Da qualche giorno provo un forte disagio per quello cui stiamo assistendo a livello internazionale.
È il disagio di chi, pur non avendo mai fatto esperienza diretta di una guerra, ha lavorato e ascoltato per anni i racconti di chi variamente portava, sulla carne e nella psiche, i segni di un qualche conflitto. È il disagio di chi ben conosce le maglie -e i limiti- di sistemi di accoglienza che spesso lasciano indietro le persone, in un equilibrio sempre troppo precario tra le risorse di cui si dispone o di cui si vuole disporre a livello centrale e le necessità di chi arriva, spesso sfinito, per mare o per terra. È il disagio di chi sa che basare -di continuo- l’accoglienza su logiche emergenziali non offre a chi arriva una reale protezione, non consente di risanare ferite, né rende pensabile né realizzabile una seppur minima progettualità, in quello che drammaticamente diventa un provisoire qui s’éternise, un provvisorio che diventa eterno, definizione che mutuo da un gruppo di colleghi belgi perché rende al meglio la condizione di moltissimi profughi.
Dal 22 febbraio ad oggi, oltre 4 milioni e mezzo di ucraini (varia il dato anche mentre scrivo) hanno lasciato il loro paese e non sarò io a dover sottolineare quanto quella cui ci troviamo davanti sia una catastrofe umanitaria di proporzioni immani, benché non senza precedenti, purtroppo.
Sono anni che lavoro con migranti, richiedenti asilo, rifugiati, vittime di tortura. Anni in cui la drammaticità con cui la vita fa distinzione tra gli esseri umani -in base a dove si ha la fortuna o sfortuna di nascere- mi si materializza davanti. E vi confesso che, mesi fa, ho anche allentato la presa e deciso di prendermi una pausa, mettendo da parte proprio quella fetta di attività professionale e clinica che sempre mi ha accompagnata, gratificandomi al di là di ogni possibile aspettativa: il lavoro con l’altrove è arrivato, in ordine di tempo, prima ancora della mia laurea in psicologia.
La pausa si è resa necessaria perché l’ascolto di certe storie logora, malgrado tutta la preparazione tecnica e i livelli di protezione che ci puoi mettere quando sei del mestiere.
Ancor più, logorano le contraddizioni cui questo lavoro ti espone e le logiche cui forzatamente ci si piega, quando si crede nella causa dell’accoglienza o si è animati dal sogno di un mondo migliore. Logorano la superficialità e la barbarie con cui alcune questioni vengono affrontate da chi vorrebbe farci passare come naturale la distinzione tra profughi veri e profughi… finti. Faccio fatica pure a scriverlo. C’è chi vorrebbe -e di fatto sta decretando- differenze nell’accoglienza, in base alle tonalità di pelle delle persone. Come fosse possibile ravvisare una scala di gravità nelle tragedie che gli esseri umani si trovano a dover affrontare, anche senza avere colpa alcuna.
Il mio primo colloquio clinico lo feci -da tirocinante in psicologia- ad un ragazzotto brasiliano rimasto bambino, era il 2003 ed offrivamo consulenze psicologiche gratuite agli immigrati, senza distinzioni di sorta. Prima ancora -nel 2002- con un gruppo di colleghi avevamo battuto in lungo e in largo Roma per un report, intervistando badanti filippine, peruviane, eritree, somale e capoverdiane (quelle di più antica e datata migrazione romana); e ancora rumene, polacche, ucraine: nelle chiese, sulle panchine, al parco, dove capitava. Io avevo avvicinato le donne dell’est a Piazza Bologna, nel pomeriggio di un giovedì ed ero riuscita, con non poca fatica, a vincere la loro naturale diffidenza. Il giovedì successivo andò ancora meglio, perché mi riconobbero e, anche se in cambio non offrivo nulla di materiale, quel mio essere interessata al loro punto di vista, alla loro voce, era una novità che le trovò disponibili. Una caratteristica che ho notato esser comune a molti migranti è proprio lo stupore di fronte ad un interesse ed una curiosità cui non sono abituati, al contrario di indifferenza, ignoranza e pregiudizi che sono molto più spesso la norma.
