Mercoledì, 10 Aprile 2019 18:51

Restituire è il più prezioso dei verbi. Cronaca di un anniversario su cui riflettere

di 

Di Ilaria Carosi.

Cercherò il tuo nome/Cercherò il tuo nome tra la polvere/salirò la più alta delle montagne/e scaverò il terreno per trovare il tuo bellissimo viso/così dolce/così puro/ troppo giovane perché la nebbia lo avvolga/Il fuoco che ho dentro illuminerà la notte/e le nostre mani si toccheranno ancora/Racconterò la tua storia/scriverò il tuo nome su muri fogli e libri/il mio cuore sarà il tempio della tua memoria/Porterò la tua foto sul petto/e una fiaccola in mano/Perché tu non sei solo un nome/non sei un numero fra le macerie/Tutti sapranno che hai sorriso/che hai amato/e che non hai mai smesso di vivere/Ti prometto che ricostruirò la tua casa/le tue strade e le tue chiese/perché tu possa vedere/i bambini correre ancora/e le rondini/ tornare a primavera/Questa e altre/trecentonove promesse/ci legheranno/e io saprò che tu vivrai/per sempre/negli occhi di un neonato/in un sorriso/e in quanto di bello il mondo vede. (Francesca Laurenzi)

Restituire è un verbo prezioso, in psicoterapia. Un verbo che potremmo declinare dal generale al particolare, passando da uno sguardo più largo che abbraccia l’intero processo psicoterapeutico ad uno più centrato che stringa sulla singola seduta, proprio come fa chi manovrando una telecamera passi da un campo allargato ad un primo piano.

Perché con il termine restituzione si può variamente fare riferimento a quello che avviene nell’arco di un’intera psicoterapia - un dialogo che diventa narrazione, ricerca e costruzione condivisa di senso, ed è un processo che può durare mesi o anni -; ma anche riferirsi a quei minuti finali di una singola seduta in cui il terapeuta, inanellando i punti toccati, le emozioni condivise, i contenuti e la relazione, le connessioni tra il presente e il passato o tra quella seduta e le precedenti, restituisce al paziente qualcosa su cui riflettere: una nuova lettura, un’interpretazione o, talvolta, quel che egli ha verbalizzato durante tutta l’ora, senza averne completa coscienza.

Non un vero e proprio contenuto nuovo ma spesso, semplicemente, quello che ha condiviso, su cui lo hai confrontato, quello che ha riletto insieme a te.

Restituito in altri termini o con una diversa punteggiatura, un modo nuovo di guardare alle stesse cose.

Sono quei minuti finali in cui chi sta dall’altra parte della stanza, sull’altro divano, ti guarda talvolta basito per quel dono pesante che tu gli lasci tra le mani e con il quale continuerà a confrontarsi per il resto della settimana, dei mesi successivi oppure degli anni. Anche, ma non solo, insieme a te.

Il decennale del nostro evento traumatico collettivo è stato qualcosa del genere.

Uno sguardo che si è mosso di continuo dal generale al particolare, dalla massa al Sé, dalla città alle persone, dal come stiamo al come sto. Da “a che punto siamo” ad “a che punto sto”. Da quanto accadde quella notte a quanto accaduto nelle successive, muovendoci avanti e indietro, con il pensiero e la memoria, nell’arco temporale del nostro ultimo decennio di vita.

Alcuni numeri simbolicamente pesano più di altri e di quel numero in particolare - quel X che va dai Comandamenti a Totti - è intriso l’immaginario collettivo di tanti.

Ho passato giorni ad osservare, sentire (con i sensi, proprio) e leggere, oltre che a dialogare, confrontarmi e rispondere a curiosità autentiche e meno. Giorni a dialogare con i pazienti, con i giornalisti, con gli amici, con i familiari.

