“Non si esce vivi dagli anni Ottanta”. Così cantavano, qualche anno fa, gli Afterhours. Quella frase, oltre ad essere ancora un fortunato refrain, funziona anche come chiave di lettura per entrare nelle pieghe del nuovo libro di Christian Caliandro, Italia Revolution. Rinascere con la cultura, appena pubblicato da Bompiani.
Il volume, sequel ideale di Italia Reloaded. Ripartire con la cultura (scritto dall'autore a quattro mani con Pier Luigi Sacco e pubblicato nel 2011) è stato presentato giovedì scorso all'Aquila, al Palazzetto dei Nobili. La serata è stata la tappa finale degli “Incontri sotto le stelle”, promossi dall'associazione Naca Arte in collaborazione con la Fondazione Aria; un ciclo di eventi rientranti nell'ambito del festival “Castelbasso/Civitella. Cultura contemporanea nei borghi”
Gli anni Ottanta, sostiene nel suo libro Caliandro - storico dell'arte, studioso di Cultural Studies ed esperto di politiche culturali - non sono stati il decennio dell'edonismo, del glamour e della spensieratezza gaudente a cui siamo abituati a pensare. Al contrario, sono stati, almeno in Italia, un momento storico pesante, dai toni cupi, grigi, lividi.
In quegli anni, scrive Caliandro, arrivò definitivamente a compimento la “mutazione antropologica” di cui aveva parlato Pasolini dieci anni prima. L'Italia intera piombò in “una bolla finzionale”, in una “zona della rimozione” che fu il pozzo buio dal quale non sarebbe più uscita e nel quale è tutt'ora intrappolata.
Non a caso, l'evento spartiacque con cui Caliandro fa iniziare il decennio non è – come vuole la vulgata - l'urlo liberatorio di Tardelli del mondiale 1982 ma l'incidente di Vermicino, datato 1981; incidente in cui perse la vita il piccolo Alfredino Rampi, che morì precipitando in un pozzo artesiano 60 metri sottoterra.
Dalla diretta della tragedia di Vermicino nulla fu più come prima. Da allora, scrive sempre Caliandro, l'Italia ha vissuto in una sorta di bolla spazio-temporale, in “un'altra dimensione rispetto all'Italia reale […] che coincide con una proiezione immaginaria della realtà, con una sua duplicazione”. Una cappa sotto la quale il tempo si è come congelato; prova ne sia il fatto che molti protagonisti di allora sono gli stessi di oggi (a cominciare, naturalmente, da Silvio Berlusconi)
Caliandro, studioso di storia dell'arte e di cultura di massa, attribuisce le cause principali di questa “mutazione profondissima” non alla politica o all'economia ma principalmente alle varie forme di produzione culturale: dalla televisione alla letteratura, dalla musica al cinema, con l'impatto delle tv commerciali a svolgere un ruolo chiave nel plasmare questo nuovo immaginario.
Caliandro, però, fa di più. Inserisce nel libro due capitoli - scritti in forma più narrativa che argomentativa - dedicati all'Aquila, una città definita, sin dal titolo, la “capitale spettrale d'Italia”. Man mano che si va avanti con la lettura del saggio, ci si accorge che, da semplici intermezzi, questi due inserti diventano la vera chiave di volta del libro. “L'Aquila” spiega infatti Caliandro, intervistato da NewsTown “costituisce il nucleo, lo scheletro vero e proprio del libro. Senza L'Aquila e senza la mia esperienza all'Aquila il libro non sarebbe mai esistito”.
