Giovedì, 04 Aprile 2013 20:50

6 Aprile, anniversario del terremoto: mille pensieri per la testa

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Ognuno di noi, a seconda della sua storia, reagisce in modi differenti di fronte ciò che succede fuori e dentro di sé il giorno dell'anniversario. Per nessuno però è un giorno semplice. I vostri racconti. 

Una nostra giovane lettrice, Giada Centofanti, ci ha inviato per prima alcune parole scritte riguardo i sentimenti che l'accompagnano nell'anniversario del sisma dell'Aquila e gli altri Comuni del cratere. Quando il 6 Aprile si avvicina non è semplice riuscire ad esprime qualcosa di definito dalla matassa di sentimenti contrastanti, dolore puro e rabbia che ci riempiono la testa. 

Abbiamo deciso di pubblicare i vostri pensieri, sinceri e coraggiosi come quello di Giada, aggiornando la pagina. Scriveteci su facebook o a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.  

 

7 aprile, 17:41/ L'Aquila non è il caso, è il paradigma, di Federica Tomassoni

6 Aprile 2013. Quattro anni dal “Terremoto d’Abruzzo”. Anni di lutto latente, resilienza, paziente nostalgia, attesa e smarrimento, sopportazione, speranza e sfiducia, alcool e psicofarmaci, coraggio, progetti e scelte, derive e approdi.

2009: Emergenza, Commissariamento, Bertolaso, le 163 tendopoli, la protezione civile dei volontari italiani, il summit del G8 “dalla Maddalena a L’Aquila” – la Maddalena del Guercino che aspetta la Resurrezione. La nascita dei comitati cittadini, le risate alle 3:32, le manifestazioni di aquilani, la maxi speculazione edilizia dei puntellamenti, il progetto C.A.S.E. e i M.A.P: non container, non baracche, ma moduli abitativi provvisori in cui gli aquilani avranno l’amara opportunità di alloggiare - alla sera - la nostalgia per l’amato centro storico. L’avvento dei M.U.S.P. e del M.E.P..

2010: le carriole nel centro storico, la fiaccolata e il ricordo, le botte prese a Roma il 7 Luglio, i reportage, le inchieste, la ricostruzione (alla) leggera delle periferie aquilane, le occupazioni e la ricostruzione sociale, le reti solidali tra gli sfigati oltraggiati d’Italia: Vicenza e i No da Molin, gli alluvionati di Giampilieri, la Valle della Tav, Terzigno e le mamme vulcaniche.

2011: mancano i fondi, manca un cronoprogramma, manca un piano regolatore, infinite prove di resilienza della cittadinanza aquilana, gli eventi culturali, i dibattiti, i convegni, i processi e gli anniversari, l’annosa faida tra tecnocrazia e burocrazia: “Mancano i fondi! No, mancano i progetti!”. Il traffico, il cemento, gli scavi, le demolizioni, le nuove infrastrutture, perché “prima di ricostruire bisogna costruire i presupposti per ricostruire”: strade, varianti, gallerie, casette presto condonabili, complessi commerciali per i poveri esercenti del centro storico, spazi di aggregazione, imprese (di costruzione) che creino una manciata di posti di lavoro.

2012: la fine del Commissariamento, lo stallo pre-elettorale, le elezioni amministrative, lo stallo post-elettorale, l’incarico a Barca, le raccomandazioni dell’OCSE, i Cantieri dell’Immaginario, i cantieri immaginari, le gru ferme e i fondi a singhiozzo, la sentenza “Grande Rischi,” la mistificazione della sentenza.

Esodi, stavolta più fughe che ritorni.

L’Aquila, esplosa nel grembo delle sue montagne materne, da 4 anni è il teatro di tutto ciò. Il cratere, appellativo attribuito “per brevità” al territorio interessato dal sisma, è un continuo ribollire di magmi di un’umanità che non erutta mai.

Ecco, si potrebbe concludere qui, l’ennesimo appello che proviene dall’Aquila, puntuale, ogni 6 Aprile, a denunciare lo stallo che affligge quel popolo di montanari retrogradi che siamo.

