"Avevo fotografato L'Aquila nel 1995 e nel 2000. Poi, gli stessi amici che mi avevano invitato allora, mi chiamarono di nuovo, per documentare cosa era stato il sisma. Arrivai in città due anni e mezzo dopo il terremoto, per raccontare con le mie foto il dolore, ma anche la tenacia e la volontà di ripartire degli aquilani nonostante lo Stato non avesse fatto quasi nulla: in centro storico, non era stato fatto assolutamente nulla".
Così Gianni Berengo Gardin, tra i maggiori fotoreporter italiani, ha raccontato L'Aquila e il suo lavoro in città, ospite degli appuntamenti della 'Repubblica delle Idee', nel week end, a Pescara. Berengo Gardin ha spiegato la genesi del suo libro del 2012, 'L'Aquila prima e dopo': non certo un reportage, piuttosto un'inchiesta costruita nel tempo, nell'arco di quindici anni, prima e dopo il sisma, appunto.
A colpire il fotografo, la sensazione che mentre tutto era ancora fermo - niente cantieri, ancora macerie e, ai balconi i panni stesi come alle 3:32 del 6 aprile - la gente avesse voglia di 'fare', di rialzarsi dalla polvere di rabbia e dalla fame di ricchezza di chi ha sfruttato tangenti, appalti gonfiati e bilanci truccati.
Le immagini del libro parlano la lingua del reportage classico, del prelievo meticoloso e rispettoso del reale, ma non sono mai neutrali. Berengo Gardin ha immortalato operai, famiglie, luoghi e oggetti intimi. E, dietro ogni scatto, la collaborazione e la partecipazione di chi, quella storia, l'ha vissuta sulla pelle. "Le persone che fotografo non devono subire lo scatto come violenza: sono collaboratori attivi del mio lavoro di documentazione, che vuole essere cronaca e denuncia. Non sono convinto, come si dice spesso, che le immagini parlino da sole", ha aggiunto. "A mio avviso, hanno sempre bisogno di essere specificate. Le fotografie mostrano le conseguenze, le parole servono per indagare le cause di ciò che è accaduto". Quindi la corruzione e il malaffare, lo sperpero di soldi e le lungaggini burocratiche che hanno costretto migliaia di persone a vivere in case costruite in zone isolate, senza negozi e servizi.
Un racconto che resterà per chi viene dopo di noi, a ricordo di quello che sta per sparire o è sparito: "Anche le immagini più scioccanti, dopo quattro giorni spariscono dalla memoria della gente e l'egoismo ci abitua a superare il trauma, che così diventa abitudine". Ma, spiega Gardin, il "lavoro sociale che svolgo punta a un miglioramento dei fotografati, racchiudendo emozioni e situazioni che, magari, a parole sarebbe difficile raccontare".