Perché L'Aquila? Perché quanto è accaduto all'Aquila con e dopo il terremoto, secondo Caliandro, è, al tempo stesso, “prefigurazione e metafora del mood generale, del clima psichico in cui è sprofondata prima lentamente, poi sempre più velocemente l'Italia intera”
“Questa città è oggi la mappa fondamentale dell'Italia e dei suoi fantasmi”. Il disorientamento collettivo cresciuto di mese in mese come effetto del terremoto e della mancata ricostruzione, il “non sapere” più realmente quello che accadrà dall'oggi al domani, l''insicurezza diventata per molti aquilani condizione esistenziale stabile, è la “condizione di tutti gli italiani portata alle estreme conseguenze: quando le strutture che reggevano la quotidianità vengono meno si sperimenta la chiusura progressiva degli orizzonti e delle opportunità […] Per questo L'Aquila è il luogo in cui la condizione che ci riguarda tutti e in cui tutti siamo calati – la cifra distopica del contemporaneo – si esprime nel modo più esplicito e tremendo. Non c'è luogo che oggi ritragga così fedelmente lo stato d'animo collettivo dell'Italia”
Ma oltre ad essere lo specchio rotto in cui si riflette una nazione malata, L'Aquila può rappresentare anche il momento di rottura di questa bolla spazio-temporale, la presa d'atto dell'abisso in cui siamo scivolati che può portare a un risveglio delle coscienze.
“Qualunque ipotesi di ricostruzione materiale e immateriale dell'Italia dovrà necessariamente partire da qui”. Sia L'Aquila che l'Italia, sostiene Caliandro, vanno ricostruite riportando al centro della scena la realtà, quella vera e non più quella frutto dell'illusionismo televisivo. E dovrà essere la cultura il motore di questa ricostruzione, che, nel momento stesso in cui ci ricaccerà fuori dalla cappa di finzione che ci ha imprigionati, sarà anche una rivoluzione. Italia revolution, appunto
L'intervista di NewsTown
D: Nel libro ci porti nel cuore dell'immaginario italiano così come si è strutturato negli ultimi trent'anni. Perché hai scelto di attribuire agli anni Ottanta questa centralità e di dare all'Aquila tutta questa importanza?
R: L'Aquila costituisce il nucleo, lo scheletro vero e proprio del libro. Senza L'Aquila e senza la mia esperienza all'Aquila il libro non sarebbe mai esistito.
L'argomento del libro è un'indagine della storia culturale dell'ultimo trentennio italiano, un periodo caratterizzato da quella che io ho definito una forma particolarmente acuta di dissociazione collettiva, cioè di distacco dalla realtà, di trasferimento in un regno della finzione
Questo è stato un processo culturale, caratterizzato da una serie successiva di rimozioni, che sono state e ancora costituiscono la nostra specialità. Le ultime in ordine di tempo sono state, a mio avviso, quelle che hanno riguardato gli anni Settanta con il terrorismo e quelle che hanno interessato la stagione di Tangentopoli e delle stragi mafiose.
L'Aquila rappresenta l'ultima di queste rimozioni. Io credo che la ragione profonda di questa rimozione consista nella consapevolezza quasi immediata, anche se a volte non del tutto diretta, del fatto che L'Aquila è stata al tempo stesso la metafora e la prefigurazione dell'Italia intera.
Il crollo di questa città ha anticipato il crollo di tutto il Paese e il territorio psichico in cui gli aquilani sono precipitati dopo quella notte di 4 anni fa è, se ci pensiamo bene, lo stesso territorio in cui gli italiani, o almeno gran parte di essi, sono entrati, chi più lentamente chi più velocemente
E' questo il motivo per cui L'Aquila in qualche modo è la vera, autentica capitale d'Italia e lo sarà ancora a lungo. Qualunque ipotesi di ricostruzione materiale e immateriale dell'Italia dovrà necessariamente partire da qui
D: Tu sei nato nel 1979 dunque non hai potuto vivere gli anni Ottanta per cogliere in presa diretta i fatti e i cambiamenti di cui parli nel libro. Non sei un reduce o un testimone, la tua è un'analisi fatta “a posteriori”. Che tipo di lavoro hai svolto?
R: Io sono partito dall'idea che noi abbiamo sempre avuto degli anni Ottanta, una concezione molto legata ai concetti di glamour, di superficialità, di edonismo, racchiusa nella famosa definizione della “Milano da bere”.