E invece no. L’Aquila non è IL caso: è il paradigma.

È il paradigma di un Paese in perenne emergenza, che elegge rappresentanti non rappresentativi, ricorre con solennità a “saggi” e “tecnici” come se fossero qualità avulse al politico di professione, e rifiuta con nonchalance l’eredità di un passato assurto a immanente presente. Un paese che ha giurato fedeltà ai vecchi e fallaci modelli di sviluppo, che preferisce conservare clientele anziché il suo patrimonio. Un paese frammentato, incurante del malcontento che si annida nei suoi anfratti più remoti e mostra i muscoli quando questo si manifesta sotto i palazzi romani. Roma, Via del Corso, 7 Luglio 2010, come Roma, Piazza San Giovanni,15 Ottobre 2011.

Che differenza c’è tra un Commissariamento di Bertolaso e un governo tecnico, tra le grasse  certezze speculative di un Anemone e un Balducci, e l’ingerenza di un Lavitola e un Tarantini sulla nostra politica estera, tra la paura di perdere il lavoro a Taranto e la paura di perdere il C.A.S. a L’Aquila? tra la trasparenza amministrativa appesa ad uno scotch di carta e l’informazione pubblica ostaggio di frequenze private, tra la mediocrità dei politicanti locali e le mignotte rivestite che da 20 anni popolano il Parlamento della Repubblica? che differenza c’è tra un deserto di sassi lasciato da un movimento tellurico e il deserto culturale lasciato da anni di riforme fallimentari del sistema scolastico, tra un reparto di Neuropsichiataria dell’Infanzia ancora in un container e un rifugiato politico archiviato in un Centro di Identificazione ed Espulsione?

La differenza non è tra Qui e Lì: la differenza è tra “Noi” e “Loro”.

Questa certezza, la forza.

Questa forza, la prima pietra della riedificazione.

 

5 aprile 15:57/ Cocci di vasi, cossi di vite, di Francesco Giusti

Rientrare. Rientrare dove? Tra le pareti che hanno tradito, che hanno tremato
come le persone? Tornare a casa dove
c’era casa, dove non torna la calma,
tra le pareti che hanno cancellato memorie.
Fogli bianchi che ancora in fondo
si muovono al vento anche se non se ne sente
il fruscio, il frastuono rimane nelle orecchie,
negli occhi. La casa ha paura, la casa vista
da fuori, dal suo giardino, dalla strada
ogni giorno da troppi giorni. Cocci rimangono
a terra di vasi, di vite spellate, spedite a trenta
secondi da tutto, dal resto del mondo perché
il loro non resta, qualcuno li pesta
lo stesso che pesta la terra, animale gigante
che fa paura anche dove non può ferire i corpi
e ferisce al contrario, salvi all’aperto in pericolo
dentro il rifugio. Resta solo l’attesa,
attesa che non è futuro, perché ancora non è
progetto, ma una vita ridotta all’osso.
Qualcosa, certo, altrove c’è ma al mondo
non si ritorna, non segna un punto, non segna
un centro che è scomparso per chi
lo conosceva, chi lo conosce adesso
non sa cos’era, com’era, chi
lo segnava a passi, a sorsi, a morsi.

 

5 aprile 15:06/ Un fatto (quasi) privato, di Laura Tarantino

Il 5 aprile, ogni anno, riesco solo a parlare di me. E neanche tanto. E neanche tanto bene.

Ci sono voluti due anni e tre "puntate" per arrivare alle 3:36 e 29 secondi, e il terzo anno poi, invece di riprendere da lì, mi sono trovata a tornare indietro, al 5 aprile, all'ultimo pomeriggio della vita normale, l'ultimo pomeriggio "di me". Riprendere il racconto, superare le 3:36 e 29 secondi, sì, forse si può, ma non durerebbe poi tanto. Giusto il tempo di arrivare alla telefonata ai miei, a mio padre che da Roma mi dice "sì, lo abbiamo sentito", e io "lo avete sentito in televisione? eravate svegli a guardare la televisione?" e lui "no, lo abbiamo sentito, abbiamo sentito il terremoto qui, forte". Sì, giusto il tempo di arrivare al momento della consapevolezza della tragedia perchè, cazzo, se si era sentito così forte pure lì ....