Erano forti queste donne, fortissime, tanto da caricarsi sulle spalle le cure dei nostri bambini un po’ viziati e dei nostri nonni in difficoltà per mandare avanti economicamente, a distanza, le proprie famiglie: i loro, di figli, crescevano con i nonni, orfani di fatto di madri che morte non erano.
Ricorderò sempre il primo ragazzo kosovaro, visto in ciabatte e tuta acetata, nella sede Caritas di via delle Zoccolette, nella caldissima estate del 2004 e quel mio iniziarmi a chiedere: “perché è toccato a lui e non a me?”. Ero giovane, piena di ideali… che iniziarono ad incrinarsi davanti alla drammaticità con cui le vite degli altri impattavano addosso alla mia. Porterò sempre nel cuore Ali, il giovanissimo afgano con gli occhi ingentiliti da una carnagione d’ambra e da quella bellezza rara che solo alcuni posti del mondo ti incidono sulla pelle. Porto nel cuore e nella memoria, come fosse ieri, il pomeriggio afoso in cui, alla luce degli ultimi raggi di un sole che ci tramontava davanti, sollevò la manica della t-shirt nera con la quale ostinatamente affrontava le giornate (sempre a maniche lunghe, stava) per mostrarmi i segni dei tagli che si era inferto, nel tempo, sul braccio: “ho deciso, voglio tornare a casa”.
Intendeva dire in patria. Perché una casa e una famiglia esistevano ormai solo nei suoi ricordi. Nemmeno il suo Paese, per come l’aveva conosciuto, esisteva più. Glielo dissi che l’Oim aveva programmi di rimpatrio assistito, gli spiegai anche dove stava, l’organizzazione internazionale per le migrazioni, ma gli dissi anche di non farlo, era troppo pericoloso rientrare. Lo avrebbero ucciso ma cominciavo a capire che lui, per la storia e i vissuti che aveva, si sentiva in parte già morto. Quando, in quel pomeriggio caldo Ali, schivo con tutti, scelse me, mi chiesi ancora: “perché?”. Svariati anni dopo, mentre ero impegnata in una attività di intercultura in una scuola aquilana, un altro ragazzo afgano di 16 anni, arrivato in Italia da minore non accompagnato, alzò la mano per leggermi spontaneamente un testo scritto nelle migliori parole italiane che aveva. Quelle sue parole, scannerizzate direttamente con la sua scrittura, le tengo sul desktop del portatile da sette anni, come uno dei doni più cari che il mio lavoro mi abbia mai concesso di custodire: “Io, 17 messi fa sono uscito dall’Iran, da quell momento è iniziata la mia storia e vita nuova…”.
La mia storia e vita nuova. Una seconda nascita che azzera il prima. Quello che non tornerà e che è così assolutamente indicibile da restare sospeso in un altrove cui non abbiamo alcun accesso, non solo perché sarebbe in una lingua a noi sconosciuta, ammesso lui riuscisse a parlarne; ma per il fatto che il trauma, spesso, le parole le blocca. Ecco, allora, mancare tutto il prima, nella storia che Y. inizia a raccontare a me e ai suoi compagni di scuola che, per la prima volta da quando è arrivato, lo ascoltano. Manca il prima ma sono scanditi i numeri, i mesi e le settimane impegnate a cercare di fuggire e il suo esserci riuscito definitivamente, dopo vari tentativi falliti, restando attaccato alle ruote di un camion, imbarcato dalla Grecia all’Italia. Per 20 ore. Un altro numero. A quell’elenco di numeri, resta attaccato quel che rimane della sua vita nuova. Nella storia di Y., scandita da numeri e attraversamenti di confini -che spesso i profughi elencano come fosse normale macinare chilometri con mezzi di fortuna o a piedi- manca quella parte di vita che drammaticamente non c’è più e che resterà sempre una frattura nella psiche, a separare il prima dal poi.