Giorni trascorsi a cercare risposte semplici per domande complesse. E quel che più ha colpito il mio interesse è stato proprio questo continuo movimento dal generale al particolare, dalle categorie cui variamente apparteniamo o siamo appartenuti come cittadini, soccorritori, vittime, parenti delle vittime, sopravvissuti o superstiti, vigili del fuoco, speleologi, preti, militari, psicologi, volontari di protezione civile, manifestanti, attivisti, giornalisti, autorità, a quello che siamo individualmente, come persone. Dal Noi, al Loro, all’Io. Di continuo.

E credo di poter affermare che restituire e restituirsi il senso generale di questi dieci anni sia stato l’obiettivo perseguito, più o meno consapevolmente, da ciascuno, nei giorni pesanti di questa decima rinnovata primavera del dopo che ci è stato concesso di vivere e che ci ha portato, inevitabilmente, a fare bilanci.

La fiaccolata, le messe, i convegni, le presentazioni di libri, le interviste e gli speciali, le assemblee e le giornate ecologiche, le rappresentazioni musicali o teatrali, le fotografie vecchie e nuove, i filmati girati, la rabbia, il dolore, le urla e la paura di quella notte, le certezze, le incertezze e le speranze variamente espresse e/o condivise, le lacrime trattenute oppure esplose a rigare i volti, gli abbracci dati e presi, la vicinanza manifestata e cercata oppure la solitudine ostinatamente perseguita, tutto ha contribuito a costruire un quadro collettivo complesso fatto di tanti tasselli, in cui c’è tutta una collettività.

Pure quelli che non si sono sentiti rappresentati da niente, quelli che evocavano il 7 aprile e persino quelli che la parola resilienza non la sopportano più. Tutti insieme, nonostante tutto. Stanno, anzi stiamo, là: dentro il quadro composito delle varie anime di questa città.

Una città che mi piace raccontare con due piccoli spaccati di quel che per me è davvero importante fare, il giorno 6 di ogni aprile: commemorare, ricordare, condividere, elaborare, sperare e credere in un futuro carico di sfumature di possibile da declinare.

Ha a che fare con la mia personale restituzione di senso, quella cui con fatica ho dovuto accedere come individuo, come sorella, come figlia, come professionista della salute psichica e non in ultimo come madre, per tentare di dare risposte non solo ad un evento che è caduto sulla testa a me quanto agli altri, ma anche ad una morte prematura non altrimenti accettabile.

Si rende necessaria la restituzione di senso, quando un lutto traumatico, inatteso e precoce, ci colpisce. Si rende necessaria per andare avanti. Perché in caso contrario, realmente o metaforicamente, non si vive più.

Ha a che fare, anche, con la restituzione collettiva o alla collettività di quanto ho esperito perché la condivisione assume, talvolta, anche un significato sociale che sta nel ragionare insieme l’importanza della Memoria e del ricordo e sta nell’impegno che tutti singolarmente ci mettiamo. Decidendo ogni giorno di vivere qua e non altrove. Prendendocene la responsabilità. Contribuendo a quel che L’Aquila sta diventando e a quel che diventerà.

Andiamo con ordine.

Il mio 6 aprile è iniziato facendo colazione con i ragazzi de Ju Parchetto Con Noi (JPCN), un’associazione fondata da una decina di volontari di età compresa tra i 17 e i 22 anni che, lo saprete già, si è specializzata nell’organizzare giornate ecologiche con l’obiettivo di ripulire su segnalazione alcune zone della città. Raccogliendo rifiuti, proprio. Con l’aiuto di volontari e con il contributo concordato con l’Asm che fornisce loro sacchi, guanti, mascherine e che preleva i sacconi pieni a lavoro ultimato.

L’iniziativa da loro pensata e promossa per tutta la giornata del 6 mi ha commossa, tanto che se non avessi avuto degli impegni pregressi e concomitanti mi sarei infilata i guanti pure io. Tuttavia, ho ugualmente pensato di contattarli e mi sono accordata con Mirko Ludovisi, il più anziano solo di “fondazione” perché nel post-sisma, nell’originario parchetto da cui tutto è cominciato, lui ci giocava a calcio con dei coetanei che lo aiutarono anche a ripulirlo: aveva 10 anni ancora da compiere ma già si trovò a dover difendere la legittimità di quello spazio riguadagnato dalle sterpaglie, concordando con chi viveva nelle abitazioni limitrofe i giusti orari del silenzio da rispettare.