Ma lì mi fermerei, comunque, perchè io sono ancora lì, e non si può scrivere il proprio futuro.

Da lì parte invece un film, un lungo strano film di cui posso rivedere scene qua e là:  io che mi aggiro da sola nella notte per i vicoli intorno a casa mia, io che mi dico "ma non c'era una casa lì?", "e anche lì?", "e anche lì?", io che guardo Gianni ed altri vicini cercare di estrarre Giuliana e gli altri due ragazzi da dentro quella casa assassina, io che non guardo invece la mattina dopo quando i vigili del fuoco due corpi li porteranno via, io nella città bianca di polvere il giorno dopo, di un bianco incancellabile dalla memoria, io in giro col mio trolley di casa in casa senza fissa dimora per 6 mesi, io sfollata da sola per 9 lunghissimi mesi ad Avezzano, io che porto via macerie a secchiate, io che guardo i vigili del fuoco e i traslocatori impacchettare tutte le cose di casa mia, fino a io che scrivo questa nota piena di cose strane, così strane che no, non sono veramente successe a me. 

Quindi no, io sono ancora lì, più o meno alle tre e quaranta del 6 aprile 2009, e domattina, con la luce del giorno, mi accorgerò che mi ero sbagliata, che mio padre del terremoto lo aveva letto sul televideo, che non era stato poi così forte, e che la situazione è seria, ma alla fine non così brutta.

 

5 aprile 12:49/ Dichiarazione d'amore per L'Aquila, di Laura Mauti

Tanti tanti anni fa un mio capo scout mi disse che quando sei innamorato lo capisci subito perché non vedi l'ora di rivedere l'oggetto del tuo desiderio e quando ce l'hai accanto stai bene e nemmeno un temporale potrebbe scalfire il tuo buonumore. Io L'Aquila la conosco da sempre. E ne sono innamorata. Prima che nascessi, i miei nonni partivano felici verso Campotosto, ospiti degli amici di sempre e così è stato per anni e anni. Il Lago di Campotosto e la grande casa bianca che ancora primeggia, hanno fatto parte delle mie estati da sempre e L'Aquila era il premio ambito. La passeggiata al centro della città era un evento, lo aspettavo sempre. Poi si cresce, si cerca di fuggire dalla famiglia e dalle sue abitudini, finché un amore più grande di ogni possibile comprensione non ha legato i miei genitori ad una casa nella splendida Piana di Navelli, dove zafferano e mandorli imperano solennemente colorati. Per noi che non siamo parenti di nessuno lì, per noi che siamo semplicemente innamorati da quarant'anni. Sempre Abruzzo, sempre L'Aquila. E' un filo che non si è mai spezzato, è un amore, una passione.

E' la gioia di vedere L'Aquila la colta e la ricca, la serenità di non sentire rumori di città, la gioia di respirare aria degna di questo nome. Io lo chiamo Paradiso, perché sono certa che il Paradiso, Dio, lo ha immaginato proprio così, copiandolo un giorno che stanco di cercare si sedette sul Corno Grande. Il verde dei prati, ogni tanto una chiesetta sul Tratturo, e maestosa la Grande Madre, il Massiccio del Gran Sasso a farti vedere e capire che la maestosità.... oh sì che esiste la maestosità! Si lega a noi con un laccio invisibile, un amore e un rispetto che ha fatto sì che anche mio fratello e la sua sposa decidessero di sposarsi lì, a Bominaco, nello splendido scenario di Santa Maria Assunta. Un pullman di invitati e la sposa sono arrivati dall'Appio Latino per la grande festa! Nel 2009 io ero capo clan agli scout, quello che è il capo dei ragazzi più grandi, dai 17 ai 20 anni circa. Per Pasqua avevamo idea di andare a L'Aquila, approfittare della mia casa come appoggio e dedicarci a noi, al nostro percorso. Per una disgraziata mancanza di collegamento ferroviario la scelta è poi ricaduta su un luogo più vicino a Roma. Il 7 aprile 2009 alle 8 del mattino accendo il cellulare, per controllare che tutto fosse a posto e senza allarmi. Non so quante chiamate io abbia trovato. Gli sms erano 14.

