A colloquio con l'avvocato

A colloquio con l'avvocato (33)

Il decreto legge 23 dicembre 2013 n. 146, convertito in legge in data 21 febbraio 2014 n. 10, ha modificato il comma 5 del noto articolo 73 del D.P.R. n.309/90. Tale norma punisce a vario titolo chiunque persona coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre , cede, commercia o consegna sostanze stupefacenti, considerati tali dal Decreto del Ministro della Sanità.

Il comma 1 bis dell'art. 73 punisce, altresì, anche chi detiene le sostanze stupefacenti ovvero medicinali contenenti sostanze stupefacenti oltre i limiti stabiliti dal già nominato Decreto ministeriale. Il primo comma, quindi, punisce la commercializzazione delle droghe, mentre il comma 1 bis reprime la condotta del soggetto che detiene, a fini personali, un quantitativo eccessivo di sostanza stupefacente.

Il comma 5 dell'art. 73, invece, riconosceva che "quando, per i mezzi, le modalità o le circostanze dell'azione, ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da 3.000,00 a 26 mila euro". In questo caso: ci troviamo dinanzi ad una circostanza attenuante (della lieve entità del fatto) ovvero ad una fattispecie autonoma di reato, inserita, però, nella stessa rubrica dell'art. 73 DPR 309/90?

Il problema che si è posto il Legislatore nel 2013 era il seguente: nella maggior parte dei casi il giudice non teneva conto del fatto di lieve entità, non ponendo il giudizio di comparazione tra circostanze attenuanti e aggravanti , irrogando, così, sanzioni molto più severe. Per questa ragione, il Legislatore, nel 2013, ha voluto modificare il comma 5 dell'art. 73 DPR 309/90, con interventi volti ad ottenere una diminuzione della popolazione carceraria e disciplinando il fatto di lieve entità come fattispecie autonoma di reato.

Prevedendo il novellato comma 5, il Legislatore ha previsto un'uniformità del trattamento sanzionatorio: vengono punite con pene diverse i fatti di reato che rientrano nelle tabelle predisposte dal Ministero della Sanità, ma vengono puniti in maniera indifferenziata i fatti di c.d. "lieve entità". L'entità della pena (da uno a cinque anni) consente al Giudice di poter adattare il fatto al caso concreto, tenendo in debita considerazione ad esempio la tipologia di sostanza stupefacente, ovvero se essa era contenuta o meno in un medicinale. Ricapitolando: se un soggetto ponga in essere una condotta di cessione di sostanza stupefacente, esso non risponde più del reato più grave di cui al comma 1 dell'art.73, con eventuale concessione dell'attenuante della lieve entità del fatto, bensì del reato meno grave di cui al comma 5 del medesimo articolo.

Con la legge 10/14, il legislatore ha modificato il comma 5 dell'art. 73 DPR 309/90, prevedendo una fattispecie autonoma di reato che è così idonea ad imporre retroattivamente anche l'applicazione del termine prescrizionale di sei anni di cui all'art. 157 c.p.

Infatti, come ricorda la Cassazione in una recente sentenza, la nuova disciplina si applicherà anche ai fatti commessi sotto la legge previgente, in quanto la norma così modificata risulta più favorevole al reo ed, inoltre, dovrà essere considerato illegale il trattamento sanzionatorio comminato con sentenza di condanna non passata in giudicato, laddove il calcolo della pena sia partito da una pena superiore a cinque anni.

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Venerdì, 12 Settembre 2014 10:26

Si può risarcire il danno da fumo?

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Il 31 luglio 2014, il Tribunale di Milano ha pronunciato un evidente sì al risarcimento del danno da fumo, condannando la British American Tobacco s.p.a. a risarcire il danno da fumo agli eredi di un fumatore, morto di cancro ai polmoni alla prematura età di 54 anni.