Ho contattato Mirko, vi dicevo, e mi sono proposta di incontrarli mezz’ora prima dell’inizio, per offrir loro la colazione e farmi raccontare un po’ delle loro vite e un po’ delle loro iniziative. Quello che non sono riuscita a raccontare io, perché mi sarei probabilmente messa a piangere, era che la mattina del 6 aprile 2009 un ragazzo sconosciuto, di poco più grande di loro, rientrava in casa dalla finestra aperta da cui era scappato nel cuore della notte, per prendermi un succo di frutta e un pacco di merendine da condividere con i miei cari. Perché avevo sete, la polvere e la paura mi impastavano la bocca e non avevo niente da bere. E allora questo ragazzo, prima ancora che io potessi fermarlo, rientrava dalla finestra in casa per me. Per un succo di frutta e delle merendine che non gli avevo nemmeno chiesto e che furono l’unica cosa ch’io masticai durante quell’infinita giornata, a parte la polvere.

Sono dieci anni che ci penso, a quella colazione rubata, perché persino mangiare sembrava un gesto fuori luogo, ai piedi delle macerie con mia sorella Claudia sotto, alle prime luci di un giorno caldo almeno quanto quello della scorsa mattinata, generosa di luce e calore, come quella di dieci anni fa, terribile compagna per chi scavava e per chi sotto ai sassi ci moriva.

Restituire è il più prezioso dei verbi, per me.

La colazione con Mirko e con i ragazzi de JPCN la porterò nel mio cuore per sempre, insieme all’affetto dello sconosciuto rientrato da una finestra e per fortuna, tornato indietro intero. Sono sicura di averlo ringraziato, lì per lì ma non abbastanza. E il mio pensiero di immutata gratitudine per lui, sta dentro alle tazze e ai cornetti di una colazione condivisa a dieci anni di distanza dall’altra con questi giovani dal cuore grande e dalle braccia forti.

Lasciati loro, mi sono recata presso il GSSI, dove mi attendeva l’assemblea di istituto dei ragazzi del “Cotugno”, alla presenza di altri familiari delle vittime, i nostri e quelli di altre italiche stragi che, come di consueto, partecipano al nostro anniversario con le rispettive associazioni. Il comandante - come Vincenzo Vittorini ama chiamare la nostra insostituibile Antonietta Centofanti (siamo capaci di stringerci in risate che non vi immaginereste mai) - mi aveva delegato a parlare di Memoria e io mi sono limitata ad eseguire gli ordini.

Non vi tedierò ribadendo quanto già affermato e scritto spesso, anche su queste pagine, ma vi dirò che partire dalle esperienze personali per veicolare dei contenuti importanti a delle giovani menti nel pieno del loro sviluppo è una responsabilità cui non mi sottraggo mai, pur riconoscendo tutta la delicatezza della missione.

Ha un problema grande con la Memoria, questa città. Un problema che ha portato a confondere l’andare avanti con il dimenticare, come se la rimozione fosse l’unico modo possibile per voltare pagina. Sappiamo che così non è, non lo è stato a Longarone dove per anni il trauma ha congelato in gola le parole e il dolore; non potrà esserlo qui, dove, a distanza di dieci anni, ho visto tante lacrime scorrere e tante parole inondare spazi pubblici, privati e virtuali, un gran bisogno di condividere e raccontare quella notte ma anche i giorni e i mesi successivi. Prendendo coscienza, alcuni solo oggi, di essere dei sopravvissuti e non solo al terremoto ma anche allo smarrimento e alle difficoltà concrete dei giorni, dei mesi e degli anni successivi. Di avercela in gran parte già fatta.

