Domenica, 22 Settembre 2013 12:49

"Confotografia": come spiegare L'Aquila ai fotografi?

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E’ stato l’Auditorium del Parco del Castello, simbolo discusso dei cambiamenti post-terremoto, ad ospitare la prima sessione del seminario di Confotografia, l’iniziativa che ha portato a L’Aquila 55 fotografi da tutta Italia per raccontarla, con l’aiuto dei cittadini. Nonostante l’assenza del sindaco Massimo Cialente, dell’assessore Pietro Di Stefano, e del professor Raffaele Colapietra, atteso per la prolusione, l’auditorium stamane si è riempito di cittadini, fotografi e molti ragazzi che con le scuole e le università prenderanno parte al progetto.

Nessuno sapeva cosa aspettarsi da un mix di professionisti così variegato: urbanisti, fotografi, geologhi, architetti e persino un paesologo. Ma con interventi più o meno concisi i relatori hanno saputo riaprire diverse questioni, accantonate da tempo da noi aquilani ed hanno tenuto i presenti “incollati” alle sedie fino alle 13.30.

Il primo intervento è stato quello di Alessandra Chemollo, che ha ribadito che l’iniziativa Confotografia è autofinanziata ed autoprodotta da parte di un’associazione che aveva già lavorato a L’Aquila nel 2009/2010 con il progetto SisMyCity.
Il rammarico per l’assenza delle istituzioni, ad eccezione dell’assessore Fabio Pelini, si è fatto subito sentire, e non velatamente: “Anche se nessuno tra le istituzioni ritiene utile costruire una memoria collettiva - ha detto l’organizzatrice - noi vogliamo intraprendere un lavoro che renda la fotografia una strumento di utilità. Ciò di cui ci si rende subito conto girando in una delle tante rotonde di questa città è che regalare qualcosa che non è stato richiesto né condiviso è inutile”.

L’assessore Pelini ha rinnovato lo stesso entusiasmo per l’iniziativa che aveva manifestato durante la conferenza stampa di presentazione ed ha citato il film “Undici settembre 2001” di Alain Brigand: in uno degli episodi, un pensionato cambia la sua condizione di vita dopo la caduta delle Twin Towers, che impedivano alla luce del sole di arrivare nella sua casa e alla piantina della sua moglie defunta. Un parallelo originale ma d’impatto quello usato dall’assessore che ha sottolineato come “anche la peggiore delle tragedie può diventare, considerata da un altro punto di vista, un’opportunità”.

Ed è esattamente un altro punto di vista quello che tutti cittadini chiedono all’unisono ai fotografi forse perché, tra macerie e impalcature, una visione realista e consapevole ha preso il posto di una più ottimista e sognatrice. Il cittadino Paolo Baglioni è, infatti, intervenuto dal pubblico ed ha fatto notare, fornendo argomentazioni non replicabili, il rischio nei prossimi anni di trovarci in una città morta circondata da città satelliti morte e l’intervento ha ricevuto il plauso di molti aquilani presenti. Sono interessanti, a tal proposito, le parole del paesologo Franco Arminio che ha affermato: “Altro che morta, L’Aquila è una delle città più vive del mondo in questo momento!”. “E’ un luogo in trasformazione, estremamente interessante e commovente - ha proseguito - che ti fa sentire quanta morte vi sia invece, nella modernità, nell’efficienza e nei luoghi che funzionano, come Milano o altre città. Qui avete la possibilità di lottare: non fate come noi dell’Irpinia che non abbiamo saputo osservare, dedicate il vostro tempo libero a questa città e ripensatela con un po’ di umiltà. Questo è un compito di tutti: sociologi, urbanisti ma anche tabaccai e salumieri”.

