Giovedì, 21 Maggio 2015 15:48

Fanfara & caciara, in delirio con gli alpini: il racconto di Ford Prefect

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"E tu dove te ne vai per il weekend degli alpini?"

E' cominciata mesi fa. Prima ci pensavi pigramente relegando il problema in qualche meandro in disuso dell'area "cose da fare non a breve". Poi, col succedersi dei mesi, hai cominciato a spostare la questione nel settore "decisioni da prendere in tempi ragionevoli". E mentre amici e parenti prenotavano low cost per la Bulgaria o si attrezzavano per camperate all'Argentario pur di andarsene in tempo per la fatale tre giorni, tu continuavi a baloccarti con l'idea che alla fine qualcosa ti saresti inventato, magari prendendo telo e costume per un fine settimana a San Vito Chietino.

Ed è stato allora che sono cominciati ad arrivare i primi inquietanti dettagli, gonfiati dal monsone delle voci cittadine. Pare che chiudano l'autostrada per far parcheggiare i pullman. Sembra che non si trovi un posto a dormire da San Marino a Foggia, altro che San Vito. Quattro specie di pecore autoctone sono state estinte per preparare milioni di arrosticini, per cuocere i quali si provvederà a disboscare parte della pineta di Roio. Nel mezzo dell'adunata arriverà Ferox, perturbazione polare con temperature prossime allo zero Kelvin e abbondanti nevicate fino alla seconda secca di Silvi.

Lì ti ha preso il panico. Una rapida scorsa alle residue possibilità di fuga, incrociata con una serie di impegni comunque già presi in città, ti ha convinto che ormai ti eri fregato con le mani tue. Quando il livello di gravità si è spostato su "disastri imminenti e inevitabili" ti sei rassegnato alla difesa passiva. Avresti passato all'Aquila il weekend dell'ottantottesima adunata nazionale degli Alpini.

Il panico si diffonde a macchia d'olio anche grazie a piccoli dettagli. Entri al supermercato dieci giorni prima del grande evento e trovi un tranquillizzante cartello che più o meno dice: "Ovviamente siamo aperti nei giorni dell'adunata, anzi ne approfittiamo per schiavizzare i nostri dipendenti dalle 7:30 alle 23:30 come se fosse Natale. Però voi spicciatevi a fare la spesa prima, potrebbero esaurirsi tutte le scorte e vi toccherà morire di fame per le strade. E poi non dite che non vi avevamo avvisato!".

Allora entri col sangue agli occhi a ti lanci tra le corsie per accaparrarti il minimo per sopravvivere dal venerdì alla domenica sera. Non avendo fatto la guerra, hai un'idea vaghissima di cosa occorra per mantenersi in vita e quindi abbranchi fagioli in scatola in quantità, che fa molto bivacco da far west, uova, tuberi di ogni sorta, pane che diventerà di marmo già il giorno dopo e quindi, in previsione, farina e lievito come se dovessi panificare per un esercito. Inopinatamente, nel paniere della sopravvivenza lasci scivolare beni non proprio di prima necessità tipo mango, salmone e crackers alla paprika e infine ti avvii alla cassa trascinando dodici bottiglie di acqua frizzante, perché va bene la guerra ma vuoi mettere il piacere di quel solletichino al palato?

Poi la sera, prima che tutto cominci, ti guardi allo specchio e ti dici: "Regola numero uno: qualunque cosa succeda, per nessuna, nessuna ragione al mondo devi metterti a bere con un Alpino".

Il primo contatto lo prendi qualche giorno prima dell'avvio ufficiale delle ostilità. In compagnia femminile particolarmente ben disposta all'accoglienza ti avvicini al camper di un Alpino già accampato lungo il viale di Collemaggio. L'allegro gruppo di benvenuto si avvicina con aria amichevole, fossimo alle Hawaii cacceremmo le ghirlande. Ti ho già visto stamattina, ti ho fatto una foto, Ah eri tu? aspetta che caccio il cacio e ci facciamo due bicchieri mentre finisco la mia gavetta. Che mangi? Minestra di trippe. Ah...(minchia) Volete favorire? Ma no, finiscila in pace. Guarda che dentro ne ho un bidone da venti litri. Ah...(di nuovo).

L'Alpino in questione fa onore alla sua tavola mettendo mano a una scorta apparentemente illimitata di formaggi e salumi. La bottiglia standard da due litri e mezzo di bianco proletario si prosciuga al ritmo delle chiacchiere. La compagnia si arricchisce della presenza di un autoctono canemunito e di una seconda penna nera visibilmente nelle mani della divinità etilica, che riesce appena a informarci della sua provenienza varesotta prima di ritirarsi nella sua bolla catatonica senza più esprimere un concetto di senso compiuto.

