L'hanno definita la secessione dei ricchi.
In serata, il Consiglio dei Ministri ha discusso la proposta di legge per l'autonomia di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna; a valle del referendum in Lombardia e Veneto del 22 ottobre 2017, e della iniziativa dell'Assemblea regionale dell'Emilia Romagna del 3 ottobre 2017, il Consiglio dei Ministri aveva fissato al 15 febbraio 2019 la data entro la quale definire le proposte di autonomia differenziata.
"Non ci saranno cittadini di serie A e di serie B", come sostengono i parlamentari M5S, e "chi dice queste cose non ha letto le bozze delle intese tra Stato e le tre Regioni che chiedono più autonomia". Così il vicepremier Matteo Salvini, lasciando Palazzo Chigi al termine del Cdm. "Chi spende meglio - ha chiarito il leader della Lega, dopo aver annunciato un vertice politico sul tema la prossima settimana - avrà servizi più efficienti, risparmierà e avrà così i soldi per dare di più ai cittadini". Non vi saranno penalizzazioni a carico di nessuna Regione "proprio per il sistema con cui è stata costruita l’intesa sull’autonomia, facendo cioè ricorso a una clausola di invarianza", ha spiegato il ministro per gli Affari regionali Erika Stefani (Lega). Si tratta, ha proseguito, "di un meccanismo in base al quale le competenze attribuite alle Regioni vengono gestite con risorse pari al costo storico, 100 metteva lo Stato 100 metterà la Regione". Poi si andrà "verso i fabbisogni standard" che portano "più efficienza nella spesa ma non lasciano nessuno a piedi".
Tuttavia, sul tema dell'autonomia differenziata la maggioranza appare ancora divisa. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, il pentastellato Riccardo Fraccaro, ha inteso chiarire che il "testo finale" delle tre intese "verrà vagliato dalle Camere che saranno coinvolte in maniera adeguata nell'iter di approvazione, con i modi e i tempi che il Parlamento riterrà opportuno".
I testi prevedono che l'approvazione da parte delle Camere avvenga "in conformità" del procedimento "per l'approvazione delle intese tra lo Stato e le confessioni religiose" che per prassi parlamentare sono inemendabili. "In mancanza di una disciplina attuativa dell'art. 116, comma terzo, della Costituzione - si legge nelle bozze delle Intese il cui esame inizierà oggi - alla sottoscrizione dell'Intesa tra il Governo e la Regione interessata deve conseguire l'approvazione di una legge rinforzata, l'iniziativa su tale provvedimento legislativo spetta al Governo. A tale scopo - prosegue il testo - il Governo presenta alle Camere un apposito disegno di legge che recepisce i contenuti dell'Intesa da approvare a maggioranza assoluta dai componenti di entrambe i rami del Parlamento. L'approvazione da parte delle Camere dell'Intesa - si legge poi - avverrà in conformità al procedimento, ormai consolidato in via di prassi, per l'approvazione delle intese tra lo Stato e le confessioni religiose, di cui all'art. 8, terzo comma, della Costituzione".
Tuttavia, la strada è tracciata e il ministro Stefani ha confermato che sono state ufficialmente ricevute richieste di autonomia da parte di Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Marche.
La vicenda, però, andrebbe affrontata con estrema cautela, trattandosi, stando a diversi esperti, di una riforma che rischia di dar vita ad una vera e propria secessione della parte più ricca del paese a discapito delle regioni del centro Sud, con effetti potenzialmente devastanti per i servizi pubblici e la sanità nazionale, al contrario di ciò che afferma il vice premier Salvini. Per i critici, il risultato sarà che le regioni che hanno più risorse ne otterranno ancora di più, e le otterranno prima che si decida a livello nazionale cosa serva fare per quelle che invece hanno di meno. Una secessione de facto che raggiunge l'obiettivo di sempre della Lega Nord, oggi soltanto Lega per strappare voti nel meridione italiano, e cioé l'autonomia territoriale.
Ma andiamo con ordine.
Il nuovo regime prevede che ulteriori materie legislative rispetto alle attuali - tra le aggiunte si annoverano, appunto, sanità, istruzione e tutela dell’ambiente - vengano date in gestione esclusiva alle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, sottraendole a quella congiunta dello Stato.
