Mercoledì, 29 Gennaio 2014 17:51

Bruce Springsteen ricorda Pete Seeger, il padre della musica folk

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La sua era una famiglia di musicisti: lo sono stati il padre e i fratelli.

Nato nel 1919, Pete Seeger fondò nel 1948 il gruppo The Weavers con cui raggiunse la fama e divenne celebre per hit come Goodnight Irene. Ma l’aspetto musicale è quasi secondario per un artista che ha inteso la musica come uno strumento di comunicazione e partecipazione alla vita civile e sociale. Ha attraversato epoche diverse, passando dalle marce guidate da Martin Luther King a quelle contro la guerra in Vietnam per finire, recentemente, accanto ai giovani di Occupy Wall Street. È stato la leggenda del folk e dell’impegno politico.

Determinante per la sua carriera fu l’incontro con Woody Guthrie verso la fine degli anni Trenta. Con lui disegnò la carriera di folksinger radicale e di sinistra

Seeger ha realizzato oltre cento album che influenzarono i giovani musicisti che alla fine degli anni Sessanta affollavano i folk club di New York o della West Coast, da Dylan alla Baez, da Peter, Paul and Mary ai Mamas and Papas.

Si è spento nella notte tra lunedì e martedì in un ospedale di New York, dove era ricoverato da sei giorni. Aveva 94 anni. Per ricordarlo, vi riproponiamo le parole che Bruce Springsteen ha dedicato a Seeger il 3 maggio 2009, al Madison Square Garden di New York, quando con altri straordinari artisti organizzò la festa per il 90esimo compleanno della leggenda della canzone di protesta a stelle e striscie. 

 

Quella volta che Pete e io andammo insieme a Washington, per la cerimonia inaugurale del presidente Obama, mi raccontò tutta la storia di We shall overcome. Il modo in cui passò da canzone del movimento operaio, grazie all’ispirazione di Pete, a venir adattata dal movimento per i diritti civili. Quel giorno, mentre cantavamo This land is your land, ho guardato Pete – il primo presidente nero degli Stati Uniti era seduto accanto a lui – e ho pensato all’incredibile viaggio che aveva percorso. Il fatto che fossi cresciuto negli anni Sessanta in città sfigurate dagli scontri razziali ha reso quel momento quasi incredibile. E Pete aveva trent’anni in più di lotta e di vero attivismo sulle sue spalle.

Era così felice quel giorno, era un po’ come dire: Pete, hai resistito di più di quei bastardi! È stato bello. Durante le prove, il giorno prima, si gelava: saranno stati meno 10 gradi, e Pete era lì. Aveva addosso la sua camicia di flanella. Gli faccio: hey, sarà meglio che ti metti qualcos’altro sopra la camicia di flanella. E lui mi risponde: eh, ma sotto ho la calzamaglia.

Allora gli ho chiesto in che modo avrebbe voluto affrontare This land is you land. L’avremmo cantata quasi alla fine del concerto. Mi rispose solo: «Beh, so che voglio cantare tutte le strofe, voglio cantare tutte quelle che Woody (Guthrie) ha scritto, specialmente quelle due che di solito non si cantano, sulla proprietà privata e la mensa per i poveri». Ho pensato: certo, è quello che Pete ha fatto per tutta la vita. Canta tutte le strofe tutte le volte, specialmente quelle che preferiremmo lasciare fuori dalla storia del nostro popolo.



A un certo punto Pete decise che sarebbe stato un promemoria di tutta la storia americana, cantando e girando. Sarebbe stato un archivio vivente della musica e della coscienza d’America, un testamento del potere che hanno le canzoni e la cultura nell’indirizzare la storia, nello spingere le vicende americane verso fini più umani e giusti. Avrebbe avuto l’audacia e il coraggio di cantare con la voce del popolo. E nonostante l’aspetto di Pete, benigno, un po’ da nonno, è una creatura di un testardo, inarrestabile, sporco ottimismo.

Porta dentro di sé una resistenza d’acciaio che smentisce quella facciata da nonno e che non lo lascia mai indietreggiare di un passo rispetto alle cose in cui crede. A novant’anni, è ancora un pugnale silenzioso piantato nel cuore delle illusioni che questo paese coltiva su se stesso. Pete Seeger continua a cantare tutte le strofe, tutte le volte; ci ricorda i nostri immensi fallimenti e allo stesso tempo ci illumina la strada verso la parte migliore di noi e verso l’orizzonte dove speriamo che il paese che abbiamo immaginato, e che ci è caro, ci stia aspettando.

Come se non bastasse, non è uno che va a vantarsi in giro. Vive questo suo ruolo straordinario come se niente fosse. È divertente, e molto eccentrico. Tra poco chiamerò Tommy, e la canzone che io e Tommy Morello stiamo per cantare l’ho scritta a metà degli anni Novanta ed è nata come una conversazione tra me e me. Era un tentativo di tornare alle mie origini. L’ultima strofa è il bel discorso che Tom Joad sussurra a sua madre nel finale di Furore (di John Steinbeck): «Ovunque ci sia un poliziotto che picchia una persona / Ovunque ci sia un neonato che piange per la fame / Dove c’è nell’aria una guerra contro il sangue e l’odio / Cercami, Mamma, io sarò lì».

Beh, Pete è sempre stato lì.

Per me quel discorso è sempre stato fonte di ispirazione. Per Pete, è stato più semplicemente un modo di vivere. Il cantante, nella mia canzone, va in cerca del fantasma di Tom Joad. Lo spirito che ha lo stomaco e la forza per andare avanti, per combattere e vivere i suoi ideali.
È con gioia che posso testimoniare che quello spirito, il vero fantasma di Tom Joad, stasera è con noi, in carne e ossa. Sarà su questo palco per qualche momento, assomiglierà moltissimo a vostro nonno, con addosso camicie di flanella e buffi cappelli. Somiglierà a vostro nonno, ammesso che vostro nonno riesca ancora a prendervi a calci nel culo.

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