Dove siete? Cosa è successo? Perché non hai il cellulare acceso? Chiamando a casa le parole di mia madre mi hanno messa in un grande lenzuolo felpato, avvolta dal quale una volta arrivata a Termini ho salutato i ragazzi e sono tornata a casa. Aprendo la porta, le immagini. Sangue, dolore, polvere, delirio, e io che non sentivo nulla. Nessuna emozione. Ero in pausa dalle emozioni. E casa? Come starà casa? Come staranno i vicini? E abbiamo davvero perso il Paradiso? Il coraggio di alzare il telefono non l'abbiamo avuto. Se non cinque giorni dopo. Giorni in cui non potevamo pensare ad altro se non a casa a loro, ad ogni volto ad ogni voce. Un disastro. Chi era riuscito a rispondere al cellulare ci diceva che intorno era un disastro, che casa nostra era su, ma vai a sapere se dentro i pavimenti c'erano ancora! Siamo riusciti a raggiungere casa, documenti alla mano, solo il 17 aprile. Con la pena e il magone nel cuore. Sull'autostrada noi e gli aiuti. Militari, Vigili del fuoco, ambulanze.

A L'Aquila est c'era il caos, le tende blu, le persone in strada, le tende private rimediate e montate. Ho avuto la sensazione che quello stesso Dio che me l'aveva fatta amare dalla nascita, che mi aveva regalato il Gran Sasso, il profumo della pioggia, il colore dei mille cieli, avesse appoggiato una mano, pesantemente. E dove le dita avevano affondato la materia, le case erano sbriciolate come un biscotto secco a terra calpestato. Accanto, tra un dito a l'altro, case in piedi,coi panni stessi. Per mesi e anni quei panni sono rimasti lì, stesi. L'Eurospin di Bazzano dev'essere stato sotto il pollice.....era andato giù tutto. E Onna, sulla destra.Paganica, San Gregorio a sinistra. Chissà perché si parla ancora solo di Onna, legittimo, per carità, ma poco o niente di San Gregorio, San Demetrio, Santo Stefano di Sessanio e la sua splendida torre medicea ora in briciole, Caporciano, Capestrano, Civita Retenga, Prata d'Ansidonia.

C'è un dolore che ancora accomuna tutte le vittime di questo terremoto. Se gli chiedi come va ti rispondono E come vuoi che vada? Nelle conversazioni, anche le più spensierate, c'è sempre, sempre, un “prima” e un “dopo”. Il terremoto ha diviso l'esistenza di ognuno. Abbiamo visto gente ridere e promettere, abbiamo visto politici speculare, abbiamo visto inchieste accertare odorini di mafia nella ricostruzione. Sin dall'inizio abbiamo tutti sperato che non venisse strumentalizzata la tragedia, ma già dai giorni del G8 s'era capito che la battaglia era persa. Puoi portare capi di Stato in tour tra le macerie? Puoi permettere che tutti quegli occhi violino il dolore incomprensibile e impensabile di chi ha subito un simile trauma? Cosa ne è stato dello Stato? Per anni sono stata presa per esagerata. A Roma, 100 km più giù, l'informazione dava per certa e in atto la ricostruzione. Io portavo voci di nulla e di eco di pianto.

Non ho fatto foto, non ho mai fatto foto.Per paura che mi scambiassero per chi ancora di domenica viene a farsi le foto davanti alle case diroccate. Ma ho raccontato alla mia cerchia di amici, cercando di far capire che il dolore, lì, è rimasto. Che chi dice “Sono del sud, aspettano che li si aiuti, non si muovono loro” deve essere considerato un demente senza possibilità di essere preso sul serio. Ora, uscite a l'Aquila ovest e andate verso il centro, vi renderete conto che quella città meravigliosa ha ancora gli occhi spaventati e sbarrati. L'Aquila è una donna profumata ed elegante ora a terra per le tante percosea subite e le ingiurie ricevute dopo. Gli Aquilani e chi è nei dintorni amano ogni grammo della propria terra e stanno rinascendo, nonostante tutto e tutti.

