"Siamo fiduciosi che questa situazione possa finire, anche alla luce delle condizioni di salute del nostro assistito, che non sono assolutamente compatibili con il carcere, e della storia del Prof. Di Orio, che non merita un epilogo così inutilmente vessatorio, vista peraltro la pena lieve che gli è stata inflitta".
Parole dei legali di Ferdinando Di Orio, gli avvocati Mauro Catenacci del foro di Teramo e Guido Calvi del foro di Roma, che hanno presentato istanza di scarcerazione e affidamento ai servizi sociali per l'ex rettore dell'Università degli studi dell'Aquila, già senatore della Repubblica. ll Tribunale di Sorveglianza di Roma ha fissato l'udienza per il prossimo 19 settembre.
Di Orio, 71 anni, è recluso nel carcere romano di Rebibbia da oltre un mese.
E' stato arrestato a seguito della condanna, in via definitiva, a due anni e sei mesi per induzione indebita nei confronti del professor Sergio Tiberti.
Stando all'applicazione retroattiva della recente legge ribattezzata 'Spazzacorrotti', per reati del genere è in effetti previsto l'arresto immediato, dopo il terzo grado di giudizio, anche se la pena è inferiore ai quattro anni.
Una evidente degenerazione, voluta dal governo gialloverde per dare risposta alla pancia dei cittadini che, oramai, vedono nella politica, in senso lato, il peggiore possibile dei mali.
Qui si annida il populismo, che ha portato al governo un movimento, quello guidato da Luigi Di Maio, che si è chiaramente definito 'fuori' dalla politica partitica tradizionale, almeno a parole, con la rinnovata Lega di Matteo Salvini, il più vecchio partito ancora esistente che, dopo anni di scandali (e ce ne sono ancora di faccende da chiarire), per mezzo del leader e della sua comunicazione pervasiva, si è dato una bella ripulita allontanando da sé l'immagine del partito d'establishment che, pure, pienamente rappresenta.
Si pensi a cosa è accaduto a seguito della pubblicazione della fotografia di uno dei due ragazzi accusati di aver ucciso a Roma il vicebrigadiere dei Carabieri Mario Cerciello Rega, bendato durante un interrogatorio: il ministro dell'Interno, assecondando gli istinti più bassi del suo elettorato, e non solo, piuttosto che stigmatizzare l'accaduto ha difeso l'operato degli inquirenti. Si pensi alle polemiche per la visita ispettiva in carcere del parlamentare Ivan Scalfarotto, che ha esercitato una sua precisa prerogativa di mandato verificando le condizioni di due persone in cella: persino il suo partito, il PD, ha preso le distanze. Per non parlare dell'indegno spettacolo offerto dal governo al momento della cattura del latitante Cesare Battisti.
Ne emerge un quadro piuttosto preoccupante: si sta perdendo di vista l'altissimo concetto di giustizia, alla ricerca di una legalità di facciata che rischia di minare, alle fondamenta, il nostro vivere comune, la nostra democrazia. Assicurare i diritti riconosciuti dalla nostra Costituzione anche al peggiore dei criminali, garantire indagini accurate, un processo equo, condizioni carcerarie degne anche a chi ha commesso reati odiosi, difendere il principio della commisurazione della pena alla condanna, tutelando fino in fondo le condizioni di mitigazione della detenzione carceraria, significa garantire i diritti di ciascuno di noi.
D'altra parte, viviamo nell'epoca della disintermediazione: gli organi costituzionali dello Stato si rapportano con la popolazione attraverso dirette Facebook, indossando oggi la giacca della polizia di Stato, domani la giacca della penitenziaria, ed emanando sentenze - "castrazione chimica", "marciscano in galera" e così via - in una indebita invasione di campo cui purtroppo ci stiamo abituando, in spregio alla Carta costituzionale. Siamo la patria di Cesare Beccaria, ma sembra che ce ne siamo oramai dimenticati.
In questo senso, la vicenda umana di Ferdinando Di Orio è emblematica della distorsione del senso di giustizia che stiamo vivendo.