Questa "rivoluzione federalistica" comporterà che i servizi pubblici non saranno uguali su tutto il territorio nazionale, ma dipendenti, piuttosto, dal "gettito fiscale" delle regioni. Infatti, la "compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi e di eventuali altri tributi erariali", come recita il testo su cui il governo ha trovato l’accordo, servirà a finanziare le competenze aggiuntive chieste dalle Regioni. Nei primi anni, ciò avverrà in base alla spesa storica, cioè quella che oggi lo Stato sostiene sul territorio per le stesse funzioni. Un esempio, tra gli altri: oggi lo Stato spende in Lombardia 5,6 miliardi per la scuola; ebbene, se tutto il pacchetto istruzione sarà assegnato alla Regione, dovrà essere accompagnato da 5,6 miliardi di Irpef-Iva "compartecipata".
Entro un massimo di cinque anni, bisognerà passare ai "fabbisogni standard". Una serie di decreti di Palazzo Chigi, dopo un lavoro tecnico che si annuncia complesso, dovranno individuare il "costo efficiente" delle funzioni assegnate a ogni regione. Il finanziamento garantirà quel costo. Sul punto, dovrebbe essere saltata l’ipotesi più audace, chiesta in particolare da Lombardia e Veneto: quella di parametrare gli standard alla "capacità fiscale" di ogni territorio. In pratica, le regioni più ricche avrebbero avuto diritto a standard di spesa più generosi, e quindi a livelli di servizio maggiori. Ma il meccanismo, com’era ampiamente prevedibile, nel testo non c’è più. E la sua assenza è stata determinante per far accendere il semaforo verde al ministero dell’Economia.
Al suo posto c’è però un’altra clausola che potrebbe aumentare le risorse garantite alle regioni del Nord. Se entro tre anni non saranno individuati i fabbisogni standard, ipotesi non di scuola, il totale delle risorse assegnate per le nuove funzioni "non potrà essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse funzioni". E dal momento che al Nord la spesa pro capite per molti servizi pubblici è inferiore alla media nazionale, da lì potrebbe arrivare una compartecipazione più ricca.
In definitiva, il quadro che verrebbe fuori sarebbe quello non più di un'Italia a doppia velocità ma, invece, di un Paese realmente spaccato a metà in senso orizzontale. Dal Lazio in giù, certo, i servizi oggetto della revisione normativa regionalista non sparirebbero. Subirebbero però indubbiamente una sostanziale contrazione in termini di qualità.
La critica di Viesti: "Verso la secessione dei ricchi?"
Tra i principali critici della riforma c’è l’economista Gianfranco Viesti, che ha dedicato all’importante riforma dell’amministrazione italiana un breve saggio presso la casa editrice Laterza, Verso la secessione dei ricchi?, scaricabile gratuitamente.
Le osservazioni di Viesti si concentrano sull’obiettivo fondamentale dell’iniziativa messa in atto dalle tre regioni del Nord, vale a dire quello di "ottenere, sotto forma di quote di gettito dei tributi che vengono trattenute, risorse pubbliche maggiori rispetto a quelle oggi spese dallo stato a loro favore".
Dal punto di vista concreto, secondo Viesti, attribuire maggiori risorse a Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna non significa altro che ridurre i finanziamenti alle altre regioni, attribuendo un ulteriore vantaggio economico al Nord, a prescindere da ogni considerazione circa il divario che già separa questi territori dal Sud, particolarmente disastrato dopo la crisi. Dal punto di vista concettuale, Viesti mette in discussione la nozione di 'residui fiscali', adoperata nel progetto di riforma federalista. Con l’espressione si fa riferimento al risultato ottenuto "sottraendo dalla spesa pubblica che ha luogo in un territorio l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti sullo stesso territorio". In pratica, se il risultato è negativo, allora la popolazione di quella regione riceverà in spesa pubblica meno di quanto versa in imposte.
Ma soprattutto, secondo Viesti, aggregare i cittadini sulla base della loro appartenenza territoriale è, oltre che giuridicamente sbagliato, ideologicamente arbitrario: a beneficiare della spesa pubblica e a pagare le imposte non sono infatti i territori regionali, ma i singoli cittadini, sulla base della loro condizione di benessere o di bisogno, indipendentemente da dove sono nati o risiedono.
La protesta dei medici
Il Sindacato Medici Italiani (Smi) ha lanciato una petizione (indirizzata, tra gli altri, al premier Giuseppe Conte e al ministro della Salute, Giulia Grillo) chiedendo il rinvio del voto parlamentare sull’autonomia.
L’iniziativa, ideata da medici di famiglia e dai pediatri, dagli specialisti ambulatoriali, da quelli dell’emergenza territoriale, dalle ex guardie mediche e dalla dirigenza sanitari, punta ad "assicurare il carattere di universalità all’assistenza medica e sanitaria in tutta Italia" e a fare in modo che il regionalismo differenziato "non rappresenti la pietra tombale del Ssn".