Il Giudice lombardo ha riconosciuto il nesso causale tra il consumo  del tabacco e l'evento lesivo morte ed ha precisato che la conoscenza dei rischi del fumo ( in capo al fumatore) non esonera da responsabilità le ditte di sigarette, in quanto esercenti attività pericolosa ex art. 2050 c.c.

La BAT s.p.a. è stata condannata al pagamento dei danni derivanti da responsabilità extracontrattuale per un ammontare di euro 800.000,00.

La vicenda riguardava il decesso di un uomo avvenuto nel 2004, a seguito di tumore polmonare, conseguenza di un costante consumo di sigarette (a partire dall'anno 1965). A seguito dell'evento morte, gli eredi chiedevano il risarcimento danni all'Ente Tabacchi Italiani, e successivamente al British American Tobacco, subentrato al primo in tutti rapporti attivi e passivi.

Il Tribunale, riconoscendo tale attività quale pericolosa, ha ritenuto che gli attori dovevano provare soltanto il nesso causale tra il consumo di sigarette e l'evento lesivo, e ciò si poteva provare anche tramite consulenza tecnica di ufficio da espletarsi nel corso del giudizio. Il produttore di sigarette, invece, ai sensi dell'art. 2050 c.c., doveva dimostrare di aver messo in atto tutte le cautele necessarie per evitare il danno e quindi di aver fornito adeguate informazioni sulla nocività del fumo, anche attraverso messaggi illustrati sui pacchetti di sigarette.

Secondo il Tribunale di Milano, soltanto nel 1991 (anno in cui divenne obbligatoria l'informativa sui pacchetti di sigarette) si è avuta contezza dei rischi di nocività e di letalità del fumo ed inoltre la stessa CTU ritenne sussistente il nesso di causalità tra il consumo di sigarette del de cuius e l'evento morte.

I Giudici di Milano hanno condannato la BAT s.p.a., proprio sulla base del fatto che i 26-27 anni in cui l'uomo aveva fumato sigarette (cioè sino all'entrata in vigore della legge del '91) erano più rilevanti dei successivi 13-14 anni.

A tal fine, il Tribunale ha risarcito ai prossimi congiunti il danno da perdita parentale ed il danno da invalidità derivata al defunto.
Tale sentenza ha chiarito, forse definitivamente, in quali termini è possibile il risarcimento del danno da fumo, ma la giurisprudenza non è mai stata così pacifica.

Infatti nel 2000, il Tribunale di Roma rigettò la domanda degli eredi di un fumatore poiché “l'attività di produzione di sigarette non è attività pericolosa, ma la potenzialità dannosa deriva dall'uso reiterato da parte del consumatore”, ed ancora nel 2004, il Tribunale di Napoli rigettò la citazione degli attori in quanto “si deve escludere che la vendita di sigarette costituisca attività pericolosa, perché il rischio è connesso al non corretto uso che ne fa il consumatore”.

Nel 2007, però, la Cassazione statuì che "è risarcibile il danno da fumo, laddove la vittima sia morta a causa della neoplasia polmonare ed ai fini risarcitori si dovrà tener presente di tutti i danni eziologicamente collegati", cioè la Suprema Corte ritiene che una volta riconosciuto il nesso causale tra il consumo di sigarette e l'evento morte, i produttori di tabacco sono responsabili, in quanto esercitano un'attività pericolosa, perché non hanno adeguatamente informato i consumatori dei rischi ad esso connessi.

Tale principio è poi stato ribadito da un'altra sentenza della Cassazione del 2009. Una parte della dottrina, invece, contesta l'ammissibilità del risarcimento sulla base del fatto che i consumatori sono stati sempre ben consapevoli dei rischi del fumo e soprattutto perché ai sensi dell'art. 1227 c.c. 2° comma, “ il risarcimento non è dovuto  per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”.

Ad ogni modo, seppure il dibattito dottrinale arriva a conclusioni opposte, la giurisprudenza più recente (e non ultima quella del Tribunale di Milano del 2014) ha ritenuto che il comportamento delle ditte di tabacco è stato sempre ingannevole , colpevole e doloso.