Sapete con quanti danni e quante ferite arriva un minore non accompagnato? Riuscite anche solo ad immaginarlo? Non parlo solo dei tagli e dei calli ben visibili su piedi nudi, cercatela una foto dei piedi nudi di un profugo che arriva via terra, se non ne avete mai vista una. Parlo anche di ferite che non si vedono. C’è il trauma della perdita… di quotidianità, di scenari conosciuti, di prevedibilità e di routine. C’è la perdita di una lingua madre in favore di lingue che non si conoscono affatto o che si conoscono a malapena, se si è avuta la fortuna di essere minimamente scolarizzati. C’è la perdita, spesso drammatica e violenta, degli adulti di riferimento. Quelli deputati a proteggere e che, venendo a mancare, costringono ad un’adultizzazione precoce figlia di un istinto di sopravvivenza che resta, difesa estrema per quel minore.
Ai vissuti di lutto plurimi si vanno a sommare le altre esperienze con cui ci si trova a fare i conti durante il viaggio -abusi fisici, psichici, sessuali, deprivazioni, violenza assistita, morte assistita, per elencarne solo alcuni- che impatteranno sulla psiche in modo inversamente proporzionale all’età: più si è piccoli/giovani, più gli effetti di un trauma saranno devastanti e disgreganti. Alcuni minori arrivano soli e non hanno più nemmeno le parole. Muti, insonni, ipercinetici, con sintomi intrusivi negli occhi e nelle orecchie, “prego perché taccia la sirena che ho nella testa”, ha detto una bambina ad una volontaria di Save the Children, in questi giorni. Quelli che arrivano sono comunque i più fortunati, perché ci sono anche quelli che non arrivano mai, non solo perché muoiono ma perché scompaiono. Sta accadendo anche adesso, difficile stabilirne un numero esatto.
Non dimentico. Non voglio dimenticare.
Gli amici curdi con i quali mi intrattenevo a chiacchierare in un centro di accoglienza, uno lo aiutavo con i quiz di scuola guida, con un altro parlavo di tutto, ascoltando i suoi racconti sull’università interrotta a forza, sulla lingua turca imposta e su quella curda proibita, sulla bellezza di Istanbul, sull’Ararat e su Öcalan. Di tanto in tanto, Ö. mi parlava in turco perché sapeva che avevo curiosità per quella lingua e, poi, aggiungeva sempre: “anladın?” (hai capito?). Io capivo solo i saluti, cui rispondevo, insieme a grazie o molte grazie, agli aggettivi e a qualche parola comune. Te la puoi cavare, sai, con gli aggettivi? Se vuoi ordinare qualcosa, lo puoi indicare e dire: “questo”, oppure: “quello”. Sorridevo. Sorridevo sempre, anche se era la prima volta che vedevo segni di tortura sopra ad un corpo, il suo. Me ne tornavo a casa continuando a pensare: “perché?”.
Potrei raccontarvi la gioia di Michael, eritreo, nell’esibirmi il primo documento della sua vita, quella carta di identità italiana che, incidendo con l’inchiostro il suo nome e cognome, aveva decretato la sua esistenza in questo mondo. Oppure parlarvi di Sikandar, l’afgano arrivato a piedi -milioni di passi- analfabeta, per diventare, in pochissimi mesi, più bravo di alcuni italiani, nell’uso dei congiuntivi. Aveva una naturale propensione per l’apprendimento, era commovente. E faceva arrabbiare il fatto che a lui bambino fosse stata negata la scuola, un diritto che da questa parte di mondo viene dato, troppo spesso, per scontato.
