Martedì, 08 Dicembre 2015 07:19

"Il bicchiere della staffa": Ford Prefect racconta i locali storici dell'Aquila

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Vogliamo proporvi un nuovo, intenso, divertente ed emozionante racconto di Ford Prefect, autore misterioso della fortunata rubrica di old.news-town.it Praticamente Innocua - viaggio semiserio nell'Aquila post-sisma [leggi tutte le puntate]. "Il bicchiere della staffa", inedito scritto in occasione dell'incontro di Ford Prefect con i suoi lettori tenutosi la settimana scorsa all'Aquila, narra di vita [notturna] di ieri e di oggi nel capoluogo abruzzese...

In questi anni di ricordi ipertrofici e consolatori, la narrazione collettiva sta costringendo L'Aquila che fu dentro una cornice insopportabilmente idealizzata, buona per le cartoline e le commemorazioni. La memoria ferita, con buona pace dei fatti, sta disegnando un'immaginetta da santino, colorandola di un misto di sorrisi e lacrime. Il rischio è che tutta la complessità del ricordo che avremmo il dovere di lasciare alla generazione che verrà si riduca a questa caricatura agiografica. Non sia mai! Dovranno passare sui nostri cadaveri, ci dovranno tappare le bocche e segare le mani per tramandare ai posteri questa storiella zuccherosa.

I vati dell'Aquila bella mè cantano una città diurna, solare, brulicante vita per vicoli e piazze, che ostentava la sua bellezza dai balconi infiorati e dai cortili dei suoi palazzi nobiliari. Cortili che, per uno strano gioco di memorie parzializzate, i Nostri ricordano perennemente aperti, fruibili da tutti, fieri di mostrare il loro splendore a una collettività che era quasi famiglia, e che sciamava felice di palazzo in palazzo come si passa da casa di zia a casa di nonna. Una città di cieli azzurri solcati da caroselli di rondini in festa e rallegrati dal suono delle campane a stormo.

Mah... Che cosa strana la memoria. A quanto ricordo io, certe volte per vedere l'interno di un cortile dovevi buttare la testa nel primo spiraglio lasciato inavvertitamente aperto dal padrone di casa. E dovevi sperare che il solerte proprietario non rimandasse le ante (pesantissime, tra l'altro) decapitandoti. Gente gelosa della privacy, gli aquilani, altro che cortili aperti! Gli eleganti e soleggiati vicoletti attraversati dall'operosa e sorridente comunità io me li rammento spesso alluvionati come il Polesine, ingorgati gordianamente da una fila ininterrotta di fumosissime Golf precatalitiche in cerca di improbabili posteggi. Ricordo sinfonie di clacson che avrebbero fatto la gioia di Stockhausen e duelli rusticani per un parcheggio in isola pedonale, il tutto contrappuntato da fitti scambi di addebiti alle reputazioni delle rispettive mamme.

Molte facciate di palazzi ancora ce le ho davanti, scrostate come dopo un bombardamento e orrendamente dipinte di quel marroncino triste come una novena, o di quell'arancione slavato che gridava vendetta. Tante finestre in pietra nascondevano la vergogna di orridi infissi in alluminio anodizzato su cui sovrintendenze varie chiudevano entrambi gli occhi. Basculanti di garage si aprivano squarciando senza pietà muri coperti da vincolo. E poi, francamente, più che le rondini io mi ricordo i piccioni, e più che in volo me li ricordo intenti a espletare necessità corporali su balconi e auto in sosta. Questo era, il resto è mito.

Insomma, il santino ci racconta un posto mai esistito, e per di più si limita a descriverci la città degli "adulti". Dei "responsabili". Di quelli "seri". Una città di gente a modo, che si animava con i bar che aprivano prima dell'alba e si metteva a nanna presto dopo una giornata di duro lavoro. Non prima, s'intende, di aver fatto un bel giro per i tanti cortili aperti gioendo dei voli delle rondini.

Però.