Il profondo rispetto per L'Aquila nasce dall'amore che ho per lei da sempre. Rispetto il suo dolore, rispetto il suo volersi ribellare. Io non vedo cambiamenti. Sento di persone vittime della depressione, di odi, di polveri. Vado in giro per le stradine dei paesi che amo e vedo puntellamenti, prefabbricati, occhi smarriti. L'Aquila sta tornando a camminare piano piano, ma per favore, siate seriamente consapevoli dell'immensa paura, del profondo dolore, dell'impensabile tragedia. Dio negli ultimi due anni ha mandato giù tanta neve, perché si vergognava di ciò che non è stato fatto e ha voluto coprire l'onta delle macerie per un po'. Poi i fiori lilla dell'oro prezioso dello zafferano, i mandorli in fiore, il profumo ti rimette al mondo nell'istante del respiro e prendi coraggio ogni giorno, rialzi lo sguardo e dici che forse questo sarà l'anno giusto... in cui i sorrisi torneranno, le macerie saranno portate via e i negozi riapriranno e io, finalmente, potrò tornare alla cioccolateria di Via Navelli ….. Auguratemelo!

 

5 aprile 12:37/ T'amo, di Patrizia Manenti

Non saprei amarti diversamente.
Ci siamo tenute per mano Tu e me 
come vecchi amici
mentre ti penetravo lentamente
con paura ossequiosa
tra vicoli e porte spalancate
da edere invadenti.
E quel giorno siamo scese Tu e me
da un pellegrinaggio amoroso,a una fonte
oltre l'arco di una speranza che non vuol morire.
Noi... sull'ora del crepuscolo
una commozione senza parole
convinceva le Nostre anime al silenzio.
Levato il braccio ignudo
una ruspa scava e sfonda il Tuo saccheggiato cuore
immergendo i suoi piedi di metallo
tra letti panni e vita.
Ora siamo Soli Tu con me straniera 
senza residenza
mentre non si ode più il gorgoglio
dolce della vita.
Tu tremi come una rondine presa tra le mani
Piccola mia...mi vien da sussurrarti,
mentre ti stringo forte una mano
e tu con gli occhi chiusi
Ti perdi ora tra abbracci miei,quasi trasparenti
mentre accarezzando le tue mura
con sguardi persi e incerti non trovo appigli
per non vacillare,
per non perdere equilibri che nel mio cuore
stanno in bilico tra rabbia e grande amore.
Una eco di folla allegra proviene da un vicolo
qui vicino a Noi,interrompendo
quasi magicamente questo freddo
che Ci ha preso dentro.
Ti voglio bene e non Ti Dimentico!

 

5 aprile 11:52/ L’Aquila, anno IV D.T., di Giusi Pitari

Ci siamo, è il 6 aprile. E sono trascorsi 4 anni. E questo lo sanno tutti.
Una cosa è certa: per quante ne possiamo aver passate durante questo quarto anno D.T., il 6 aprile arriva sempre, imperterrito.
Le commemorazioni, via via che passa il tempo, assumono significati più profondi. Sono giorni che mi preparo, che ci prepariamo, ciascuno a suo modo: chi rispolvera vecchie foto, chi ricordi, chi paure, chi lacrime. Sono giorni di “passione” questi, che cancellano qualsiasi altra sensazione che non sia connessa ad un momento: le 3,32 di 1461 giorni fa.