Non bisogna meravigliarsi dinanzi ai principi enunciati sia dai Tribunali di merito che dalla Cassazione, poiché basti pensare che negli Stati Uniti il danno da fumo era stato già risarcito a partire dagli anni novanta.

L'argomento che tratteremo è di estrema attualità ed è sempre stato al centro delle polemiche tra le forze politiche per la copertura di posti direzionali.

Il termine spoil system trae origine dal diritto statunitense che prevede allo schieramento politico vincente di occupare tutti i posti dell'apparato politico, dopo aver licenziato i precedenti occupati.

Questo istituto ha generato non pochi dubbi di costituzionalità e la prima questione risale al giugno 2005, quando venne sollevata la questione di legittimità costituzionale in merito alla legge della Regione Calabria. La Corte Costituzionale dichiarò infondata tale questione sulla base del fatto che la legge regionale riguardasse soltanto i dirigenti apicali e non quelli intermedi, in quanto la nomina dei primi avviene intuitu personae, cioè attraverso il meccanismo che consente alla coalizione politica vincitrice di scegliere i dirigenti ed imporre la gestione di quell'apparato pubblicistico.

La Corte Costituzionale ha ritenuto coerente il sistema dello spoil system con il nostro ordinamento e precisamente con l'art. 97 Cost. sulla base di due criteri, il primo è che  la nomina dei nuovi dirigenti  riguardi organi di vertice della P.A.; la seconda è che essi siano nominati intuitu personae, cioè sulla base di valutazioni personali da parte degli indirizzi politici.
Controversa è stato l'utilizzo dello spoil system nel settore sanitario: nel 2006, la Corte Costituzionale ritenne infondata la questione di legittimità costituzionale. Il caso riguardava la decadenza di un direttore generale dell'ASL regionale e la Corte reputava che si potesse applicare l'istituto dello spoil system sulla base della natura politico fiduciaria con il vertice regionale titolare del potere di nomina.

Senonché già nel 2007, la Corte Costituzionale attuò un vero e proprio revirement ed  ebbe l'occasione di tornare sull'argomento con ben due sentenze ravvicinate.
Nella prima sentenza (la n.103), la Corte dichiarò illegittimo l'art. 3 co.7 della legge n.145/02, nella parte in cui dispone che “gli incarichi dirigenziali di livello generale cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge”; in buona sostanza, la Consulta  sanzionò un meccanismo di decadenza automatica che prescindeva da una valutazione di efficacia ed efficienza della gestione.

Successivamente, con sentenza n.104 del 2007, la stessa Corte dichiarò costituzionalmente illegittima la legge della Regione Lazio che estendeva oltre modo il meccanismo dello spoil system ad organi non apicali, tra cui la figura del direttore generale dell'ASL.
Quest'ultimo, secondo la Consulta, non può considerarsi organo apicale, poiché è una figura tecnico professionale che ha il compito di perseguire gli obiettivi gestionali definiti dal piano sanitario regionale. Esso, cioè, non collabora direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico, dovendone, al contrario, garantire l'attuazione e perciò viene scelto sulla base di criteri oggettivi e qualitativi professionali e del merito.

Sulla base di tale indirizzo, cioè, il direttore generale dell'ASL non può essere rimosso, una volta che la compagine politica cambia al vertice della Regione, ma vi è di più: infatti, la giurisprudenza della Consulta ritiene non applicabile il meccanismo dello spoil system anche nei confronti del direttore amministrativo e del direttore sanitario, poiché anche essi non sono considerati né organi apicali, né di stretta nomina da parte della coalizione politica vincente.

Infine, nel 2011, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di un decreto legislativo che consentiva un meccanismo di decadenza automatica a dirigenti non apicali, nominati per le loro comprovate qualifiche professionali, questa disposizione normativa viola senza alcun dubbio i principi costituzionali di buon andamento, imparzialità e di continuità dell'azione amministrativa.

