Lunedì, 27 Gennaio 2014 10:19

La "Fiaba d'amore" di Antonio Moresco, lo scrittore cosmico

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Di Enrico Macioci - Con Fiaba d’amore (Mondadori, pagg. 155) Antonio Moresco prosegue lungo la via tracciata da La lucina, uscito un anno fa (la parola “lucina” ricorre più d’una volta, forse non a caso, in Fiaba d’amore), confermandosi il nostro romanziere più cosmico e apocalittico (nel senso di rivelativo), capace di spalancare universi anche per mezzo di libri esili, racconti in apparenza dimessi e innocui.

Non che i romanzi colossali usciti dalla sua penna, I canti del caos o Gli esordi, non abbiano un simile respiro e una simile ambizione; ma a me stupisce di più il Moresco intimo e ripiegato su di sé che il Moresco espanso a piovra sull’intero creato (il prossimo romanzo, anch’esso immane, s’intitolerà Gli increati e concluderà la lunga e complessa parabola narrativa dell’autore mantovano).

Fiaba d’amore combina magicamente due piani: quello per l’appunto della fiaba e quello della concretezza, della “rugosa realtà” di rimbaudiana memoria. Moresco riesce a passare da un piano all’altro con maestria tale che in realtà i due piani, più che alternarsi, scivolano di continuo uno dentro l’altro fondendosi in un unico piano, il piano/Moresco: “Mangiava quello che trovava dentro i cestini e i cassonetti delle immondizie: pane raffermo, avanzi di pasta fredda dentro i vassoi di carta stagnola, croste di pizza con i segni dei denti, frutta marcia scartata e butta qua e là sull’asfalto.”

Così facendo la cosiddetta fiaba (che non manca di riflessioni feroci sul nostro stato terrestre) non rischia mai di perdere forza né impatto, poiché ogni volta che la dimensione fatata sta per avere la meglio irrompe un elemento “spurio” quando non proprio “sporco”: “Se il bisogno era improvviso, c’era gente in giro e non poteva accucciarsi, aveva escogitato questo sistema: si abbassava un po’ ciò che restava dei calzoni, ci infilava da dietro un foglio doppio di giornale, tenendolo accartocciato con la mano, si scaricava e poi andava a buttare quella cosa calda e fumante dentro il cestino.”

E’ grazie all’attenzione minuziosa per il piccolo, l’umile, il terra terra e perfino il repellente che la visionarietà di Moresco s’incarna in maniera adeguata, sconfiggendo il rischio del gratuito e mescolando verosimiglianza ad incanto, sogno a presa d’atto, ragione a follia, darwinismo a misticismo. Perché poi Moresco è capace di poesia pura: “Cominciarono a dormire per terra, abbracciati, fronte contro fronte, con le selve dei loro capelli accostate mentre dal cielo iniziava a cadere lentamente la neve.” O di pura audacia cognitiva: “Continuava a camminare e intanto sentiva sempre più quel suono di sonno che avvolgeva tutta la città, perché i morti dormono più profondamente dei vivi, perché il sonno dei morti è la veglia dei vivi, mentre la veglia dei vivi è il sonno dei morti.”

Egli va quindi a situarsi in una zona tutta propria, che ricorda per certi aspetti Kafka e il suo Cacciatore Gracco – condannato a viaggiare per l’eternità sulla sua barca, né morto e né vivo; e da questa zona franca Moresco ipotizza un aldilà tanto fantastico quanto credibile, una sorta di specchio rovesciato della vita mondana, un aldilà che si trova già fra noi; un aldilà che però, ciechi a noi stessi, non riusciamo a vedere.

Infine la forma. Alcuni anni fa credevo che certe reiterazioni moreschiane di verbi, sostantivi o aggettivi fossero in parte ridondanti, e che il suo lessico non fosse del tutto all’altezza della sua visione; mi sbagliavo. Col suo giro di frase ipnotico e salmodiante, quasi pedante, Moresco tiene su le architetture della sua fervida utopia, spingendosi con brusche accelerate dentro i vertiginosi monologhi sulla vita e la morte, sugli umani e la natura, sugl’insetti e le stelle, sui rifiuti e la fede.

Con quel ritmo a mezzo fra predicazione e mito, epica e apologo, Moresco apre (per usare un’espressione a lui cara) una faglia, uno spacco profondo nel terreno della narrativa italiana. Io penso che abbiamo bisogno di Moresco, dei suoi eccessi e del suo coraggio a tratti donchisciottesco; penso che la nostra letteratura in prosa, storicamente refrattaria alla dimensione metafisica dell’esistenza, più intro che estroflessa, con Moresco abbia l’opportunità di rinnovarsi e dirigersi lungo strade poco battute, strade che conducono dritte a qualche alba inaudita, perché “il sonno dei morti è la veglia dei vivi, mentre la veglia dei vivi è il sonno dei morti”, e perché “era proprio tutto come nella città dei vivi. Solo che nella città dei morti non sai che sei morto, come in quella dei vivi non sai che sei vivo.”

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