Va tutto fin troppo bene finché non si scivola inavvertitamente sulla politica. Bastano un paio di accenni a extracomunitari e manganelli e capiamo l'aria. Arrivati ai "quando c'era Lui" ci alziamo sorridenti, salutiamo simulando impegni pregressi e ce ne andiamo. Metà della compagnia femminile decide sui due piedi di lasciare la città al più presto per evitare il ripetersi di simili incidenti diplomatici.

Nonostante tutto mi adeguo molto a malincuore a prendere congedo, il vino e il salame erano proprio buoni e le scorte sembravano all'altezza. La regola numero uno è già saltata ma per ora l'onore è salvo.

La sera successiva il weekend è ancora lontano, ma fuori da ju Boss sembra già scesa l'avanguardia della Julia. Quella giovane, a quanto pare. Qualche baldo giovanotto pennuto familiarizza con i locali tra birre e canti, in un angolo si accende una piccola rissa di assaggio che però non avrà seguito. Machismi a iosa tanto tra gli ospiti quanto tra i visitatori, ma niente di insopportabile a detta delle astanti. Ogni tanto transita qualche Alpino più datato, spesso in compagnia della sua signora, e scuote la testa come a dire "ai miei tempi...".

In questa cornice da manuale, compare lui. Per semplicità, lo chiameremo Barcollo dalla scritta ostentata sulla maglietta, "Barcollo ma non mollo", proposito destinato a compiersi solo a metà.

Barcollo è un giovane dalle gambe a tarallo e con una lunga barba a punta che gli copre la quasi totalità del volto, da cui emergono solo due occhietti strizzati nello sforzo di reggersi in piedi. Porta fiero la sua penna nera e la maglietta di cui già si è detto e canta in continuazione melodie alpine su cui salmodia una specie di indefinibile jodel clamorosamente privo di consonanti. Dopo lunghe interazioni logopedistiche riesco a carpirgli che viene da Belluno, o altra località riconducibile al fonema "eeùuuuuo".

Arriva anche l'Alpino varesotto del giorno prima, sempre sullo stesso standard alcolico ma che oggi sembra un istruttore di fitness se paragonato alle condizioni miserabili in cui versa Barcollo. Quest'ultimo accimenta ogni singolo essere femminile della piazzetta, ma non è difficile capire che con l'alcol che ha in corpo nemmeno ipotetiche pessime intenzioni potrebbero renderlo pericoloso. In breve tempo è la mascotte dei presenti, gira brindando dalla sua gavetta con tutti i capannelli che incontra. Infine tracolla sul marciapiede centrandomi in pieno sulla coscia destra e lasciandomi un ematoma che mi farà compagnia per molto tempo.

La mattina dopo Barcollo è sulle pagine delle testate online. Dorme disteso su un'aiuola del Castello, col cappello che gli copre la faccia. Nel pomeriggio arrivano le notizie dei primi ricoveri all'ospedale e, pur non avendo le prove, il collegamento va da sé. Non se ne avrà più notizia.

Venerdì, finalmente si comincia! Per la serata mi avvio con amici a Paganica. In pratica il piano è approcciare l'adunata partendo da fuori. Non ho ancora un'idea ben definita su come andrà. Certo, dai funesti presagi dei mesi addietro sono passato a un cauto ottimismo dopo le prime prese di contatto. Ma è pur vero che ancora non vedo dispiegata in tutto il suo potenziale la forza alpina. In fondo, sono famosi per lo spirito di corpo. Insomma, è ancora tutto da vedere.

Per un po' ce ne stiamo buoni su una panca con una birretta occhieggiando la potente macchina organizzativa che ha montato una città intera dentro Paganica. L'atmosfera piano piano ci prende, a intervalli più o meno regolari si leva una voce sola che trascina i vicini in un canto di montagna. Dalle casse in stile sagra un Alpino dj a corto di mp3 cicla pervicacemente cinque pezzi tra cui l'inno di Mameli, cantato in piedi come un sol uomo dai presenti almeno sette volte finché un'anima pia riesce a convincere '’uomo al mixer ad allargare i suoi orizzonti musicali.

Nella tavolata alle mie spalle un gruppetto di alpini si lascia trascinare da un ex commilitone di Pinzolo appassionato di canti abruzzesi in una versione padana di "Tutte le funtanelle". Ci si scalda il cuore in petto, evidentemente grazie anche al primo litro e mezzo di birra, e ci uniamo a pieni polmoni al coro, scatenando l'entusiasmo del pinzolese sul difficile passaggio di "zumpalarilirà\l'amore è belle".

Detto fatto ci ritroviamo al loro tavolo, dove tra un bicchiere e l'altro si alternano cori alpini e appenninici in un crescendo rossiniano intercalato dal ritmico e quasi artistico biastimare del pinzolese che si accanisce sul Creatore e tutta la sua famiglia a ogni pausa tra le canzoni.