Alla luce di quanto affermato dalla Corte Costituzionale, non sono ammissibili cause di cessazione dell'incarico dirigenziale all'infuori di quelle legislativamente previste e pertanto, la necessità per i direttori generali di un accertamento oggettivo dei risultati conseguiti determina l'inapplicabilità del meccanismo dello spoil system.

Nei mesi passati, su NewsTown, è apparsa la notizia secondo la quale il 76% delle quote della società Accord Phoenix, che si dovrà insediare nel polo elettronico dell'ex Italtel, sia di proprietà di un trust cipriota.


Ci chiediamo a questo punto: ma che cosa è il trust? E quale fondamento può trovare nel nostro ordinamento?

Il Trust è un istituto di matrice anglosassone in forza del quale un soggetto (detto settlor) trasferisce uno o più beni ad un soggetto fiduciario (detto trustee), il quale si obbliga a gestire questi beni nell'interesse di un terzo (detto beneficiario). Il trasferimento potrà avvenire tramite atto inter vivos o anche mortis causa.

Il trust è disciplinato dalla Convenzione dell'Aja del 1 luglio 1985, recepita nel nostro ordinamento soltanto con legge n. 364/89. I vantaggi di tale istituto sono alquanto indiscussi: infatti, esso dà luogo ad una vera e propria destinazione del patrimonio ad uno scopo, con la contestuale segregazione tra i patrimoni del trust e quelli del trustee e settlor, cioè i beni entrano nel patrimonio del trustee, senza che questi sia proprietario degli stessi, ma esso diventa amministratore o gestore dei beni sotto le direttive del costituente.

Le conseguenze del fenomeno segregativo sono almeno due: la prima è che vi è un'effettiva separazione tra i beni oggetto di trust rispetto agli altri beni del settlor e trustee, ed in secondo luogo, i beni oggetto del trust sono sottratti all'aggressione dei creditori del trustee e del settlor, quindi il patrimonio separato può essere aggredito soltanto dai creditori del trust.

Sono molteplici le applicazioni pratiche di tale istituto: ad esempio, i genitori per garantire una vita dignitosa ad un soggetto diversamente abile, potranno costituire un trust che sarà amministrato e gestito da una persona di fiducia (il c.d. trustee), e gli stessi genitori, in caso di morte, potranno attribuire a trustee l'obbligo di garantire al proprio figlio cure ed aiuti ovvero di vigilare sull'istituto di cura.

Così anche il professionista, per evitare le richieste di risarcimento danni da parte dei clienti per la sua attività, potrà istituire un trust, raggiungendo una concreta separazione tra il patrimonio del professionista e quello del  trust, regolando, all'uopo, le modalità con cui il disponente possa utilizzare i beni conferiti.

Infine, l'imprenditore, volendo cedere l'attività ad uno solo dei suoi figli, potrà costituire dapprima una società, alla quale saranno trasferite le quote dell'azienda, e successivamente tali azioni saranno conferite ad un trust con amministratore il figlio designato, mentre gli altri eredi potranno soltanto beneficiare degli utili di impresa.

Diciamo che l'applicazione preminente del trust si trova in ambito familiare per regolamentare i complessi rapporti patrimoniali tra i coniugi (esempio fondo patrimoniale), per disciplinare i rapporti delle coppie di fatto e per stabilire accordi in vista di separazione o divorzio, al fine garantire ad esempio l'esigenza abitativa di un figlio minorenne.

Inoltre, l'applicazione dell'istituto può trovare collocazione nell'ambito di procedure fallimentari, con la quale il curatore può farsi autorizzare dal giudice a costituire un trust, al fine di recuperare alla massa i crediti fiscali che normalmente vengono abbandonati dai curatori, oppure nel caso di omologazione del concordato preventivo, può essere costituito un trust al fine di soddisfare i creditori.

L'istituto appena descritto può trovare cittadinanza nel nostro ordinamento, attesa la mancanza di una norma che lo disciplina?

Su tale problematica, giurisprudenza e dottrina si sono divise.