Vi potrei parlare dell’ostinato silenzio con cui le donne africane celano le violenze sessuali regolarmente subite in Libia, oppure della follia dissociativa e post-traumatica di un giovane iraniano e della fatica che facevamo con i colleghi dello Sprar a contenerlo, mentalmente e fisicamente, perché si dimenava come un ossesso quando si dissociava, sbattendo il corpo contro le pareti, talvolta ferendosi. Potrei raccontarvi della ritualità ossessiva con cui Bamba si batteva il petto ripetendo in inglese il suo nome e cognome, ogni qualvolta iniziavamo a parlare: “Sono M. Bamba, sono M. Bamba”, -sono io, io e non un altro, io e non un mucchio di clandestini arrivati sopra ad una costa, sono io, M.B.
Questo diceva quell’ossessiva ripetizione di nome e cognome, unico baluardo a difesa di un’individualità che -privata di tutto, se non del nome e di un braccialetto ricordo della madre che porta sempre al polso sinistro, - resisteva, opponendosi alla spersonalizzazione che tutti i nomi collettivi (i clandestini, per esempio) comportano. Ma quella cantilena ripetuta fino allo sfinimento e quel petto battuto ritmicamente rispondono ad un bisogno più profondo, mantenere intera la sua identità e coesi tutti i suoi pezzi, l’integrità del Sé. Toccarsi equivaleva a dirsi: io ci sono (ancora).
Vi dovrei raccontare la ricostruzione paziente, dolorosa e chirurgica, mai più lenta né più veloce del ritmo di narrazione che il malcapitato desiderava imprimergli, con la quale mettevamo insieme pezzi di storie, di viaggi, di violenze e di torture: tutto si ferma, resta sospesa l’aria e anche il tempo, quando un trauma si riattualizza, restano sospesi gli sguardi, le lacrime agli angoli degli occhi… io muovo i miei, tra lo schermo del pc, la persona che ho davanti e il mediatore che ho di lato. Sono preziosi, i mediatori, indispensabili: sono le mie labbra, le mie parole e le mie orecchie e mi restituiscono tutto, anche il turbamento che l’ascolto di quelle storie genera loro. In loro e, ovviamente, anche in me.
Ci siamo. Questa è l’idea che deve passare.
Se possiamo ascoltarlo, contenerlo ed accoglierlo noi, tu lo puoi raccontare: a volte non c’è nulla altro da fare, per quelle cicatrici della pelle e dell’anima, devi accarezzare l’orrore con lo sguardo e accoglierlo con le orecchie, è il più alto dei riconoscimenti, per un rifugiato che voglia parlare. Non è sempre così, spesso l’indicibile resta dentro, incastonato e fermo, “dans ma tête”, mi diceva sempre Kiss, un giovane africano che beveva troppo per sopportare le immagini del sangue che arrivavano spontaneamente, irrompendo nella quotidianità e violando notti difficilissime da inanellare, cornici di insonnie multiple e successive. Una volta, un ragazzo iraniano ha tirato fuori il telefonino e ci ha mostrato il cugino morto, disteso sul tavolo gelido di una qualche morgue. Lui lo guardava di tanto in tanto, nell’arco della giornata ed era fondamentale che lo guardassimo anche noi, io e la mediatrice. Perché a noi? No, quella volta no, non l’ho pensato. Ad un certo punto, non lo pensi più. Pensi a fare il possibile, quel che si può. Spessissimo, è già molto di più di quel che ad altri di loro non toccherà mai.
Dunque, capirete il disagio che provo. Il contrasto interno che avverto, come una nota stonata che non smette di suonare. Capirete perché allo scoppio del conflitto in Ucraina non ho pensato al gas, né al grano, non ho pensato alle armi chimiche, né alle centrali nucleari, io ho pensato alle persone. A tutti i profughi che sarebbero arrivati, a coloro i quali non sarebbero potuti restare per lungo tempo nella metropolitana o nei bunker. E ho pensato a quanto tutto questo avrebbe trovato l’Europa assolutamente impreparata ad impedirlo e, in alternativa, ad offrire un’accoglienza che fosse minimamente degna delle difficoltà che ci troveremo davanti per mesi. Vorrei sbagliarmi.