Questa immagine, anzi, questo immaginario, rappresentano una versione, non la sola versione della storia. Io sono partito dall'idea che, in generale, i termini convenzionali dei decenni non funzionino quasi mai molto bene. In particolare per gli anni Ottanta racchiuderli nell'arco cronologico del decennio è una distorsione molto forte. Allora ho provato a vedere se, invece di farli partire dal 1980 o dal 1981, non fosse il caso di costruire una narrazione, ovviamente sempre convenzionale ma che personalmente mi soddisfacesse di più, quella racchiusa ad esempio tra il 1976 e il 1986, quindi vedere un po' qual era l'evoluzione o l'involuzione tra la seconda metà degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta.
Questa versione mi convinceva di più per una serie di ragioni. Innanzitutto perché il cinema e la letteratura italiani della seconda metà dei Settanta ci restituiscono l'immagine di un Paese in preda a una crisi isterica, a una crisi di identità molto forte, un Paese che si stava avvitando su se stesso. E questo avvitamento molto traumatico, molto forte sfociò poi in quel processo che noi conosciamo come riflusso, che è qualcosa di unico nella storia occidentale, tanto è vero che non esiste nessuna traduzione di questo termine in altre lingue, come ad esempio il francese o l'inglese
Il riflusso è la rimozione degli anni Settanta che avviene in diretta. Gli anni Ottanta normalmente vengono fatti iniziare dall'urlo liberatorio di Tardelli ai mondiali dell'82 ma c'è una figura che forse rappresenta il vero esordio degli anni Ottanta ed è quella di Alfredino, Alfredo Rampi. In quei giorni, tra il 10 e il 13 giugno del 1981, fu l'Italia intera a sprofondare in quel pozzo.
E il compito di tutti noi sarebbe ancora quello di estrarla, di tirarla fuori. Il fatto che L'Aquila abbia rappresentato e continui a rappresentare la prima frattura, la prima vera crepa in questa gigantesca bolla spazio-temporale in cui noi abbiamo vissuto è qualcosa di molto importante che va tenuto presente. Questa città ha molto da insegnarci per il prossimo futuro
D: Nel libro dai molta importanza alla cultura e al ruolo che essa può e deve svolgere per una rinascita non solo morale del Paese. Se guardiamo a quello che è accaduto negli ultimi anni ci troviamo di fronte a una situazione paradossale in cui, da una parte, la cultura è stata relegata, dai vari governi che si sono succeduti, a passatempo inutile (con il quale, come disse una volta Tremonti, “non si mangia”), a spesa infruttuosa e scarsamente redditizia, e dall'altra è stata messa al centro di dozzine di festival culturali, filosofici o letterari sbocciati un po' ovunque in Italia. Come ti spieghi tutto ciò?
R: I due fenomeni sono legati. Il sottotitolo di Italia Reloaded recitava Ripartire con la cultura e questa idea di ripartenza era molto legata all'aspetto economico. Il sottotitolo di Italia Revolution, invece, è Rinascere con la cultura. L'idea di rinascita è molto più legata all'aspetto esistenziale.
La cultura è davvero l'unica forza che trasforma integralmente e radicalmente la nostra vita e questo è un processo chiave soprattutto in un momento di transizione epocale come quello che stiamo vivendo.
Trasformare noi stessi, ricostruire la nostra identità vuol dire banalmente trasformare i nostri paradigmi, i punti di riferimento attraverso cui guardiamo e percepiamo il mondo e la realtà intorno a noi, il modo in cui la interpretiamo e la critichiamo. Questa è la funzione sana, vera, della cultura, che ovviamente ha un importantissimo riflesso anche dal punto di vista economico, a patto però che questo non sia il solo e unico obiettivo.
