Venerdì, 02 Marzo 2018 16:25

La montagna 'debole e fragile': innovare le politiche pubbliche per cogliere le opportunità delle terre alte

di  Giovanni Cialone

Alla fine del gennaio scorso è stato presentato alla Camera dei Deputati il “Rapporto Montagne Italia 2017” della Fondazione Montagne Italia, struttura di ricerca dell’UNCEM e di FEDERBIM. Un lavoro corposo, un progetto culturale e d'analisi con migliaia di dati che raccontano i territori montani, le tendenze in atto nelle Alpi e negli Appennini, sistemi fondamentalmente diversi tra loro con dinamiche spesso discordanti.

Alcuni numeri riportati nello studio ci aiutano a capire lo stato dell’arte.

I comuni montani sono il 43% dei comuni italiani, qui vivono circa 9 milioni di persone (il 14% della popolazione) su una superficie pari al 49% del territorio nazionale. Una bella fetta d’Italia. In Abruzzo i comuni montani sono 200 su 305, per una superficie pari al 67% della Regione dove vive il 23% della popolazione residente. Una fetta grande del territorio regionale, più della metà in termini di superficie.

La montagna debole. Uno degli indicatori per misurare lo stato di un territorio è la demografia e gli Appennini, ancora più delle Alpi, scontano una situazione drammatica: nel 2016, in un solo anno, hanno perso lo 0,61% della popolazione. In tutto l’Appennino centro meridionale, molti borghi - dal censimento degli anni '20 ad oggi - hanno perso oltre il 90% dei residenti. L’Abruzzo interno non sfugge a questo andamento ed i terremoti negli ultimi anni sono stati acceleratori della tendenza. Alcuni comuni, piccoli e piccolissimi, stanno già oltre la soglia della resilienza e sono condannati all’oblio.

La montagna fragile. Nell’Appennino centro meridionale si concentrano la maggior parte dei comuni ad alta pericolosità sismica, più dell’80% dei comuni montani è a rischio frane. Il rischio alluvione riguarda il 65% dei borghi d'altura. Dal 2000 al 2016 sono stati spesi 63 miliardi di euro per il sisma dell’Aquila, dell'Emilia e dell'Italia centrale, per alluvioni e frane. Parliamo di 41 disastri che non è giusto seguitare a chiamare naturali derivando, fondamentalmente, dalle colpe dell’uomo riassumibili nella mancata prevenzione e manutenzione; 63 miliardi che, se spesi in tempo di pace, avrebbero potuto ridurre e in modo sostanziale la vulnerabilità delle aree interne del paese.

Questo quadro impressionante è dovuto fondamentalmente all’inefficacia delle politiche messe in atto nel tempo.

La montagna è considerata come spazio residuale sebbene rappresenti quasi la metà del territorio nazionale e che, pur nelle sue difficoltà, fornisca risorse essenziali tra le quali l’acqua e l’aria pulita. Le terre alte sono fuori dell’agenda politica e lo dimostrano i programmi elettorali delle diverse forze politiche che non trattano questi argomenti o li declinano in modo superficiale.

Per definire prospettive e tendenze il rapporto “Montagne Italia 2017” analizza i fenomeni in atto, “le dinamiche di cambiamento che ci parlano di un’impronta territoriale della base economica che presenta una più intensa caratterizzazione primaria negli Appennini... e di una struttura turistica più saldamene radicata nelle Alpi dove affronta le istanze di riconversione sollecitate dalle dinamiche del cambiamento climatico ma anche dalle nuove esigenze della fruizione ambientale”. Poche parole, ampliamente spiegate nelle analisi, ma che sottolineano due fatti importanti: la riconversione nelle Alpi di molti sistemi monotematici legati al turismo dello sci da discesa nelle aree che risentono già delle modifiche climatiche ma anche per intercettare un sempre maggiore segmento legato al turismo lento ed esperienziale, al trekking ed alla montagna vissuta per tutto l’anno; la forza dell’Appennino che sta nell’agricoltura, con prodotti di qualità sempre apprezzati dal mercato.

Dovrebbe far riflettere chi sceglie le politiche o almeno persuadere i decisori a studiare, un po’, il fenomeno.

Esiste una stretta connessione tra agricoltura e montagna: quando la prima viene abbandonata, la montagna s'indebolisce e ne segue fatalmente le sorti; in questo quadro, il turismo non può essere considerato la panacea di tutti i mali che affliggono le terre alte, in special modo il turismo monotematico. Problema centrale era ed è, quindi, cercare di mantenere presidi stabili, ricreare un sistema resiliente ed una società complessa dove c’è dentro l’agricoltura, l’artigianato, il turismo e tutti gli altri settori. E’ necessario garantire servizi collettivi e soggettivi, trasporti, sanità, scuola, banda larga e così via. Dobbiamo manutenere ed avere cura del paesaggio che si va velocemente modificando e 'banalizzando' e questo si può fare solo riconquistando i terreni ex coltivi.

I modelli dell’agricoltura intensiva non possono essere mutuati in montagna e le scelte della politica non aiutano.

In Abruzzo, il PSR (Piano di Sviluppo Rurale) dedica alle terre alte solo le inezie, al sistema dei boschi che copre il 48% della superficie regionale viene destinato solo l’8% di 400 milioni e dispari di euro; nell’area del cratere all’agricoltura vengono assegnate ancora le briciole del 4% dei fondi per la ricostruzione destinati allo sviluppo economico. Eppure nel cratere sismico il settore agroambientale è la più grande 'industria diffusa', nell’agricoltura e nell’allevamento lavorano quasi 1000 persone, fino ad oggi dimenticate o peggio.

In questo quadro desolante l’anello più debole è rappresentato dagli amministratori locali spesso inadeguati e poco coraggiosi. Non è più possibile, ad esempio, rimandare le operazione di unione o fusione dei piccoli comuni. Tutti i comuni delle Alpi si sono associati o fusi per poter ricercare economie di scala e pianificare a livelli omogenei. Pur generosamente finanziate, le associazioni o le fusioni di comuni nel centro sud ancora non albergano. Un esempio esemplificativo: nei cinque comuni della Baronia di Carapelle, per una popolazione complessiva di 868 abitanti (erano 7599 nel 1921), ci sono quasi 80 amministratori tra sindaci, assessori e consiglieri comunali. Spesso i voti di una famiglia numerosa determinano gli amministratori. Quasi un nuovo sistema feudale di vassalli, valvassori e valvassini.

“Lo spopolamento della montagna non è inesorabile... non dipende semplicemente dall’orografia, ma dipende dalle politiche, e precisamente dalle politiche pubbliche”; quindi per cambiare paradigma, liberare le risorse e cogliere le opportunità delle terre alte è necessario innovare le politiche pubbliche, provare a ristabilire i legami forti tra popolazione e territorio, cambiare governance favorendo autonomia decisionale ed autogoverno. Considerare le montagne un bene comune, una componente essenziale dell’equilibrio ecologico, idrologico ed idrogeologico del sistema paese è un passaggio ineludibile ed obbligato.

In attesa degli auspicabili cambiamenti culturali (se mai ci saranno) e di politiche pubbliche (se mai ci saranno) che definiscano un nuovo protagonismo della montagna a livello nazionale ma soprattutto a livello regionale, oggi, gli eroi ed i resistenti che vivono e lavorano nelle terre alte facendo manutenzione del territorio, garantendo acqua pulita, conservando paesaggio e biodiversità, producendo cibo buono e pulito, questi eroi, si sentono figli di un Dio minore. In un mondo che sembra girare all’incontrario.

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