Abbiamo immaginato di proseguire questo lungo cammino virtuale da Piazza Duomo e da quella che è la sua tradizione d’origine: il mercato.
Ne parliamo con Rita Salvatore, fiduciaria della condotta Slow Food dell’Aquila.
Allora Rita, come inizieresti questa intervista?
A buona memoria delle contadine di Piazza Duomo!
Cioè?
Vi voglio raccontare la storia di alcune donne straordinarie. Iniziamo dalla mappa del Mercato quotidiano della Piazza del Duomo all'Aquila. E tutte le testimonianze cui si fa riferimento sono state raccolte nel 2000.
In questa piazza, ogni mattina, fino al 4 aprile del 2009 - all'alba durante la stagione invernale, ma molto prima durante quella estiva - si poteva assistere allo stesso rituale quotidiano: l'occupazione-prenotazione del posto per la vendita di merci di produzione propria da parte di un gruppo di ortolane. A differenza degli altri stalli, infatti, i ventuno posti centrali non venivano assegnati in modo definito dagli uffici municipali al titolare di una azienda in particolare, ma erano regolati dalla norma non scritta del 'chi prima arriva meglio alloggia'.
E cosa accadeva?
Sin dalle primissime ore del mattino, alcune anziane donne, accompagnate dai loro mariti, o da qualche familiare se vedove, scaricavano i loro prodotti dell’orto, assicurandosi un posto. Quindi, giunte le ore tredici, procedevano all'operazione inversa per tornare nei loro luoghi di provenienza e dedicarsi alla preparazione dei prodotti da vendere il giorno seguente. E così si apprestavano a ripetere quotidianamente ed incessantemente gli stessi gesti imparati da fanciulle e reiterati durante l'arco di un'intera vita.
In pochi conoscono questa storia ma in molti ricorderanno certamente loro, le contadine.
Questa sezione di mercato era dunque nettamente diversa da quella ad essa marginale e ciò che la contraddistingueva si ascriveva ad alcuni aspetti particolari, nienteffatto casuali, ma frutto di un complesso percorso storico, sociale e culturale.
Quali erano questi aspetti?
Gli individui impegnati nella vendita erano quasi esclusivamente di sesso femminile. Sul perché si trattasse quasi esclusivamente di donne ha concorso in parte la tendenziale femminilizzazione dell'agricoltura rispetto alla maschilinizzazione della pastorizia. Storicamente, per l’economia tradizionale di questi posti gli uomini erano quelli che “andavano”, le donne quelle che “restavano”.
Perché?
Lo chiesi proprio ad alcune di loro, quale la motivazione addotta dalle protagoniste? «Beh, per stare qua è meglio una donna! Per tanti motivi, ma più che altro per trattare con le persone, per dare un consiglio. Per esempio, se ci dovessero venire i figli miei qua, non lo farebbero mai perché si vergognano. E di che non lo so!» (Ortolana di Camarda, anni 63)
«Battere la piazza è una cosa da femmine! Mio marito mi prenderebbe per pazza se gli chiedessi di venire qua. E poi per vendere in piazza ci devi essere pure abituato. I giovani, i maschi non ci sono abituati e perciò se ne vergognano.» (Ortolana di Pianola, 72 anni)
Quale altro aspetto caratterizza la fila?
La maggior parte delle contadine aveva raggiunto un'età senile e seguiva una lunga tradizione familiare. In questo contesto, oltre che di femminilizzazione, si dovrebbe parlare anche di senilizzazione del lavoro agricolo; l'età media delle ortolane presenti nel mercato di Piazza del Duomo era molto alta (70 anni). Si trattava di donne, spesso vedove, il cui scopo, lungi dall'essere quello di imporsi sul mercato, risiedeva in esigenze di altro tipo: in primo luogo quella di integrare il reddito percepito attraverso le pensioni; in secondo luogo, ma non per questo meno importante, quella di continuare a condurre un lavoro autogratificante al quale si è «troppo abituate»; non ultima, quella di «[volersi] riconoscere nella continuità di una consuetudine familiare».
Hai raccolto altre testimonianze a riguardo?
Certo: «Gli anni che vengo in piazza non si contano! Venivo in piazza da piccolina appresso a mamma, persino con il somaro. Allora in città ci stavano proprio le stalle adatte per rimettere le bestie, si pagava qualche cosa e si potevano lasciare là gli animali. Mia madre veniva sempre a vendere gli olaci, la cicoria e quando ce ne aveva un po' di più mi si portava pure a me» (Ortolana di Camarda, 63 anni)
«Io mi ricordo… con mia madre abbiamo avuto sempre la campagna. E mia madre veniva qua a piedi col canestro in testa col formaggio. E io ero piccola e venivo qua con lei. A me mi lasciava qua in piazza e lei se ne andava per questi vicoli qua sotto a vendere il formaggio.» (Ortolana di Aragno, 79 anni)
Da dove provenivano le ortolane?
Le ortolane provenivano dalle frazioni più vicine alla città, soprattutto da quelle dove c’era ampia disponibilità di risorse idriche, per la presenza di piccoli laghi (come nel caso di Bagno) e del fiume Aterno. C’è un altro aspetto fondamentale… La merce in vendita era esclusivamente di produzione propria. Questa era sicuramente una condizione principale ed irrinunciabile. Vendere prodotti, frutto di una lavorazione diretta, rappresentava non solo il segno di una tradizione storica e sociale ma anche quell’anello di congiunzione tra mondo urbano e realtà contadina.
«Il vero mercato siamo noi, la piazza siamo noi. Questi dei banchi mica lavorano la terra! Comprano la roba e poi la rivendono!» (Ortolana di Camarda, 63 anni).
Insomma, testimonianze di uno slow food ante litteram?
Già alla fine degli anni Novanta il lavoro delle ortolane si stava rivestendo di nuove implicazioni, rispondendo all’esigenza da parte dei consumatori cittadini di poter disporre di prodotti «genuini», naturali, si diceva allora… buoni puliti e giusti diremmo oggi. E di ciò le ortolane erano già ben consapevoli; la loro merce, infatti, di solito veniva venduta ad un prezzo più elevato rispetto a quello esposto sugli altri banchi, ma in compenso, assicuravano le stesse, «si tratta di roba buona, naturale».
Ortolane dell’aquilano dunque come antesignane di grandi cambiamenti valoriali… sono state loro, infatti, a mantenere più a lungo degli uomini quel legame con la terra che oggi ci richiama fortemente. E vorrei chiudere, a distanza di vent’anni, come chiusi allora il mio breve saggio su questa particolare economia “cittocontadina”:
Sicuramente, con la scomparsa delle attuali venditrici si chiuderà una tradizione familiare, ma per altro verso, se i tempi saranno maturi, la fila potrà essere occupata da “altri” coltivatori, chissà da una “nuova” generazione di “imprenditori agricoli”, dediti alla produzione “biologica”, “locale”, “naturale”, “genuina”, “autentica”. Per il momento gli interrogativi rimangono aperti, in attesa di riscontri, e con l'auspicio che, magari attraverso forme e modalità diverse, continui a protrarsi quella sintesi tra cultura e territorio, tra mondo urbano e realtà rurale che per tanti anni è stata operata dalle «contadine della piazza».