In pochi sanno che a L'Aquila vivono alcuni rifugiati. In pochi sanno che lavorano nella nostra città, escono alla sera, imparano l'italiano e cercano di ricostruirsi una vita, dopo la fuga dal proprio Paese. Sono i ragazzi che partecipano al “Progetto Accoglienza SPRAR”, del quale il Comune dell'Aquila è titolare e il Comitato Territoriale Arci L'Aquila è realizzatore. Il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) è un sistema gestito dal Ministero dell'Interno, in accordo con l'Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci).
Andiamo con ordine. Qual è il funzionamento di richiesta dell'asilo politico o umanitario, che da' diritto allo status di rifugiato? Una persona proveniente da un Paese in guerra, per esempio, quando arriva in Italia viene trasferito nei Centri di Accoglienza Richiedenti Asilo (CARA), strutture pubbliche – per lo più ex caserme e grandi alberghi semiabbandonati – che dovrebbero elargire servizi di prima assistenza ai richiedenti asilo, anche se questo spesso non avviene. Nei CARA solitamente stazionano, nella stragrande maggioranza dei casi in condizioni precarie, tra le 500 e le 3000 persone. Dopo il periodo di permanenza nei CARA (che varia da 30 a 90 giorni), il richiedente asilo deve (dovrebbe) essere assegnato a un cosiddetto “progetto di seconda accoglienza”, di competenza del sistema SPRAR. L'assegnazione spesso non avviene, poiché lo SPRAR ha una capacità economica così ridotta da non poter sopperire al numero elevato di richiedenti asilo. Molte persone dunque, essendo cittadini liberi, una volta ottenuto lo status di rifugiato, si disperdono sul territorio italiano, con tutte le difficoltà di un inserimento lavorativo e sociale di chi non ha strumenti adeguati.
Alcuni dei presenti nei CARA, invece, vengono assegnati al Sistema di Protezione e quindi affrontano una “seconda accoglienza”, prevista per chi arriva in Italia non esclusivamente per costrizione dovuta a motivi economici (motivazione della maggior parte dei migranti) ma a causa della persistenza di guerre e/o della privazione delle libertà personali nel Paese di appartenenza. I progetti di seconda accoglienza provano dunque a costruire un percorso di inserimento sociale e culturale.
Il percorso è lungo e complesso. Dopo la permanenza nei CARA, si arriva in una delle città nelle quali esistono progetti di seconda accoglienza, in questura si segnalano le proprie generalità e si avvia l'iter di richiesta dell'asilo: fotosegnalamento, impronte digitali, moduli burocratici. Nella stragrande maggioranza dei casi i ragazzi e le ragazze non hanno documenti. Per questo motivo si cerca di ricostruire le loro storie, nazionalità ed età attraverso i loro racconti ed alcuni esami medici. Si ha un permesso di soggiorno rinnovabile di tre mesi in tre mesi, fino al giorno in cui il rifugiato incontra una commissione, composta da rappresentanti del Ministero dell'Interno, degli enti locali e dell'Agenzia dei Rifugiati dell'Onu (UNHCR), che valuta le motivazioni e le storie dei singoli casi e riconosce gli eventuali presupposti della protezione internazionale. La commissione può negare lo status di rifugiato, può assegnare la “protezione umanitaria” di un anno (in attesa del ritorno del rifugiato nel proprio Paese) e può decretare l'asilo, protezione internazionale che dura cinque anni.
Attualmente, il numero di richiedenti asilo in Italia è di 15-20mila unità annue, un numero molto minore delle 60-70mila richieste che ogni anno arrivano alla Germania. Un dato che la dice lunga su quanto sia politicamente strumentale il paradigma della millantata “emergenza nordafrica”, per esempio. Lo SPRAR, di suo, nell'ultimo biennio ha coinvolto circa 4500 persone. Come dicevamo all'inizio, uno dei progetti SPRAR è presente anche a L'Aquila, la città del terremoto, la “città che cambia”.
“Dal novembre 2011 ad oggi” ci racconta Andrea Salomone, uno dei responsabili del progetto, di Arci L'Aquila “abbiamo coinvolto nel progetto circa cinquanta persone. Tra di loro anche due nuclei familiari e cinque minori, di cui nato proprio a L'Aquila”. La provenienza è diversa: Eritrea, Etiopia, Sudan, Libia, Somalia, Ghana, Pakistan, Afghanistan, Gambia, Mali, Senegal ed Egitto. Attualmente sono diciannove i ragazzi coinvolti nel progetto, provenienti principalmente da Gambia, Senegal e Mali. Vivono in quattro appartamenti nei quartieri di San Francesco, Pile e Bazzano.