Che questo sia l’unico momento propizio per iniziare a ragionare lo crede anche l’architetto milanese Michele Brunello, che propone di iniziare a ripensare alcune scelte urbanistiche.
“Fino ad ora - dice - ci siamo opposti ai grandi interventi sul territorio ma alla fine Map e Case sono state costruite, senza pensare al peso dell’insediamento urbanistico; la gente giustamente doveva continuare a vivere ma la riflessione doveva essere proprio su questo punto, sul ‘come’ si poteva continuare a farlo”. L’architetto ha poi auspicato che grazie a questa indagine ci si possa orientare nelle scelte future: “la ricostruzione non è una gara, in Friuli ci hanno messo quindici anni, il premio dovrebbe andare a chi la fa meglio e la copia di dov’era e com’era, in tal senso, è un’utopia”. “Noi viviamo - ha concluso  Brunello - in un paese che ha la capacità di non imparare dai propri errori”.

Direttore di una piccola rivista dell’Ordine degli Archetti, Guido Incerti ha realizzato un progetto ponendo una semplice domanda: “Cosa succederebbe se un terremoto rasasse al suolo Firenze?” e ricevendo il gelo da parte delle istituzioni ha realizzato che in Italia manca la concezione della prevenzione. Eppure, a quanto dice, le conoscenze per mettere in sicurezza il Paese ci sarebbero tutte, ciò che manca sono invece i fondi. Fondi che forse seguono un altro flusso rispetto a quello della prevenzione. “Si privilegiano gli interessi dei privati che preferiscono demolire, per poi vendere ed andare altrove, questa è la ricostruzione dell’Aquila: senza idee, senza un piano, che analizza caso per caso”, ha accusato il consigliere comunale e l’urbanista aquilano Pierluigi Properzi.

Properzi ha poi invitato i fotografi a rendere la fotografia un mezzo di ricostruzione: “questo città è fatta di stratificazione, qualcosa a metà tra passato e futuro e voi fotografi siete chiamati ad interpretarla, dando un senso alla realtà circostante. Nessun urbanista è in grado di dirvi quale sarà la forma urbana della futura città - ha dichiarato infine - ma c’è bisogno di una ‘stanza della conoscenza’ in cui tutti interagiscano; è finita l’epoca dei consulenti e degli esperti”.

La mancanza di scelte partecipate è stata al centro anche dell’intervento dell’architetto Marco Morante, che ha parlato di 'guerra culturale': “Il 4 maggio 2009 in consiglio comunale abbiamo cercato di bloccare il Progetto Case, noi volevamo dei moduli abitativi provvisori che non modificassero in maniera definitiva il territorio (ed esistono, in Olanda vengono utilizzata per creare studentati), invece non abbiamo fatto altro che peggiorare la città, delocalizzando i centri abitativi”, ha ricordato Morante tra gli applausi dei presenti.
A riportare l’attenzione sulle persone che abitano quei centri è stata poi la geografa del Dipartimento di Scienze Umane dell'Università Lina Calandra, che ha riflettuto su alcuni risultati, ottenuti dal monitoraggio sociale che dal 2010 analizza come gli aquilani vivano il territorio in tutti i suoi aspetti. “Il fatto di vivere il territorio in un modo o in un altro condiziona le coscienze, anche a livello politico; bisogna invece imparare ad organizzarci e riorganizzarci come territorio”, ha proposto la geografa.

Appare distante la tanto declamata Capitale Europea della Cultura nel 2019: dagli studi della ricercatrice è, infatti, emerso che nessuno degli intervistati riesce ad immaginare L’Aquila tra venti anni. “Un territorio che non ti fa sognare e non ti fa sperare è già morto”, ha concluso Calandra, tornando sul concetto di morte del territorio.

Sarebbe allora necessario, come suggerisce il paesologo Arminio, “insegnare ai ragazzi a guardare senza ragionare solo con la testa ma anche con gli occhi e con il cuore” e non c’è niente di meglio che farlo “confotografando”. Anche perché, come diceva il fotografo francese Henri Cartier-Bresson “fare una fotografia vuol dire allineare la testa, l’occhio e il cuore. E’ un modo di vivere”. Forse l’unico modo possibile che resta a questa città.

 

 

Ultima modifica il Giovedì, 24 Aprile 2014 13:43

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