La regola numero uno viene clamorosamente infranta. Vengo rincasato come un ferito del Vietnam coperto quasi di altrettanto onore sul campo e ormai conquistato definitivamente alla causa. L'ultimo pensiero della serata va a chi si sta perdendo la festa. Tornate ragazzi, fate ancora in tempo.

Sabato si conquista L'Aquila. Si parte in serata da Via Vicentini con l'idea di risalire per la Croce Rossa fino al centro. Il proposito si rivelerà eccessivamente velleitario quando, ore e ore dopo, ci arrenderemo esanimi a The Corner concedendoci un panino gourmet di Aperò e una birra fresca. Ma la strada è uno spettacolo. Mezzi semoventi di ogni fatta circolano a casaccio traportando gente di ogni età che canta a squarciagola. Un'apetta passa imballata impennando, scintillando dal retrotreno, rallenta per far scendere un Alpino che vuole ballare con la buttadentro di non so quale locale e mentre i due si danno a una specie di saltarella l'apetta riparte e imbocca decisa per il cancello del Corner incurante della presenza di esseri umani. Nessuna vittima, ma sembra più che altro un caso. L'equipaggio scende e si beve tutti insieme.
Guardandosi intorno in questa nottata surreale, tutto sembra una specie di rave.

Un rave di militari e civili, di vecchi e bambini, con "La montanara" al posto della techno e fiumi di alcol invece degli acidi. E sicuramente un'atmosfera molto più allegra. Ma è incredibile l'abbinamento tra un evento legato in fondo al mondo militare e l'aria di libertà sfrenata che si respira. Ragazzi col cappello che ti chiedono di firmargli la bandiera, trattori con le botti tricolori che caricano su chiunque, alpini in fila per prendere un piatto di carne argentina mentre un emulo di Santana si scortica le mani su un assolo interminabile di Corazon espinado. E, come nei sogni di molti, un'intera città che si muove a piedi o sulle navette senza la necessità di arrivare in macchina da sotto casa a qualsiasi meta.
Allora si può fare. Forse. Vedremo da lunedì.

Nella domenica che sarebbe dovuta essere di Ferox un sole abbacinante allaga di luce L'Aquila. In un caldo da piena estate due cordoni di aquilani ebbri di festa abbracciano la sfilata degli alpini. Che, diciamolo subito, ha molto di civile e poco di marziale. Poche divise, tante penne colorate sui cappelli, striscioni di solidarietà, l'olimpiade delle camicie quadrettate e delle maniche arrotolate al gomito. "Grazie alpini" e "Grazie a voi" rimbalzano tra il pubblico e gli sfilanti. Dagli altoparlanti tracima retorica a basso costo, ma pazienza. E' la strada che parla, tra mille colori e le note di "Trentatré", l'inno alpino riproposto allo sfinimento da decine e decine di fanfare.

La teoria ininterrotta attraversa la città dalla prima mattina fino a sera, una cosa che normalmente mi avrebbe avvilito a livelli infimi ma che stavolta non riesce ad annoiarmi neanche un po'. E' tutto stranamente gradevole. Sarà il piacere di essere stati sorpresi da un evento inaspettato, sarà la follia di questi giorni senza regole, sarà che tutto è sembrato la sublimazione del caravanserraglio postsismico, una specie di catarsi dalle tendopoli col bromuro a quelle con la grappa, fatto sta che ci ritroviamo sui marciapiedi davanti alla Dolce Vita a bere le ultime birre chiedendoci, noi che mesi fa vagheggiavamo fughe anti-alpini, quanto ci vorrà dall'Aquila ad Asti per l'adunata del 2016.

Quando la sera scende, gli Alpini partono e la gente si rincolonna verso i Progetti Case.

Il giorno dopo la città si sveglia in un lunedì di saudade. La gente fischietta arie montanare sul posto di lavoro, pollici scorrono su schermi di smartphones passando in rassegna le foto del weekend. Nell'aria le ultime tracce di fumo e brace hanno ceduto il posto al solito profumo di pane e cornetti. In alto, tra i pali della luce, solo quelle migliaia di bandierine tricolori resistono al clima di smobilitazione.

Già si sente parlare di altri grandi eventi, di modello da ripetere. Mi sembra che in queste analisi a caldo sfugga il senso principale di quanto è successo. E cioè che è possibile far vivere L'Aquila semplicemente facendolo. Se gli Alpini sono stati l'enzima di cui qualcuno aveva bisogno, beh, buon per lui, ce l'ha avuto. Ma quello che abbiamo visto è che siamo noi che possiamo fare il miracolo semplicemente varcando la soglia di casa.

Non serve un Expo, non serve un'Olimpiade.
L'Aquila è già nelle strade gente, andatevela a riprendere.

Ultima modifica il Venerdì, 22 Maggio 2015 12:03

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