Però, al calar del sole, io ricordo che prendeva corpo un'altra città, che purtroppo o per fortuna non finirà mai su una cartolina. Gli "adulti" e i "responsabili" se ne tenevano lontani, la tolleravano o, nei casi peggiori, la osteggiavano apertamente. Balzava fuori dai tombini, gorgogliava per le grondaie dei palazzi, echeggiava nei discorsi segreti che filtravano dalle facciate buie. Vibrava per i vicoli, pervadeva i bassi del centro. Attraversava furtiva le piazzette, spostandosi da riparo a riparo, viaggiava tra cantine umide e stanze infuocate da stufe non a norma. Facendosi coraggio, d'estate lasciava i rifugi chiusi e tracimava nelle piazze e nelle strade. Ma, per vocazione, restava un mondo sotterraneo, coperto, perché concepito nei rigori delle notti invernali, quando fuori anche il respiro ti si ghiaccia e tu cerchi solo quattro pareti scaldate di vita altrui da cui lasciarti avvolgere.

L'Aquila di notte era un regno di gerarchie annullate, una ragnatela di rifugi per sonnambuli che con il buio si dispiegava approfittando del sonno dei giusti. Era la capitale di un mondo sommerso, licantropica, vampiresca, sregolata e irresponsabile se misurata con il metro delle leggi della luce, eppure sorretta da un proprio, mutante codice informale. Gli abiti diurni restavano fuori, ordinatamente allineati lungo un immaginario lunghissimo attaccapanni, in attesa di essere indossati di nuovo alla luce del giorno.

Certo, c'erano le discoteche. Lo Squeak, lo Studio 81, il Mythos, che si alternarono negli anni dando rifugio ai danzatori della notte. Luoghi che hanno creato una loro mitologia, attraversati e animati da una varia umanità lontanissima dai cliché odierni, figli del tronismo e del presenzialismo televisivo. Ricordo, uno per tutti, il dj dello Squeak, di cui mi obbligo a non fare il nome, che alla fine di una lunghissima serata offrì a me e a un mio amico un passaggio a casa.

Seppur lievemente inquietati dal diametro delle sue pupille, in fondo alle quali si agitavano al vento le distese di papaveri da oppio degli altipiani afgani, accettammo il passaggio a bordo della sua Citroen Pallas color arancione, con i coprisedili con le frange da buttero maremmano, le sospensioni rigide e qualche lavoretto ben fatto sotto il cofano. Non ci mise più di un minuto a coprire il paio di chilometri che separavano la discoteca da casa mia, e per tutto il viaggio si disinteressò alla strada, guardando una puntata di "Mi benedica, Padre", una serie tv su un prete cattolico in Irlanda, su un televisorino da sette pollici in bianco e nero che teneva attaccato allo spinotto dell'accendisigari. Insomma, giravano tipi così. E' un miracolo se siamo arrivati vivi al 2015.

Ma più ancora delle discoteche, la notte aquilana era il mondo dei locali, queste isole sospese nell'oscurità che dietro porte spesso seminascoste aprivano mondi a sé. Ci si andava per bere, sicuramente, ma erano soprattutto posti in cui potevi stare insieme agli amici sapendo che la notte restava fuori dalla porta.

Farne un elenco esaustivo non sarebbe possibile. Prendiamo a caso l'Émile Marot, in via Bone Novelle. Più che un circolo privato sembrava, e in pratica era, casa di uno che ti apriva la porta se bussavi. All'Émile Marot si giocava a qualsiasi gioco legale, dal tressette al Tabù, dalla dama al Risiko, mentre intorno si spandevano i vapori aromatizzati dei mille infusi disponibili e dei dolcetti che li accompagnavano, col jazz o il blues a fare da sottofondo. Pensate un po' che serate trasgressive: fare le ore piccole con la tisana al tiglio e i biscotti al burro mentre ascolti Coltrane giocando a Monopoli.

Però galleggiavi in un'ovattata sensazione di casa allargata, di familiarità, in cui a ogni scampanellata alla porta (perché dovevi veramente suonare per entrare) poteva arrivare una faccia nota con cui scambiare due chiacchiere in tranquillità o una nuova che potevi conoscere quella sera. Si respirava un'atmosfera da nuvola di sogno, sospesa nel gelo delle notti cittadine. Con il sole la nuvola si dissolveva, e quella porta su un cortile del centro tornava a sembrare casa di qualcuno. E forse lo era. Forse l'Émile Marot era davvero una magia dell'oscurità.

