tutti non sarebbe capitalismo. E ci sono anche regioni che vincono e altre che perdono» scrivevano nel 1994 Georges Benko e Alain Lipietz, e in questo probabilmente si nasconde la chiave di tutto, il nodo con cui ancora oggi fare i conti.

Proviamo a ragionarne su L’Aquila e dintorni, dunque, lasciando da parte ogni pregiudizio, e assumiamo la consapevolezza che il tempo degli alibi e dei narcotici (politici ed economici) del post-sisma è finito e che il panem et circenses allevia i dolori ma non risolve i futuri.

Diciamo anche che L’Aquila non mostra (più) di avere una consapevolezza di sé e del proprio futuro. Ne è stata molto consapevole dalla propria fondazione fino agli anni ’70 e forse ’80, tra alterne vicende che le avevano comunque garantito una rendita di posizione, per quanto discutibile, data da alcune fortune posizionali oltre che configurative: il sistema policentrico della città-territorio su tutte. Non ne era (più) consapevole alle soglie del 2009, quando però la città si poteva ancora scegliere per la straordinaria qualità spaziale del suo centro storico e del suo territorio, in un connubio paragonabile a quelli di altre straordinarie città come Innsbruck o Vancouver. Ne è stata poco consapevole nel decennio del post-terremoto che si avvia a conclusione, tra cose fatte e da fare, con molte occasioni perse nonostante l’imponente effervescenza culturale e sociale che ha per un certo periodo di tempo sopperito alla drammatica carenza spaziale.

Non c’è stato un vero masterplan, come pure se ne usano da Copenhagen a Faenza, e neppure il piano regolatore è stato effettivamente e definitivamente aggiornato. Così si è deciso di volta in volta e un po’ per caso, quando si è deciso. Tutto in linea con i tempi, con questa condizione liquida e la politica dell’istante e dell’annuncio che stiamo attraversando. Quando si è certato di fare una qualche programmazione come nel 2010 con il famoso Avviso Pubblico per le Aree a Breve o nel 2012 con i Progetti Strategici, tra lungaggini burocratiche e passaggi amministrativi non si è stati capaci di ottenere risultati fisici e spaziali ma solo montagne di carte e tempo perso.

Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare, diceva Seneca; quando poi il vento è tutt’altro che favorevole nel bel mezzo della tempesta perfetta in cui sono scivolate le aree interne del Paese, la prospettiva rischia di farsi ancora più preoccupante. I bei palazzi ristrutturati con la gente che torna tra i vicoli rischiano di trasformarsi, con il passare della ricostruzione, in un passaggio illusorio e falsante.

La condizione delle aree interne è prestazionale, oltre che posizionale, e dunque non necessariamente coincidente con la condizione di marginalità geografica. Se è inverosimile pensare a una inversione generalizzata di tendenza, è possibile immaginare la costituzione di isole ed arcipelaghi di attrattività. E’ su questo aspetto che si dovrebbe giocare, innanzitutto, la partita. E poi, oltre alla guerra tra campagne e città, è in corso anche una guerra tra città che – stando a recenti previsioni del CRESME – in Italia vedrebbe le sole Milano, Torino e Firenze tenere botta rispetto alla competizione globale.

In tale contesto non basta annunciare, sui media o anche per legge, di voler fare il Capoluogo d’Abruzzo e la Capitale degli Appennini, senza che il ruolo venga guadagnato nei fatti e sul campo; raggiunto consolidando vecchie amicizie e immaginando nuove alleanze. Cosa possa e debba diventare L’Aquila è giusto che lo decidano i suoi cittadini e i suoi amministratori, sperabilmente dopo aver cercato di comprendere il quadro complesso della situazione che spazia dall’economia della conoscenza al digital divide, dalla multuculturalità alla sicurezza sismica e idrogeologica, dalla facilità di trovare un lavoro alla capacità di raccontare una storia unica e diversa.

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Dove si colloca L’Aquila oggi nel panorama locale, nazionale e internazionale, dove sta andando e dove potrebbe ancora scegliere di andare? Non è affatto facile rispondere ma proviamo per il momento a definire i termini del problema.

1. Cosa offrono le altre città per risultare attrattive? Qualche anno fa ci provò Richard Florida a spiegare i requisiti delle città vincenti del XXI secolo , salvo poi ritrattare almeno in parte le sue stesse tesi. Fino a quando ci sarà il sistema capitalistico a governare i funzionamenti del mondo, ricordavamo in apertura, persone e ricchezza andranno verso le città capaci di offrire lavoro, benessere e accesso alla conoscenza.