E' chiaro che c'è un legame diretto tra l'erosione progressiva - soprattutto nell'ultimo decennio - degli spazi pubblici e del discorso pubblico sulla cultura e l'emersione di questo vero e proprio arcipelago non solo di festival ma di progetti ed eventi culturali, che tra l'altro si verificano e si concentrano quasi sempre in luoghi marginali o periferici. E questa è una cosa molto importante, perché in qualche modo gli avvenimenti e le produzioni culturali più significative, in questo momento e non solo in Italia, stanno avendo luogo proprio in cittadine, e non in grandi città, in luoghi che un giorno avremmo definito marginali. Un aspetto nuovo dell'era della crisi.
Poi è chiaro che abbiamo davanti due versioni principali dei festival: quelli che rispondono ancora alla logica frontale dello spettacolo, con la star di turno e il pubblico adorante, una logica mutuata dal talk show; e poi quelli, che considero molto più interessanti, che implicano il coinvolgimento diretto della comunità già nel momento della progettazione, della costruzione dell'evento. In questo caso io credo che siamo di fronte a veri e propri esperimenti di futuro nel presente, nel nostro tempo
D: A maggio si è svolto all'Aquila un incontro molto importante di cui sono stati protagonisti professori e storici dell'arte provenienti da tutta Italia, chiamati a raccolta da Tomaso Montanari e Salvatore Settis per ribadire la centralità e l'insostituibilità dello Stato nell'opera di tutela e di valorizzazione civile, prima ancora che commerciale, del nostro patrimonio storico-culturale. Come conciliare questo approccio, basato sull'etica dei “beni comuni”, con una visione pù votata al mercato?
R: L'avvenimento di L'Aquila 5 maggio è stato un avvenimento importantissimo, al quale ho partecipato anch'io. E' stata una giornata molto importante non solo per L'Aquila ma per tutto il Paese.
Riguardo l'idea centrale di quell'incontro, quella dell'impegno dello Stato, sono assolutamente d'accordo: lo Stato, come del resto è scritto anche nella nostra Costituzione, ha il dovere di sostenere la cultura e solo in un periodo di profonda crisi d'identità e del sistema dei valori che orientano e guidano le nostre scelte questo principio può essere messo in dubbio.
Una visione in base alla quale la cultura è un bene voluttuario al quale si può rinunciare in tempi di difficoltà è una visione molto miope, innanzitutto perché vuol dire segare il ramo su cui siamo seduti e poi perché tiene conto di una visione della realtà e di un punto di vista limitati.
Nel momento in cui noi sentiamo dire “non ci sono alternative” ebbene quello è il momento non solo di pensare alle alternative ma di costruire l'”alternativa mondo”, cioè l'alternativa più grande che ci sia.
Per quanto riguarda l'opposizione tra la concezione pubblica e il coinvolgimento dei privati, io credo che sia una falsa opposizione, come tante altre. Non c'è nessuna contraddizione tra la difesa, la salvaguardia, la tutela e anche l'implementazione dei beni comuni e il coinvolgimento dei privati perché il discrimine, ciò che fa realmente la differenza, come quasi sempre, è un sistema di regole certe.
I beni storico-artistici sono la versione più pura dei beni comuni. La caratteristica più specifica dei beni comuni, che sono una dimensione giuridica terza rispetto al pubblico e al privato, è l'inalienabilità sia permanente che temporanea. Chiaramente io credo che il noleggio di una galleria o di un museo per eventi privati vada contro questo criterio.
Però, come avviene in tanti altri paesi, un sistema di regole certe e di norme molto chiare non può che sviluppare un meccanismo virtuoso, che porti al coinvolgimento serio dei privati in un discorso che tenga presente non solo il livello della tutela e della conservazione del patrimonio culturale e storico-artistico ma dell'intreccio necessario che deve avere con la produzione culturale contemporanea e con i livelli di innovazione delle cosiddette industrie culturali creative.
Senza questo scambio continuo e senza politiche che abbiano bene in mente queste ibridazioni, noi rischiamo di appiattire la nostra visione, la nostra percezione della cultura sempre e soltanto sul patrimonio e sul turismo, che sono sì una fetta ma non la più significativa di ciò che noi chiamiamo cultura