Altri posti erano meno poetici e ci andavamo per altri motivi. Lo Shangrillà era un cunicolo nella pancia di un palazzo di via Antonelli, stretto e lungo come un budello, e ci andavi, da ragazzino, per fare il meno ragazzino. Poi, appena più grande, ci andavi perché i ragazzini ci andavano a vedere te che non eri più ragazzino e ti sentivi più grande. Grossomodo. Le dinamiche adolescenziali sono sempre farraginose. Allo Shangrillà niente tisane, là facevano i cocktail. Cioè, traducendo, intrugliavano roba quasi a caso e te la davano passandotela per drink metropolitano. Era il periodo, tragico, in cui per non fare il provinciale dovevi scimmiottare la vita delle grandi città, che però ti arrivava da canali informativi di dubbia autorevolezza: i film di Jerry Calà, Drive In, i rarissimi contatti con amici milanesi o romani che ti sembravano tanto smagati ma che, col senno del poi, erano solo dei tamarri senza gloria e senza vergogna. Quindi allo Shangrilla cinte di El Charro, maglie di Armani, gel come se piovesse e cocktail. Io, in fase inconsciamente filoatlantica, giravo con enormi bandierone a stelle e strisce sulle maglie di Panarelli e bevevo solo Bronx e Manhattan, ma solo perché il New Jersey non esisteva.

Il centro era costellato di posti così. Trovavi quello frequentato anche di giorno dai giocatori di ruolo, come l'Arcadia, oppure il localino più da grandi, nel quale ti affacciavi di rado solo per accertarti che, in effetti, i trentenni la sera uscivano davvero, solo che stavano tutti o quasi al Sedano Allegro. Quello dove potevi chiacchierare a bassa voce e quelli, in verità la maggioranza, bombardati da musica anni Ottanta a palla. A prescindere dalla tipologia, tutti i locali erano immersi in una fitta coltre di fumo che però creava quell'atmosfera di ti-vedo-non-ti-vedo che aggiungeva un tocco di mistero all'Humphrey Bogart.

Negli anni Novanta il cuore della notte aquilana si spostò dalle parti di Piazza San Biagio. Fu un po' la fine dei locali di una volta e con l'avvento dei pub cambiò proprio la filosofia della notte. La Quintana insieme a qualche altro pioniere fece il passo ulteriore mettendo in campo la ristorazione nell'orario di cena, per cui potevi entrarci alle otto rischiando di uscire alle tre. O mai più.

Quando la notte era veramente fonda, il grosso della gente se ne andava a nanna. Se riuscivi a resistere, le ore piccole erano il momento più poetico. I volumi si abbassavano, le chiacchiere si portavano su un tono più pacato. Leggendari personaggi lunari uscivano dalle loro bare transilvane per trasformarsi in socratiche figure notturne, e i banconi si animavano di estemporanee discussioni filosofiche.

Poi, dopo esserti concesso il bicchiere della staffa, finalmente uscivi e ti lasciavi avvolgere dalla notte aquilana. Capannelli sparsi urlavano canzonacce o disputavano sui fuorigioco della domenica precedente. Già qualcuno addentava il primo cornetto appena sfornato, chiacchierando con uno sconosciuto ancora alle prese con l'ultima birra. La città dei giusti riposava dietro le imposte chiuse, ignara del mondo fatato che ne vegliava il sonno.

Oggi l'incantesimo notturno ha qualcosa di spettrale. I profili delle gru vegliano nel buio ma non ci sono sonni da proteggere. Il silenzio è più profondo e dalle fontane senz'acqua si alza solo un canto muto. Ma dalle luci accese nei pochi palazzi restituiti alla vita si spande la stessa voglia di sconfiggere l'oscurità. Piazzetta Chiarino ha raccolto il testimone di Piazza San Biagio, e grazie a Dio i vini di Pantasima o le birre di Anbra hanno cancellato il ricordo dei raffazzonati Bellini fai-da-te di trent'anni fa.

Ma l'idea resta la stessa: "Non dormo mai, perché il sonno è cugino della morte" dice un verso di Nas. E oggi c'è un motivo in più per resistere a Morfeo in questa città.

Anche per questo io L'Aquila preferisco ricordarla così. Un mondo di viaggiatori del buio, di eserciti sbandati di insonni senza casa, che si raccontavano segreti che alla luce del giorno sarebbero suonati ridicoli, o illegali. Certo, sarebbe difficile farne un santino. Era una città fragile come il sonno e poco raccomandabile come una cattiva compagnia.

Ma bellissima, come la notte.

Ultima modifica il Martedì, 08 Dicembre 2015 01:42

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