Questi tre requisiti possono essere generati da una miriade di fattori ma, se pensiamo a quali caratteristiche debba avere lo spazio in cui si verificano, questo deve essere evocativo, facilitare la mobilità e l’interazione tra persone di culture diverse, essere sufficientemente flessibile da adattarsi al continuo mutare delle esigenze e sufficientemente variegato da far convivere diversi usi e diverse funzioni.

2. In cosa si caratterizzano la città dell’Aquila ed il suo territorio? La ciambella aquilana esterna alle mura e alla periferia più consolidata di Pettino, Torrione e Via Strinella è ormai diventata un brano di metropoli piccola, per come è stata felicemente definita da Pepe Barbieri, o metropoli di provincia, o metropoli nella natura; si tratta di un fenomeno che riguarda quelle realtà che vanno trasformandosi in aree metropolitane in dialettica costante tra la continuità della natura e la discontinuità della costruzione.

Come ci siamo arrivati? I primi dieci anni del nuovo millennio ci hanno lasciato una prima espansione edilizia e la dismissione industriale della città, con la sua forma urbana policentrica del capoluogo primus inter pares che riusciva ancora a reggere e, in qualche misura, ad attrarre. La gestione emergenziale del sisma e ciò che ne è ulteriormente scaturito hanno interrotto il rapporto virtuoso che si fondava sulle qualità urbane del centro storico e sulle qualità ambientali del territorio.

Alla mancanza di lavoro e alle difficoltà di accesso ai servizi si è aggiunta, quindi, la crisi spaziale con perdita pressoché assoluta benché temporanea del centro storico. Nell’attesa, retta grazie al “contado” e al motore economico della ricostruziuone, si è definitivamente sviluppata una città diffusa energivora che va da Poggio Picenze a Scoppito e San Vittorino con cui il ritorno dei centri storici dovrà fare i conti, alla ricerca di un equilibrio.

3. Quali i temi degli ultimi dieci anni? Molte sono state le decisioni cruciali che hanno riguardato in questi ultimi anni L’Aquila come città capoluogo investita in pieno, ricordiamolo, da un terremoto fino al IX grado della scala Mercalli.

Volendosi avventurare in un elenco acritico in ordine sparso e incompleto, queste riguardano:

  • la localizzazione delle 19 aree da progetto C.A.S.E. e la conservazione (o meno) del policentrismo;
  • il GSSI e ciò che ne consegue;
  • la destinazione funzionale dell’area di Piazza D’Armi;
  • vocazione e ruolo strategico della campagna e della montagna aquilana;
  • metropolitana di superficie e corsie ciclopedonali;
  • riconversione energetica, 5G e sottoservizi;
  • ricostruzione come occasione di rigenerazione urbana;
  • il più grande cantiere d’Europa come raccolta di know-how incubatore di futuro;
  • centro storico car-free;
  • sicurezza come contingenza o come scelta;
  • le criticità del tessuto storico e il rilancio del sistema Corso-Piazza Duomo;
  • patrimonio abitativo, attrattività, nuove vocazioni;
  • il fascio naturalistico e infrastrutturale del fiume Aterno;
  • il servizio di trasporto pubblico;
  • servizi o poli di eccellenza.

4. Quali i fatti compiuti? In questo contesto, con la ricostruzione pubblica ancora al palo e lasciando da parte quella privata, registriamo come nuovi fatti urbani compiuti: 

  • il sistema Basilica di Collemaggio - Parco del Sole;
  • il sistema Palazzo dell’Emiciclo - Villa Comunale;
  • capillarità e ridisegno delle stazioni ferroviarie;
  • sperimentazione 5G;
  • smart tunnel dei sottoservizi;
  • la nuova viabilità di Viale Corrado IV e il sistema a rotatorie;
  • l’Auditorium del Parco.

5. Quali i principali temi ancora sul tavolo? Ciascuno di questi fatti attiene a uno specifico tema urbano o territoriale e rimanda ad altri temi, affini o differenti che siano, o semplicemente a interventi rimasti in sospeso o inevasi.

Gli edifici pubblici avrebbero dovuto tracciare la via di una sapiente reinterpretazione dell’esistente, in luogo del meno adatto com’era-dov’era, e invece sono rimasti ingessati tra i puntelli delle procedure e dei ricorsi. E così la via è stata tracciata dal mix esplosivo tra assemblee condominiali e capacità dei tecnici di turno, restituendoci una città talvolta peggio di com’era.