Non sarà l’offerta, seppur concreta, importante ed assolutamente necessaria, di un tetto sopra la testa per qualche giorno. Non basteranno le coperte, né la festosa accoglienza riservata da una scuola a due bambini ucraini che ne varcano la soglia, come abbiamo visto in un filmato divenuto virale, qui in Italia. Piccoli. Probabilmente traumatizzati. Sicuramente spaventati e disorientati dalla non conoscenza del contesto e della lingua.
Quanti bambini arriveranno, nelle nostre scuole? Siamo in grado di offrire servizi a tutti? Parlo di cose necessarie, il posto nel pulmino o in un asilo nido, qualcuno che li possa seguire in un inserimento scolastico che ha delle caratteristiche molto particolari. Di quali bisogni saranno portatori e quali risorse saremo in grado di attivare? Quanto è preparato uno specifico contesto locale all’accoglienza di profughi? Non dico in emergenza, no e non mi riferisco alla preparazione tecnica di quell’associazionismo che già lavora nel campo. Parlo di costruire processi di accoglienza nel medio e lungo termine, lavorando congiuntamente anche con la società civile, considerando anche tutti i cittadini italiani che versano in situazioni di bisogno e che non andranno lasciati preda di facili e strumentali razzismi o forme di rabbia che facilmente emergono quando le persone vengono messe in condizione di competere tra chi ha più diritti e chi meno.
Mi fermo. Perché non voglio invadere campi che non sono di mia pertinenza e perché la protezione civile ha diffuso, proprio in queste ore, le linee guida per l’accoglienza di queste persone. Ancora straordinaria. Vedremo.
Dal canto mio, mi preme sottolineare la delicatezza della condizione psicologica delle persone in arrivo, di queste donne, bambini e uomini anziani (per la maggior parte è così, come confermato anche dal capo della P.C., Fabrizio Curcio) che hanno dovuto da un giorno all’altro stravolgere le loro vite, lasciando tutto.
Facciamo così fatica -da aquilani- ad immaginarcelo? Non credo. E noi, comunque, pur avendo avuto le fratture della terra sotto ai piedi e le famiglie spezzate, non abbiamo vissuto le bombe sopra alla testa, né le sirene nelle orecchie. Pur essendo anche noi esposti ad una serie di eventi traumatizzanti, abbiamo conservato la speranza di un ritorno che ci ha tenuto saldi. Abbiamo convissuto con la sospensione di un rientro che, seppur di lunga attesa per qualcuno, era comunque pensabile, nel tempo. Diverso lo scenario, per i profughi. Diverse le condizioni cui saranno sottesi quei rientri o ricongiungimenti familiari, ancora difficilissimi, anche solo da poter immaginare, per gli ucraini.
Ci aspettano mesi intensi. Mai dimenticando che continueranno ad arrivare anche tutti gli altri, quelli dalla pelle non bianca: lasciarli indietro sarebbe una scelta criminale e anche assolutamente controproducente per i nostri territori e le nostre comunità locali. Pensiamoci.
È questa la vera sfida, è questo che distinguerà -in questo caso sì, è bene fare distinzioni- la carità emergenziale da un’accoglienza integrata che possa rivelarsi un’occasione di crescita ed arricchimento reciproco. E non penso al denaro, no… non al business con cui qualcuno sta già sperando di potersi arricchire. Resto, con gran fatica, un’idealista.
Non mi rimane che aggiungere, congiuntamente alla condanna assoluta di quanto è in atto, l’augurio di una Pace che non sarà mai abbastanza invocata. Una pace che, ne sono convinta, passa anche attraverso la costruzione di una società civile migliore.
*Ilaria Carosi
Psicologa-Psicoterapeuta