E' andato in scena ieri, a L'Aquila, nella piccola sala della Casa del Teatro, "COURAGE! Storie di coraggio, resistenza e migrazione". Lo spettacolo della compagnia teatrale pescarese Muré Teatro, con la regia di Francesca Camilla D'Amico, è il secondo appuntamento di "Luoghi sicuri - Senza vento, storie di sogni e migranti", la rassegna, ideata ed organizzata da ArtistiAquilani onlus, in collaborazione con l’Università degli Studi dell’Aquila, con il Comune dell’Aquila e con il Comitato territoriale Arci L’Aquila.
L'aria di teatro popolare si è respirata già dalle prima battute e dalle prime note. La musica, curata da Sabastian Giovanucci, attinge alla tradizione abruzzese e, snaturata dal contesto provinciale, si insinua in tutte le storie. In quanti credevano di trovarsi di fronte ad un ascetico e inafferrabile spettacolo, degno del più inasprito dei critici, devono ricredersi e lasciarsi andare ad una cultura popolare, per l'appunto, di tutti e per tutti.
D'altronde è la stessa, giovanissima compagnia (nata nel 2012) a spiegarlo in una nota: "La nostra è una ricerca sullo sviluppo di una teatro popolare, che sia a contatto con le proprie radici, memorie sociali, tradizioni teatrali e culturali ed anche in sintonia con i linguaggi contemporanei e le storie del mondo". Una sorta di intento programmatico che mantiene una certa coerenza all'interno dello spettacolo, non senza qualche intoppo.
Il perno attorno al quale ruota l'intero spettacolo è l'eterna dicotomia tra appartenenza e estraneità, vicinanza e lontananza. I tre attori (Francesca Camilla D'Amico, Martina Morgione e Marcello Sacerdote) portano lo spettatore attraverso storie di "coraggio, resistenza e migrazioni", a cavallo tra epoche, luoghi, linguaggi e dimensioni. La storia portante è quella di una piccola compagnia teatrale che è sul punto di emigrare dall'Italia, sentendosi rifiutata da un Paese in cui non c'è più spazio per la cultura. Una situazione che appare cucita addosso agli attori - chi più, chi meno - e funge da macro-contenitore, dentro cui si inseriscono le altre storie, senza mai indagarne in profondità le frustrazioni e le ragioni.
Filo conduttore è lo spettacolo che gli attori tentano goffamente di mettere in scena, prima della partenza: niente meno che Madre Courage e i suoi figli di Bertolt Brecht. Un espediente che, recitato con costumi di scena decisamente arrangiati e vocioni da attori d'altri tempi, contribuisce a calcare la mano sulla vena comica dello spettacolo, senz'altro riuscita. Un teatro che si prende rispettosamente gioco del teatro impegnato, ponendosi la domanda che, in un momento come questo di crisi per l'umanità, sorge spontanea: "A cosa serve questo teatro?". La risposta arriverà silenziosamente nel corso dello spettacolo, delineandone la necessità come elemento di resistenza all'ignoranza e all'indifferenza. A questo si contrappone la rappresentazione del becero giustizialismo digitale che punta impietosamente il dito verso lo straniero; tragi-comica verità a cui accennano molti registi ultimamente. Ma prima di tutto a far sorridere è il linguaggio che, teso tra dialettismi nostrani e d'oltreoceano, rende sì veritiera la rappresentazione ma in alcuni casi leggermente forzata.
La ricerca della territorialità, delle radici e il suo intrecciarsi con le storie del mondo è, d'altra parte, la peculiarità più interessante dello spettacolo. Dalle tabacchine lancianesi che nel '68 occuparano per quaranta giorni una fabbrica di Lanciano (Chieti), alle donne afghane, il salto è forse azzardato e rischia di lasciare lo spettatore disorientato. Anche se, sentire in un teatro le parole resistenza e capitalismo - seppur solo tratteggiate nel linguaggio semplice e leggero del racconto - è sempre gradevole.
Molti grandi temi restano dunque solo degli input. Si aprono al pubblico come in una nuova finestra, arrivando con immediatezza e leggerezza, e restano funzionali al gioco degli attori: finzione e realtà si rincorrono e si sovrappongono fino a far avvicinare la realtà al pubblico, tanto da sbatterci quasi contro, quando per un attimo le parole smettono di essere necessarie e i gesti di rassegnata disperazione dipingono il quadro di una barca di migranti. La scenografia è volutamente povera. Protagonista indiscusso è il carro di Madre Courage che si apre e si muove sul palcoscenico e si trasforma al ritmo delle storie: uno sgangherato supporto di scena che ha il compito di incorniciare visivamente la precarietà e la mutevolezza che accumuna in quanti sono costretti a lasciare la propria casa.
Alla fine il courage è stato quello di mettere in scena un teatro diverso, non pretenzioso, che esplora diversi linguaggi, per arrivare a tutti e confermare, ancora una volta, il suo essere indispensabile, non tanto nel decodificare o nell'interpretare il nostro tempo, quanto nel parlarne.