Latita un dibattito sul futuro di Santa Maria Paganica; per la De Amicis non si riesce a immaginare altro che la scuola e per gli uffici comunali non si riesce a prendere decisioni che dotino la città e il territorio di una sede degna di questo nome; l’ex Ospedale Psichiatrico di Collemaggio non vede sfruttate le sue enormi potenzialità e la ricettività turistica è delegata all’iniziativa privata, se c’è. In ultimo, non per importanza ma perché sotto gli occhi di tutti, manca la sicurezza delle scuole e degli uffici pubblici, senza la quale qualsiasi altro ragionamento rischia di farsi drammaticamente velleitario.

Numerose attese riguardano poi il tema della mobilità. Alcune criticità propriamente logistiche continuano a rimanere irrisolte, nonostante le importanti risorse investite nel post-sisma. Quello della trasversalità, per esempio, per cui L’Aquila è più facile a percorrersi in lungo che in largo e i sistemi Mausonia - Aterno, Via XX Settembre – Viale Corrado IV e Via Amiternum – Viale Aldo Moro risultano fasci infrastrutturali lontani, con pochi e talvolta inadeguati punti di contatto. Basti pensare all’imbuto in zona Rivera e al dedalo sotto Porta Napoli. Se ne torna a parlare, ogni tanto, senza che alcuna strategia venga messa realmente in campo.

Altra tematica essenziale, affine alla precedente e finalizzata alla buona qualità della vita del centro storico, riguarda i nodi di scambio ferro-gomma, auto-bici-pedone, motore-elettrico: 

  • intermodalità di scala regionale nella parte ovest della città e, più precisamente, nel triangolo Hotel Amiternum - Stazione Ferroviaria – Viale della Croce Rossa, vista l’ambizione ridotta a giudicare dalle previsioni per la stazione RFI e l’occasione persa delle possibili stratificazioni di Piazza d’Armi;
  • intermodalità finalmente efficace e stringente ai margini delle mura, ma con grandi capacità penetrative nell’esteso centro storico della città, sui modelli di molte altre città tra cui Perugia e Urbino con capacità di innovazione che offra riscatto per il ritardo e le “scorie” che i processi avviati nel passato hanno fatto gravare sulla comunità.

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Esiste poi il grande tema della qualità degli spazi pubblici di periferia, spesso generati nel difficile rapporto tra logistica e spazio.

La chiave sta nel mettere in campo adeguate azioni capaci di attribuire caratteristiche spaziali combinate a funzioni e servizi di prossimità. Si tratta di pianificare, progettare e finanziare interventi anche minimi e diffusi strategicamente che sappiano recuperare all’uomo interstizi, spiazzi, bordostrada ceduti frettolosamente al degrado e all’automobile nel periodo dell’emergenza come anche in occasione della prima espansione urbana (Pettino, Cansatessa, Coppito, San Giacomo, Gignano, ecc.).

Una tematica questa che a L’Aquila non è stata ancora mai affrontata secondo i parametri e utilizzando i materiali fisici ed urbani della città contemporanea, indugiando con quelli – in tali contesti inefficaci - della città storica. Da tutto questo ne deriva che uno spiazzo a Pettino, senza determinate accortezze, non si trasformerà mai in una piazza così come il decoro di Viale Corrado IV o delle numerose rotatorie cittadine mal si risolve con paramenti in finto pietrame o statue in stile novecento.

Va ricordato che esistono diversi progetti di ampio respiro per importanti zone o arterie cittadine a riguardo di Piazza D’Armi, di Via della Croce Rossa, del sistema Porta Barete - Santa Croce - Via XX Settembre - Villa Gioia. Tutti questi sono ancora fermi, eppure dopo quasi dieci anni si rimanda la loro realizzazione. Si è discusso recentemente di Piazza Duomo laddove esiste un problema di decorso, riconoscibilità ed effettiva praticabilità e per la cui risoluzione occorrono coraggio e capacità immaginative che vadano oltre l’assetto esistente e l’arte dei giardini.

Dal punto di vista delle strategie, infine, L’Aquila attende decisioni su scale opposte ma di ugual portata per il proprio futuro: l’utilizzo dell’ingente patrimonio abitativo pubblico come volano di attrattività e un ruolo ben definito di area vasta in quella che è già stata definita Macroregione Mediana da Pierluigi Properzi e altri, più verosimilmente come partner complementare di Roma piuttosto che di Pescara. Un obiettivo che parrebbe raggiungibile qualora si tornasse a giocare di squadra con quelle porzioni di territorio che hanno consolidati legami con la Capitale, replicando la felice esperienza della Randstad Holland , per esempio, a cui molti aspetti latenti del caso aquilano farebbero pensare.

E’ una disamina complessa che approfondiremo, se avrete ancora voglia e pazienza di leggerci.

*Marco Morante – architetto e dottore di ricerca in architettura e urbanistica

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