Di Ilaria Carosi, psicologa e psicoterapeuta - Martedì scorso ha avuto luogo, presso il Circolo Didattico Amiternum, il convegno “L’intercultura è per tutti”, atto finale dell’omonimo progetto cofinanziato dall’Unione Europea e dal Ministero dell’Interno, attraverso il Fondo Europeo per l’integrazione di cittadini di paesi terzi.
Un progetto ideato e coordinato dallo stesso Circolo Didattico Amiternum, dall’Istituto Comprensivo “Mazzini-Patini” e da Crocevia Abruzzo-Centro Internazionale L’Aquila, e implementato grazie alla sinergia di diverse professionalità.
Tra le attività previste e realizzate, la formazione del personale docente e non docente, laboratori interculturali per alunni, gruppi di confronto su temi specifici per genitori.
Inoltre, è stato stampato un vademecum trilingue che aiuti le famiglie straniere ad orientarsi nella realtà aquilana (www.amiternum-scuola.it).
Un progetto ed un convegno che ci offrono lo spunto per ragionare sullo stato dell’arte raggiunto dal mondo dell’educazione rispetto ai processi di accoglienza degli alunni stranieri.
Perché fare intercultura a scuola?
“Perché è difficile trasformare l’accoglienza in integrazione”, scrive nelle prime righe del vademecum il dirigente scolastico dr.ssa Carla Marotta.
E da tale affermazione sarà bene partire, perché malgrado il numero di alunni stranieri sia ormai in crescita costante, malgrado vengano pubblicate da anni Linee guida ministeriali, malgrado l’intercultura venga attualmente considerata il presupposto da cui partire e non il risultato da raggiungere, si fatica.
Molto viene lasciato alla buona volontà - che per fortuna tanti ancora dimostrano di avere-, troppo resta confinato in dichiarazioni di intenti e buone prassi da seguire che non sempre trovano concrete possibilità di attuazione.
Vale la pena allora riflettere su quel che di buono viene realizzato perché dovremmo renderci conto presto che la convivenza multiculturale inizia e va costruita sui banchi di scuola. Non per retorica, piuttosto perché la società va da un’altra parte e ancora mette a dura prova chi abbia alle spalle una storia di migrazione, l’abbandono forzato del proprio paese, oppure sia semplicemente portatore di una diversità, reale o presunta tale.
Accade non solo ai migranti in senso stretto ma a chiunque si trovi a fare i conti con una doppia appartenenza, ai minori stranieri adottati o alle seconde generazioni, che magari il “paese” non l’hanno mai visto e sono costrette a “battersi” per una cittadinanza italiana che attualmente può essere concessa soltanto in via “onoraria”, prima dei 18 anni.
I bambini a volte reagiscono meglio ai cambiamenti e assumono la funzione di ponte tra una lingua e l’altra, tra una cultura e l’altra, tra la società di accoglienza e i propri genitori; ma altrettante volte si sentono smarriti, divisi a metà, quando non completamente scissi. E vanno aiutati a rafforzare le proprie abilità personali e sociali.
Ancor più gli adolescenti, che in tale delicata fase evolutiva sentono il bisogno e le pressioni di una definizione identitaria propria, che vada al di là delle lealtà familiari, senza dover necessariamente condurre ad una rottura totale con esse; né necessariamente implicare l’assimilazione alla cultura dominante, quella del paese ospitante. Una cultura che esercita, tuttavia, un richiamo fortissimo per loro, soprattutto perché assomigliare agli italiani, che questo significhi o meno integrazione, li fa sentire accettati.
Le diversità possono essere esaltate oltre misura oppure sminuite ma quel che funziona davvero è riflettere su quanto si ha “in comune”. Perché non è bisogna essere per forza “uguali” o “diversi da”. Perché non è vero che il nostro non sia anche un paese razzista.
Se in un primo momento la Scuola ha posto interesse all’istruzione degli alunni stranieri e alle sfide che essi comportavano da un punto di vista meramente didattico, negli ultimi anni, grazie agli apporti della psicologia e dell’epistemologia sistemica, sono stati presi in considerazione anche gli aspetti più strettamente relazionali e si è potuto riflettere su quanto la vera domanda non fosse solo come integrare l’alunno straniero che arriva, quanto piuttosto come lavorare sul contesto classe e valorizzare gli arricchimenti reciproci che la presenza di tali alunni comporta.
Chiaramente, con un’attenzione specifica e, ove necessario, specialistica per quelle delicatezze ed eventuali fragilità legate al crescere tra due culture.
Accogliere non significa solo offrire ospitalità, accettare ed approvare ma soprattutto includere.
E la Scuola rappresenta una risorsa vera nel perseguimento di tale obiettivo.
L’averlo fatto a L’Aquila, nel particolarissimo contesto sociale che sappiamo, non può che rappresentare il valore aggiunto di queste attività.