"Aspettiamo che finisca il terremoto", non un video, non una mostra fotografica, ma un foto racconto di una giovane fotografa, Valentina Renzi, che da Roma è venuta a L'Aquila per rendersi conto della situazione del dopo terremoto.
Ha realizzato così un reportage, presentato anche come saggio di fine corso per il master in Photojournalism and Documentary Photography del London College of Communication di Londra, un racconto che mostra fotografie esplorate, montate accuratamente, accompagnate da rumori e interviste. Immagini che oscillano tra fissità e tentativo di dinamismo, come L'Aquila in questi anni. Del lavoro di Valentina Renzi abbiamo seguito alcune fasi durante la sua ricerca e con lei abbiamo voluto ripercorrerle per introdurre brevemente la visione e l'ascolto di "Aspettiamo che finisca il terremoto".
Perché hai pensato a L'Aquila?
Ho pensato a L'Aquila perché ero a Londra, quando i miei amici dell'università sono venuti da me chiedendomi cosa stesse succedendo in Emilia, dove c 'era appena stato un terremoto, io mi sono chiesta: "Ma L'Aquila? Come sta messa L'Aquila?". Ho pensato che la situazione a L'Aquila, dopo tanto tempo, sarebbe stato uno specchio su quello che sarebbe successo in Emilia, anche se poi mi sono resa conto che le situazioni erano diverse, che il tipo di danno era diverso. Poi mi sono ricordata della notte del terremoto aquilano quando a Roma mi tremava il letto e scricchiolavano le finestre, e della tv accesa la notte e immagini e notizie confuse e mi sono detta che volevo vedere cosa stava accadendo dopo molto tempo.
Quale è stato il tuo primo contatto aquilano?
Il primo contatto è stata la persona che aveva un bed & breakfast dove alloggiavo, che mi ha fatto poi conoscere una famiglia che ha partecipato al mio progetto. Poi i contatti con il comitato sorto dopo il terremoto, il 3e32, e il racconto e l'osservazione di tutto quello che gli aquilani stavano facendo per la città e poi tantissime persone diverse. Da questo credo sia venuto poi l'indirizzo del mio lavoro, guardavo il centro città e mi rendevo conto che di foto di distruzione e desolazione se ne erano viste già tante. Poi ho pensato a quanto dovesse essere frustrante vedere e veder "vista" la propria città sempre nello stesso modo, quindi ho incontrato queste persone meravigliose nei progetti C.A.S.E. che hanno dato tutto il senso al mio lavoro con la loro speranza.
Cosa avresti voluto dire di più e più chiaramente?
Avrei voluto inserire moltissimi altri pezzi di interviste, avrei voluto parlare dell'aumento del TSO (trattamento sanitario obbligatorio) nella zona aquilana dopo il terremoto, di aspetti legati al sociale e al disagio che si vive oggi che non è evidente nelle macerie e nel centro storico ma nei disagi delle persone.
Avrei voluto conoscere meglio le realtà dei progetti C.A.S.E. e trovare molte più esperienze come quelle delle persone che ho incontrato, persone che si sono rimboccate le maniche ed hanno cercato di reagire con i mezzi che avevano per tirarsi fuori dall'immobilità e dal vivere nel ricordo di qualcosa che non è più come prima. E poi soprattutto avrei voluto che questo lavoro potesse arrivare a più persone possibili, per dare un bel volto a L'Aquila oggi, una città piena di persone che ogni giorno si sforzano di fare meglio, di aiutarsi da sole e vicendevolmente, con un senso di comunità e collettività che in Italia non è più tanto presente. Avrei voluto dare indietro tutto ciò che mi è stato dato a L'Aquila, in termini di umanità e bellezza.