Mercoledì, 12 Novembre 2014 13:46

Sentenza 'Grandi rischi': "Si andrà avanti, anche stavolta, anche di più"

di 

di Ilaria Carosi* - Le lacrime giovani pesano di più. Sono stizzite, sommesse, scomposte e disordinate. Quelle mature rigano il volto silenziosamente, corrodono e consumano. Urlano e rimbombano dentro. Inudibili. Imbarazzanti per chi le osserva e non sa cosa dirti, né come maneggiarti.

Per questo i superstiti della Casa dello Studente me li sono abbracciati uno per uno. Tutti e quattro: la collega psicologa, il futuro odontoiatra, il futuro medico e la ragazza che si è messa a lavorare, prima o dopo aver concluso gli studi non lo so. E forse mi è mancato il coraggio necessario per chiederglielo.

Erano lì, nella penombra del parcheggio, stretti nei loro abiti e aggrappati ai loro pochi anni. Non sapevano nemmeno chi fossi, né che avevo appena finito di asciugare le mie, di lacrime. Eppure, ho sentito il dovere morale di infondere loro forza e coraggio, quelle che sento vacillare io per prima, ormai. Non basterà e non capiranno oggi il senso profondo di tutto quello che ho detto loro.

Le cose più belle ce le diciamo tra di “noi”.

Passano negli abbracci, nelle telefonate e nei messaggi che ci scambiamo in penombra e non visti, a riflettori spenti. Dunque, siamo e resteremo uniti, al di là di ogni tentativo di separazione o distinzione tra vittime e singole responsabilità degli imputati.

Aspettavamo tutti ieri e nella testa un solo unico pensiero: che si fa domani? I processi hanno scandito il nostro tempo interno, sospeso o bloccato a quella notte, dandoci conto di quello esterno che solo per altri continuava a camminare. Tic, tac, tic, tac, tic, tac… Qualcuno, tra noi, lo ha contato ossessivamente.

Mia madre, per esempio, che ieri sapeva esattamente quanti mesi fossero passati dalla sepoltura di mia sorella, avvenuta il 10 aprile 2009. Dieci come ieri, il giorno in cui Ilaria, se non fosse morta quella notte, avrebbe compiuto 25 anni. Anche i suoi genitori aspettavano, in quell’aula. Come aspettava Sergio, che mi ha chiamato al telefono quando mi ha vista in tv. Sergio, il papà di Nicola, non accolto tra le parti civili ma sempre accolto da noi come un fratello, in questa città che gli ha strappato il giovane figlio studente e con lui le speranze di una vita.

Provoca rabbia sentire, ieri ancora una volta, che per noi parenti delle vittime questo processo aveva un valore catartico, riparatore nei confronti di quelle perdite paragonate, da più di un avvocato della difesa, a quanto perso dagli imputati, in questi anni. E noi muti. Ad ascoltare in silenzio, sorridendo nervosamente, mordendoci le labbra o digrignando i denti. Commentando solo a volte e a voce bassa.

I “nostri morti”, posso dirlo ora, sono stati spesso nominati a sproposito, tardivamente “omaggiati”.

Pensavo, ieri, al viso bello di mia sorella, che le difese, se avranno voluto, avranno potuto osservare soltanto in quelle foto post-mortem che sappiamo essere allegate agli atti di un processo in cui si contesta, tra l’altro, un omicidio colposo. Ero lì, in obitorio, mentre quelle foto a lei e agli altri scattavano.

Era bella, bellissima, mia sorella Claudia. Mi sono portata in tasca una foto che le “rendesse giustizia”, una di quelle in cui sorrideva serena. Quante sfumature ci sono dentro una vita, così tante da non poterle mai cogliere tutte, nemmeno quando a quella persona vuoi un bene profondo. Ne parli, racconti e ti senti sempre colpevolmente parziale, mancano e mancheranno dei pezzi, non riuscirai a renderne l’idea, le mille mimiche facciali, il tono di voce, la luce negli occhi, le movenze, l’intelligenza fine, l’ironia.

“Non so come andare avanti”, mi ha detto uno dei quattro giovani nel piazzale.

Non lo sa nessuno sorellina, e so bene che la morte tu l’hai guardata in faccia davvero. Però si andrà avanti, anche stavolta, anche di più. Perché lo meritano loro, i nostri morti e lo meritiamo noi che non viviamo più le vite di prima.

Non era un capro espiatorio quello che cercavamo. Non uno che pagasse per tutti.

Non rende giustizia a quell’inganno mediatico, comunicativo e psicologico subito come cittadini, prima ancora che come “parenti di”. Non rende giustizia per le leggerezze commesse, per quella valutazione del rischio carente e lacunosa, malgrado quelli venuti a L’Aquila fossero i migliori, gli unici titolati a parlare e a mettere a disposizione dei cittadini “tutte le informazioni disponibili alla comunità scientifica”.

Non rende giustizia alla percezione di essere orfani di uno Stato che non tutela più i propri cittadini.

Mi ripeterò ma ho già detto che lo Stato l’ho aspettato tanto, quella notte.

E quando ripenso allo smarrimento di quei ragazzi, in quel piazzale poco illuminato e freddo, al loro dividersi, alternandosi, il sedile di quell’unica macchina con la portiera aperta che sembrava essere il loro unico appiglio, mi viene una grande rabbia e anche un severo imbarazzo nell’avere la certezza che i loro diritti non li ha tutelati nessuno. Né prima, né poi.

“Vergogna” è la parola giusta. Anche se a gridarlo in aula, anche stavolta, non eravamo noi ma “la città” che ci ha abbracciato, restituendo un senso al troppo dolore muto che resta dentro. Silenziosamente urlante.

di *Ilaria Carosi, psicologa e psicoterapeuta

Ultima modifica il Mercoledì, 12 Novembre 2014 14:18

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