Mentre non vi è alcun tipo di problema al riconoscimento del trust internazionale, cioè di quello costituito tra due cittadini stranieri (es. due soggetti inglesi) con beni situati in Italia che chiedono applicarsi la legge straniera (es. inglese), poiché in tal senso soccorrono le norme non solo della Convenzione dell'Aja, ma anche delle norme di diritto internazionale privato, non è così scontato e pacifico il riconoscimento del trust interno, cioè quello costituito tra due cittadini italiani con beni situati in Italia che chiedono applicarsi la legge italiana o straniera (esempio legge inglese).

Il riconoscimento o meno del trust è collegato a doppia mandata con la trascrivibilità dello stesso nel nostro ordinamento.

Sebbene alcune pronunce di taluni Tribunali di merito del 2012 e 2014 abbiano ritenuto inammissibile un trust interno, e perciò non suscettibile di trascrizione, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il nostro ordinamento può riconoscere il trust sulla base di due motivazioni.

In primo luogo, la Convenzione dell'Aja è stata recepita con legge del 1989, e quindi per tale motivo l'ordinamento italiano ha voluto riconoscere a tutti gli effetti il trust, poiché l'art. 11 l.364/1989 recita che "un trust costituito in conformità alla legge dovrà essere riconosciuto come trust..", in secondo luogo il trust è sempre fonte di autonomia privata così come disciplinato dall'art. 1322 c.c., in terzo luogo, ai sensi dell'art, 13 della Convenzione, gli Stati potrebbero introdurre delle norme, volte ad escludere il riconoscimento del trust e ciò non è avvenuto nel nostro ordinamento: infine, non vi è alcuna norma che impedisce la trascrizione del trust, infatti l'art. 2645 ter c.c. stabilisce la possibilità di trascrivere altri atti soggetti a trascrizione "al fine di rendere opponibile a terzi il vincolo di destinazione".

In sintesi, secondo la giurisprudenza maggioritaria il trust trova piena cittadinanza nel nostro ordinamento e perciò potrà essere trascritto nel quadro "D" della nota di trascrizione, nella quale si possono inserire indicazioni integrative.

Questa rubrica nasce grazie all'apporto del quotidiano digitale NewsTown e con l'intento di aprire una conversazione ed un filo diretto tra i lettori ed il sottoscritto su alcuni temi caldi del mondo del diritto. A piedi pagina dell'articolo troverete una mail, dove i lettori potranno scrivere per chiedere ulteriori delucidazioni in merito a tali tematiche.

Sempre più negli ultimi anni, si è sentito parlare della responsabilità amministrativa del dipendente, da tenere distinta da quella penale, derivante dalla commissione di reati ovvero da quella contabile, di cui risponde chi ha il maneggio di denaro pubblico.

L'art. 28 Cost. recita che i funzionari ed i dipendenti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi civili, penali ed amministrative degli atti compiuti in violazione dei diritti e che la responsabilità civile si estende allo Stato ed ad altri enti pubblici. La Carta Costituzionale ed altre leggi speciali disciplinano non solo la responsabilità amministrativa del pubblico dipendente derivante da violazione di obblighi di servizio, ma anche la responsabilità verso terzi per i danni ingiusti causati dal dipendente. Si configura, in questo caso, una responsabilità solidale del pubblico dipendente e dello Stato, così che il danneggiato potrà chiedere il risarcimento del danno indiscriminatamente o all'uno o all'altro.

Il dipendente incorre in responsabilità amministrativa ogni qual volta egli cagioni un danno alla Pubblica Amministrazione, a causa di inosservanza con dolo o colpa grave degli obblighi di servizio. Gli elementi costitutivi di tale ipotesi di responsabilità sono quattro: il rapporto di servizio che deve legare il pubblico dipendente e alla P.A., il danno cagionato alla P.A., il nesso di causalità tra condotta ed evento, l'elemento psicologico del dolo o colpa grave.