L’allarme del sindacato riguarda la possibilità per le regioni interessate di rimuovere i vincoli di spesa relativi alle politiche di gestione del personale dipendente convenzionato o accreditato: "Avranno mano libera in materia di accesso alle scuole nazionali di specializzazione e potranno stipulare specifici accordi con le università presenti sul territorio regionale. Potranno, inoltre, redigere contratti a tempo determinato di specializzazione lavoro per medici, alternativi al percorso delle scuole nazionali di specializzazione". In questo modo, avvertono i medici, il Servizio sanitario nazionale potrebbe abbandonare il suo carattere omogeneo e trasformarsi in una somma di servizi sanitari regionali. D'altra parte, le tre regioni chiedono autonomia non soltanto in materia di spesa ma anche di prestazioni, specializzazioni e formazione medica, e pure sulla possibilità di scelta e adozione dei farmaci.
Anche la Cgil – che sul tema, insieme a Cisl e Uil, ha chiesto un confronto con governo e regioni – si dice contraria, indicando come priorità la definizione di uguali livelli di assistenza per tutte le regioni, vista la disparità esistente oggi, soprattutto tra Nord e Sud. Altrimenti, spiega il segretario Maurizio Landini, "così facendo si rischiano di acuire diseguaglianze e ingiustizie sociali".
L'appello di 130 intellettuali
Centotrenta intellettuali, fra storici dell'arte, archeologi, urbanisti, scrittori e saggisti, hanno sottoscritto l'appello lanciato dal Comitato per la Bellezza e dall'Associazione Bianchi Bandinelli contro l'intesa fra il governo e le prime tre regioni, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, per trasferire ad esse, in base al Titolo V della Costituzione, nuove e maggiori competenze oggi dello Stato.
"Venerdì 15 febbraio l'Unità d'Italia comincia a sgretolarsi", si legge nell'appello che parla di "atto costituzionale che assesta un colpo mortale allo Stato unitario, alla Repubblica voluta nel 1946 dal popolo italiano, destinato a portare al massimo il caos politico-amministrativo del Paese anche nei suoi rapporti con l'UE e col resto del mondo. Reso possibile dalla sussistenza del disastroso Titolo V della Costituzione voluto dal centrosinistra nel 2001 e purtroppo mai riformato".
Nei firmatari dell'appello (tra i quali spiccano i nomi di Adriano La Regina, Tomaso Montanari, Fulco Pratesi, Pier Luigi Cervellati, Vittorio Emiliani, Pancho Pardi, Fausto Zevi e molti altri) suscita "grandissima preoccupazione il fatto che fra le prime competenze rivendicate 'in esclusiva' vi sono Ambiente, Beni Culturali, Urbanistica (ma non solo). Grandissima preoccupazione giustificata dai fatti, cioè dalla pessima attuazione o dalla inattuazione delle deleghe già ricevute in materia dalle Regioni a statuto ordinario quarant'anni fa (per non parlare della Regione Siciliana a statuto speciale, dove gli abusi non si contano). Per esempio, la sostanziale renitenza o addirittura il pratico rifiuto della stragrande maggioranza delle regioni di attuare leggi dello Stato sul Paesaggio come la legge Galasso del 1985 sui piani paesaggistici, ribadito ostinatamente nei confronti del Codice per il Paesaggio del 2008 con appena 3 piani co-pianificati e approvati, spesso fra furibonde polemiche locali".
Ciò che preoccupa i firmatari dell'appello è che alle tre regioni che "pretendono mano libera su ambiente, paesaggio, beni culturali", si possano aggiungere altre Regioni che "chiedono già di avere più autonomia e più competenze esclusive. La Campania - regione record dell'abusivismo - le vuole per ambiente, ecosistema, paesaggio. La Regione Lazio, a quanto si apprende, le chiede - pur avendo al suo interno la Capitale del Paese - anche per i rapporti internazionali e con la UE. La Liguria le esige per le grandi reti di trasporto e di navigazione (assolutamente impensabili anche nella federale Germania)".
"Tale disegno è assolutamente, drammaticamente inaccettabile", dicono i firmatari dell'appello e concludono: "Eleviamo la più forte e argomentata protesta contro una operazione che smantella lo stesso Stato regionale, dissolve un governo centrale già debole che invece negli Stati regionali è forte e deciso. Un vento di follia sta investendo il Paese, quanto resta dello Stato viene sbriciolato a favore di Regioni che, in quasi mezzo secolo, hanno spesso dimostrato inerzia, incapacità, opacità a danno della comunità, della Nazione italiana".