Per quest’anno non me la sento di riassumere ciò che è successo negli ultimi 366 giorni, anche perché meglio di me parlano le foto della mia città. Più che le mie parole cito quelle di un bambino che domenica scorsa, era Pasqua, si trovava in centro con i suoi genitori; era evidentemente la prima volta che veniva a L’Aquila e, rivolgendosi alla madre, ha esclamato «Mamma, ma L’Aquila è proprio una città distrutta!». Parole che rimbombavano tra i palazzi puntellati e striscioni vari delle nostre manifestazioni. E fa eco a ciò che un altro bambino disse tre anni fa: «Non pensavo potesse esistere una città fantasma così grande».
E neanche me la sento di ricordare quei terribili trentotto secondi, scolpiti dentro di noi con la stessa forma. Che non è un numero, 3,32 o 6 o 309, né polvere, né lacrime, né ferita. E’ una ruga, un insieme di rughe indelebili e visibili: attorno agli occhi, alle labbra, sulla fronte. Si percepiscono ad ogni movimento facciale e, quindi, persino nella spensieratezza e la gioia che, come per tutti, fortunatamente arrivano, anche in zona terremoto.

Il 6 aprile è un giorno nel quale ci incontriamo e ricordiamo assieme, cosa c’è dentro quelle rughe. Oltre la sofferenza e, ancora, l’incredulità.

Durante quest’anno appena trascorso, abbiamo avuto un “momento” simile di condivisione: era il 22 ottobre 2012 e un giudice, a L’Aquila, emetteva una sentenza di condanna nei confronti di una commissione appositamente riunitasi a L’Aquila, 4 anni fa, per valutare il rischio che si stava correndo con lo sciame sismico in atto. E ne uscì una rassicurazione. Uno dei fattori di rischio venne sottovalutato.  
E il filo che corre tra vita e morte si spezzò.
Impressiona ancora ricordare, per chi è ancora vivo, la scossa precedente quella distruttiva, dopo la quale rimanemmo in casa, quasi tutti: era tutto normale.
E così, dopo essere stati ingrati, lagnosi, sfaticati, quest’anno siamo divenuti anche stregoni.

La storia di questi 366 giorni può essere riassunta in un’ aula di tribunale, poi derisa e vilipesa.

E in tutti i giorni inutili che continuiamo a passare in tribunale, accusati di aver varcato la zona rossa, di aver manifestato, di esserci uniti. Tutti attorno ad una città che ha perduto l’anima.
Ma non la dignità, intesa come identità morale di un gruppo di persone: un valore intrinseco e inestimabile di ogni essere umano, pur se terremotato.
Non il rispetto, quello che meritano gli aquilani, gli emiliani, i genovesi e tutti coloro che hanno subito eventi catastrofici: che inizi la ricostruzione all’insegna del ricordo, del rispetto, della dignità. Della sicurezza.

 

5 aprile 11:30/ Gli incubi del 6 aprile, di Cyber-Aubergine

Ultimamente dormo male, faccio sogni strani, mi sveglio e non riesco più ad addormentarmi.

Sono perseguitata da incubi che hanno come filo conduttore strane morti inspiegabili. Questa notte gli sventurati a cui è toccato morire erano gli abitanti del condominio dove vivevano i miei genitori prima del terremoto. E’ la mia mente che rielabora il 6 aprile a modo suo.

E’ il mio subconscio che ancora dopo 4 anni non riesce a spiegarsi quello che è successo quella notte. E’ il pensiero ricorrente della telefonata tra me e mia madre dopo le prime scosse di quella notte “hanno detto che quando fa così vuol dire che scarica e che quindi non ci sarà una scossa di grande intensità… non c’è pericolo, andiamo a dormire”.

Fortunatamente sia la casa dove vivevo io, che quella dove stava mia mamma hanno retto, ma se invece fosse andata diversamente?

Perché per tante persone è andata diversamente. Ed ogni volta che si avvicina il 6 aprile ovviamente io non posso fare a meno di pensarci.

 

5 aprile 9:05/ Agli amici del Bar Margherita, di Valerio Valentini

La sconvenienza del loro sorriso
tarlato da tre anni
nella voragine d’una precarietà corrosa
stride col tanfo di muffa
e di morte
che esalano i vicoli bui.

Ti parlo di un passato quasi mitico
che si macera stasera nel silenzio
che nessuno scompiglia del selciato,
tranne i tacchi eccessivi e delusi
di due ragazze per mano
che credevano di vincere il freddo
con la voglia di mostrare le cosce
esose nella loro prima
ultima notte dell’anno.

