A dieci anni dalla storica sentenza del giudice Marco Billi, con la condanna a 6 anni di carcere per omicidio colposo e lesioni inflitta ai sette imputati, esperti e scienziati di fama, è stato presentato a Casaonna il libro "Tranquilli" di Alberto Orsini che racconta la cronaca giornalistica di quel procedimento,
“Le società più evolute hanno un sistema di analisi del rischio per proteggersi e non andare incontro a fari spenti agli eventi. Segue una fase di controllo e riflessione, quella giudiziaria, e ci si deve interrogare: l’analisi è stata fatta bene? Questo non vuol dire processare la scienza. In quest’ottica, il processo alla Commissione Grandi Rischi è stata un’occasione storica e, in gran parte, persa”.
Lo ha affermato il giudice del tribunale dell’Aquila, Marco Billi, autore della sentenza di primo grado nel processo alla Commissione Grandi Rischi celebrato nel capoluogo abruzzese dopo il terremoto 2009, nel corso della presentazione - presso la struttura Casa Onna nell’omonima frazione dell’Aquila - del volume “Tranquilli” di Alberto Orsini (Edizioni Mondo Nuovo-AbruzzoWeb, 370 pagine, 18 euro).
La pubblicazione fa un’estesa cronaca giornalistica proprio di quel procedimento giudiziario, che giunse a una prima conclusione nell’ottobre 2012 con la condanna a 6 anni di carcere per omicidio colposo e lesioni inflitta ai sette imputati, esperti e scienziati di fama.
Una sentenza, quella firmata dal giudice Billi, poi riformata in Appello e Cassazione. E nel decennale di quel verdetto, il magistrato, ospite dell’evento, ha fatto il punto sull’eredità di quel complesso e articolato capitolo giudiziario assieme all’autore e al giornalista Giustino Parisse, moderatore dell’incontro.
“Ho scritto questo libro come documento storico - ha spiegato l’autore Orsini -. Una testimonianza da lasciare alla pubblica opinione e alla città dell’Aquila. Tutti conoscono il processo, ma il volume offre la possibilità di accostarsi in modo semplice a materiale di norma inaccessibile, racchiuso in centinaia di faldoni dentro archivi non consultabili. A livello personale, riversarlo su carta è stato catartico: mi sono in qualche modo liberato di una vicenda che è tra le tappe più importanti della mia vita e della mia carriera”. In avvio l’autore ha riepilogato la “sentenza Billi”, articolata in oltre mille pagine, con una serie di slide per sintetizzare gli aspetti nodali della riunione: dalle contraddizioni riscontrate nelle valutazioni scientifiche degli imputati agli obblighi di informazione diretta che la Commissione assunse nei confronti della popolazione, fino al “bicchiere di vino” citato dall’unico condannato in via definitiva a 2 anni, Bernardo De Bernardinis, come metafora rassicurante in relazione allo sciame sismico che precedette la scossa delle 3.32. Bicchiere di vino divenuto simbolo del processo che, pertanto, campeggia nella copertina del volume. Orsini ha rimarcato che “il giudice monocratico decide da solo e tale aggettivo calza particolarmente bene a questa vicenda, in cui Billi è stato solo dall’inizio alla fine. Specialmente quando la sua sentenza è stata attaccata da una sfilza interminabile di reazioni politiche - ha ricordato - a partire dalla seconda e terza carica dello Stato, ovvero i presidenti di allora delle due Camere, che auspicavano una correzione nei successivi gradi di giudizio che poi in effetti è avvenuta”.
Sul punto, il giudice Billi ha fatto presente che “noi magistrati siamo abituati a ricevere insulti dalle parti insoddisfatte di una decisione presa, ma mi ha lasciato l’amaro in bocca l’uso di parole forti da parte di due altissime personalità dello Stato. E lo hanno fatto nell’immediatezza del dispositivo, senza avere la possibilità di leggere le motivazioni - ha rimarcato -. Liquidare con frasette irrisorie chi al processo Grandi Rischi aveva dedicato un anno e mille pagine del proprio lavoro non mi sembra sia un atteggiamento di maturità culturale, giungendo non dall’uomo della strada, ma delle istituzioni. Significa che non siamo in grado di accettare che lo Stato metta in discussione se stesso e uno Stato così non ha futuro”. “Quando il giorno dopo la lettura del dispositivo venni coperto da una valanga di insulti - ha proseguito ancora il magistrato - ho capito che avrei dovuto spendere qualche parola in più nella motivazione perché dovevo essere chiaro e far capire che non fossi impazzito né stessi improvvisando. Il nostro sistema di giudizio, tuttavia, prevede tre gradi e non ci si può accontentare del primo ritenendolo un verbo”, ha ammonito in relazione alle contestazioni della cittadinanza alle sentenze successive che hanno in gran parte ribaltato la sua. Parisse ha evidenziato un aspetto successivo
“Questo processo, al di là di com’è finito in Appello e Cassazione, rappresenta un elemento simbolico del terremoto dell’Aquila che incide anche nella storia della Protezione civile italiana: non è più un’entità che deve intervenire dopo, ma anche quella che si occupa del prima - ha precisato -. Prima del 6 aprile 2009 i piani di protezione civile dei Comuni erano ridicoli, dei documenti fantasma. Da allora si ragiona in maniera diversa. Ho scoperto sul sito del Comune dell’Aquila una prossima iniziativa che, finalmente, prevede una campagna di comunicazione per spiegare alla popolazione come funzionano i piani di protezione civile”.
Sollecitato ancora sull’importanza di un processo storico, il giudice di primo grado ha ricordato che “per la prima volta si è affermata la possibilità di riconoscere la causalità psichica sui reati colposi. Mai c’era stato, in Italia, un simile precedente giurisprudenziale. Ma c’è anche un aspetto umano: ricostruire il collegamento psicologico e il condizionamento che determinate frasi possono svolgere sui singoli è molto complicato, soprattutto in questo caso in cui le persone condizionate non potevano essere interrogate perché decedute nei crolli. Abbiamo sentito i familiari e nelle pagine, caso per caso, ho riportato le parole virgolettate di questa emersione del personale e dell’intimo di quanto successo, quella notte, nelle singole famiglie”. “È stato possibile accertare il nesso causale solo in quanto la scossa del 6 aprile c’è stata una settimana dopo la riunione: se fosse avvenuta a distanza di mesi, sarebbe stato impossibile capire perché il singolo era rimasto in casa - ha ammesso in seguito -
A una settimana, invece, quel messaggio poteva ancora dispiegare effetti e lo ha ritenuto anche la Cassazione: altrimenti non avrebbe condannato De Bernardinis in via definitiva”. In conclusione è intervenuto anche il chirurgo aquilano Vincenzo Vittorini, che ha perso due familiari nel terremoto 2009 e si è costituito parte civile del processo, lanciando una proposta. “Portiamo in giro per l’Italia il racconto del processo alla Commissione Grandi Rischi: nelle nostre aule e nelle pagine di questo libro c’è tutta la verità sulla vicenda e io vorrei farla conoscere insieme a voi in un tour di memoria, verità e giustizia”.