Con la riforma degli anni '90 (e specificatamente con legge n.19/94 e 639/96), l'azione di responsabilità è stata profondamente modificata. In primo luogo, si è sancito il carattere personale della responsabilità amministrativa, e tale azione deve essere compiuta necessariamente nel termine prescrizionale di 5 anni. In secondo luogo,  la giurisdizione è affidata alla Corte dei Conti, che dovrà verificare se il danno è stato cagionato anche ad altri enti e, inoltre, se il dipendente pubblico sia rimasto nell'ambito di scelte legittime ( è preclusa alla Corte dei Conti la valutazione del merito delle scelte del pubblico dipendente). In terzo luogo, è riconosciuto il principio secondo cui, nel giudizio di responsabilità si deve tener conto dei vantaggi ottenuti dalla P.A., mentre, in quarto luogo, si è sancito il principio del rimborso delle spese legali sostenute dai soggetti privati, nel caso di assoluzione con formula piena nel processo penale.

Secondo gran parte della dottrina, tale ipotesi di responsabilità è un tertium genus oltre a quella penale e civile, con la precisa funzione di recuperare denaro all'erario e di sanzionare il pubblico dipendente nel caso di condotte in violazione del suo incarico. Come già ricordato, la giurisprudenza meno recente, in casi di responsabilità del pubblico dipendente, riteneva sussistente la giurisdizione della Corte dei Conti: era prevalsa la tesi, secondo la quale, se c'è danno erariale c'è giurisdizione contabile, facendo riferimento non tanto alla natura o qualità del soggetto che ha causato il fatto, quanto dal danno che il privato ha cagionato allo Stato. Così che si è ritenuta sussistente la giurisdizione della Corte dei Conti nell'ipotesi in cui un Assessore Regionale all'Agricoltura, in qualità del suo Ufficio, abbia imposto alla società della Centrale del Latte controllata dalla Regione indirizzi di gestione in violazione delle leggi e delle normative comunitarie, così provocando perdite eccessive.

Successivamente, la giurisprudenza ha cambiato indirizzo ed ha sostenuto che nel caso di danni subiti dalle società partecipate non si configura la giurisdizione della Corte dei Conti, perché il danno cagionato al patrimonio della società è come se il danno fosse causato ad un soggetto privato (cioè la società), e quindi il Giudice che dovrà conoscere queste cause è il Giudice ordinario.

Rientra, invece, nella giurisdizione della Corte dei Conti l'azione di responsabilità per il danno arrecato all'immagine della P.A., cioè nel caso in cui l'Amministrazione abbia subito una perdita di prestigio derivante dal comportamento di dipendenti pubblici.

Il legislatore, però, ha limitato al massimo la possibilità da parte della P.A. di agire nei confronti del privato per danno da immagine; infatti questa azione è esercitabile soltanto nei casi di reati commessi dal pubblico dipendente contro la Pubblica Amministrazione (es. peculato, abuso di ufficio, corruzione, rifiuto o omissione di atti di ufficio, etc.). Un ultimo arresto della Cassazione (n.26283/13), teso a recuperare la giurisdizione della Corte dei Conti, afferma che nel caso di danni cagionati alla società in house (cioè quelle società che svolgono la maggior parte della propria attività in favore dell'Amministrazione di cui quest'ultima esercita un controllo sulla gestione) da parte del dipendente, la giurisdizione spetta alla Corte dei Conti, perché si ha riguardo al legame stringente tra P.A. e società, così che quest'ultima agisce in una totale assenza di potere decisionale in conseguenza dell'assoggettamento della stessa ai poteri dell'ente pubblico. Si sostiene, cioè, che la società in house sia una struttura organica della Amministrazione e perciò il danno causato alla stessa diventa automaticamente un danno erariale cagionato alla stessa P.A.

Ipotesi non del tutto distinta dalla responsabilità del pubblico dipendente è la cosiddetta responsabilità dei Magistrati, della quale, però, ci occuperemo in futuro, dopo che il Parlamento deciderà se e in che modo rimodellerà tale istituto.

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