Là dietro ci guarda il teatro
lasciato alla guardia dei sassi
dopo le luci gli abbracci le foto
sulla piazza come le altre incancrenita.
E tu che mi dici ti amo
e mi stringi, sorridi e mi baci
mi riscopri alla bellezza del coraggio
nelle tue mani screpolate.

 
4 aprile 23:09/ Domani è il 5 aprile, di Silvia Pozone
 
Gli aquilani si preparano da giorni a questa data. Su Facebook le foto profilo cambiano una ad una.
Si sente nell'aria la tensione che precede due giorni di silenzio.
Io ancora non decido se tornare. 
 
Esserci è logisticamente complicato ma riesco a prevederne tutte le conseguenze. Non esserci sarebbe la scelta più facile e ovvia ma, per quanto mi sforzi, non riesco a valutarne la portata emotiva. L'anno scorso avevo detto che sarebbe stata l'ultima. La terza e ultima fiaccolata della mia vita post-terremoto.
Mi ricordo di aver pensato che il tempo del dolore collettivo fosse finito. Tre anni hanno plasmato strade e costruito storie diverse per ognuno di noi. Percorsi e modi di sentire simili si sono intrecciati allontanandosi da altri. Non sentivo più il senso di essere li tutti insieme. Ho pensato che sarebbe stato più giusto per me, in quel momento, camminare da sola per i vicoli bui,  parlare con i sampietrini lucidi e lasciarmi accarezzare dal freddo pungente del l'abbandono e dall'odore di legna bagnata. 
 
Tutto questo l'ho pensato fino a ieri. 
 
Adesso, mentre cerco di decidere, un po' forse comincio a sentire la necessità di immergermi tra la "mia gente". Sarà perché vivo fuori ed è così strano guardare le persone e pensare che per loro questi saranno due giorni come gli altri. Ma sarà anche perché ho bisogno di sentire che crediamo ancora in quello che abbiamo giurato il primo anno. Che ci saremmo ripresi la nostra città. Che sarebbe stata più sicura di prima. Che non avremmo permesso a nessuno di mangiare sulla nostra tragedia. Che 309 morti avrebbero reso possibile l'espressione "mai più".
 
Forse dovrei tornare per vedere se riesco a sentire tutto questo.
Poi, magari, mi regalo quella passeggiata che mi sono promessa un anno fa.
E te lo vengo a dire in faccia, Cara Mia, che sei maga e megera, che mi hai blandito e fatto pena, ma che sei mi hai incatenato indissolubilmente è solo perché sei tremendamente bella anche nello sfacelo. 

 

4 aprile ore 17/ Libera di vivere il lutto per conto mio, di Giada Centofanti

Oggi pensavo che mi piacerebbe molto se aprile tornasse ad essere solo un mese e non quel mese lì che ti fa salire la rabbia e l'angoscia e scendere i brividi lungo la schiena.


Oggi pensavo che vorrei essere libera di vivere il lutto per conto mio e con discrezione perché tutte le commemorazioni di quel giorno lì mi provocano repulsione. Non me ne vogliate, organizzatori, non ce l'ho con voi, capisco le vostre intenzioni e per di più credo fermamente nella necessità della memoria storica. Ma io, io, il mio corpo e le mie cellule cerebrali, non ce la facciamo proprio, soccombiamo di fronte a questo calendario fitto di eventi. Eppure sono qua a scriverne... incredibilmente incoerente la mente umana.


Oggi pensavo che quella data segna una inevitabile cesura con la vita precedente. E poi ho pensato che esiste, da qualche parte in centro storico, proprio una "via cesura". Però non mi sono mica ricordata dove fosse, l'ho dovuta cercare su GoogleMaps... quando muore qualcuno dopo un po' non riesci più a sentirne la voce o a vederne il viso, fa brutti scherzi la memoria.

 

 

 

Ultima modifica il Domenica, 07 Aprile 2013 17:43

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