Andrea ci racconta quali sono i principali step del progetto, che dura sei mesi per ogni rifugiato: “I ragazzi quando arrivano sono accolti da tre operatori, nelle prime settimane svolgono principalmente pratiche burocratiche relative ai propri documenti: richiedono l'asilo se non hanno documenti, aggiornano il permesso di soggiorno se ne possiedono. Vengono aiutati all'inserimento nel contesto territoriale, si rendono autonomi negli spostamenti urbani; viene consegnato loro un pocket money quotidiano, con cui provvedono a comprare le prime necessità. Nei primi giorni sono affiancati dall'operatore, anche in casa. Infatti, provenendo nella maggioranza dei casi da villaggi, non sanno ad esempio utilizzare gli elettrodomestici”.
"La modalità di lavoro dell'Arci non è affatto assistenziale" ci tiene a sottolineare Salomone “Siamo contrari all'assistenzialismo tout court. Da subito i ragazzi iniziano a frequentare corsi di italiano. Cerchiamo di coinvolgerli nelle attività culturali e, generalmente, dopo due o tre mesi inizia la fase più importante: l'inserimento lavorativo, che realizziamo anche grazie a un supporto psicologico con l'obiettivo di individuare percorsi professionali personalizzati”. I risultati sono buoni: molti hanno trovato lavoro a L'Aquila, a fronte di una decina che per proprie volontà sono andati in altre città o addirittura all'estero. L'Arci collabora, per la formazione in itinere e per la ricerca di un impiego, con la Scuola Edile di San Vittorino e con il Centro di Formazione e Aggiornamento Professionale Salesiano (Cnos-Fap).
“All'inizio sono rimasto impressionato nel vedere i loro occhi sgomenti e meravigliati quando hanno visitato per la prima volta il centro storico della città” afferma Salomone “perché non pensavo potessero meravigliarsi, in quanto provengono da scenari ben più problematici dei nostri”. Spesso, quando ci diciamo 'sembra un bombardamento' parlando del centro storico aquilano, lo facciamo quasi inconsapevoli del fatto che una città bombardata non l'abbiamo mai vista. Ogni scenario – e la reazione dei ragazzi lo dimostra – ha però le proprie peculiarità e il suo conseguente impatto emotivo.
Ma qual è l'importanza della presenza dei rifugiati e del progetto stesso a L'Aquila? “La valenza del progetto si misura nella concretezza dell'inserimento dei ragazzi in un contesto lavorativo e sociale. I rifugiati non sono degli ospiti, qui dobbiamo lavorare e crescere insieme”, evidenzia il responsabile dell'Arci.
A conferma di ciò, incontriamo Andrea Salomone nello stesso ufficio dove si sta accingendo ad aiutare Nazeem a cercare una casa. Nazeem (nella foto), ventenne afghano di Kunduz, è giunto al termine del progetto e quindi deve provvedere a sostentarsi autonomamente, l'Arci lo aiuterà a trovare un appartamento in affitto. Nei suoi occhi lo sguardo intenso di chi a 20 anni ha già un vissuto importante da raccontare, ma anche la determinazione sufficiente a costruirsi un futuro: “Sono arrivato in Italia attraversando l'Iran e la Turchia a bordo di camion e a piedi, e la Grecia via mare” ci racconta “Ci ho impiegato nove mesi per arrivare in Grecia. Poi, nascosto in un container, dopo 42 ore di viaggio in mare senza cibo né acqua, sono arrivato a Bari”. Nazeem è uno di quelli che ha trovato lavoro, come macellaio in un'azienda di lavorazione carni a Bazzano: “L'Aquila è una bella città, mi piace uscire anche la sera”, ci confida sorridente.
Nazeem, come gli altri rifugiati che vivono a L'Aquila e come i tanti migranti che sono arrivati dopo il sisma, rappresenta il sintomo di una città che cambia. Di un territorio che muta e, in qualche modo, ogni giorno si “sprovincializza” sempre di più, con tutte le conseguenze (positive e negative) che questo comporta.