Si tratta, dunque, di accedere ad spazio mentale che forse inizia a prendere corpo anche in modo collettivo. Uno spazio mentale che richiederebbe anche un luogo fisico - il museo della Memoria di cui parliamo da anni - per offrire la giusta legittimità a quel che è stato e per integrare nella narrazione e nella costruzione del futuro anche il senso di un passato che per sempre farà parte dell’identità di questi nostri luoghi. E dell’identità di ciascuno di noi.

Sta a noi adulti di oggi, impegnarci a fare da ponte. Perché i giovani che ho davanti e che mi ascoltano con grande attenzione sono il nostro futuro, sono quelli che leggono, si informano e hanno a disposizione fonti che noi alla loro età non avremmo mai nemmeno immaginato. Sono le Greta, i Ramy, gli Adam e i Simone delle scorse settimane, sono quelli che si interrogano più di noi che, come adulti, su troppe situazioni, abbiamo già fallito, soprattutto nel fornire risposte.

Quelli che ho davanti sono gli studenti di un Istituto che, con le sue criticità, ha aperto gli occhi di tutti sul problema sicurezza dell’edilizia scolastica a L’Aquila. E non nel 2009 e nemmeno nel 2010 ma nel 2017, dopo Amatrice, i terremoti del centro Italia, dopo la neve, le altre scosse e dopo Rigopiano. In colpevolissimo ritardo. A maggior ragione qui, nel più grande cantiere d’Europa che - dopo dieci anni - si trova a non poter proprio nascondere sotto il tappeto l’assenza di ricostruzione scolastica.

Hanno ascoltato attenti e partecipi, quelli che Vincenzo ha ricordato essere la futura classe dirigente di un Paese che a me sembra in forte difficoltà proprio su quelli che erano e sempre sono stati i nostri punti di forza e vanto.

La poesia scritta da Francesca Laurenzi in memoria del cugino Lorenzo Sebastiani e virtualmente estendibile ai 309 tutti, arriva a ridestarmi dai miei pensieri tristi. Ci ha vinto un premio, Francesca, che di anni ne ha diciassette, oggi. Cercavo da giorni qualcosa da leggere a conclusione della messa delle ore 17, quella che ha luogo, da anni, ogni 6 del mese, sotto alla tenda-chiesa del cimitero. Ogni 6 del mese, da poco meno di 10 anni: col freddo, con la pioggia, con il sole, con il vento, con la neve. E coi genitori delle vittime che si avvicendano ma non si assentano mai del tutto. Anche questo è uno spazio di restituzione di senso nient’affatto sufficiente ma assolutamente necessario per molti. Cercavo mentalmente qualcosa da leggere ma non avevo avuto il tempo di cercare. Cercavo qualcosa da leggere perché molti dei nostri morti non hanno avuto carezze sopra ai visi feriti, né vestiti, né scarpe, né cuscini di fiori sulle bare. Non hanno avuto manifesti ad annunciarne la dipartita, se non postumi, ad memoriam. Nessun accompagnamento musicale.

Cercavo parole che fossero carezza, fiori, vestiti, scarpe, musica e manifesto per il nome, a sostegno dell’identità. Francesca mi ha donato le sue splendide parole e dopo la messa e ho lette - per Lorenzo e per tutti - tenendo Thomas, il mio piccolo pezzetto di futuro, per mano.

Non ce la si fa da soli, in questa vita e non ce la faremo mai individualmente in questa città. Si vince o si perde tutti, stavolta. Dipende solo da noi, dalle risposte che sapremo darci come individui e come comunità. E non tra altri dieci anni ma adesso.

Questo è il dono pesante - la restituzione - che questo decimo anniversario ci lascia tra le mani. Sta a noi continuare ad interrogarci. Cercando un senso condiviso e da condividere. Restituendoci vicendevolmente quel che abbiamo imparato, capito o, semplicemente, quel che abbiamo da dare.

Ultima modifica il Mercoledì, 10 Aprile 2019 23:20

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