A colloquio con l'avvocato

A colloquio con l'avvocato (33)

Con sentenza n.15350 del 2015, la Cassazione a Sezioni Unite ha risolto definitivamente la querelle dottrinale e giurisprudenziale circa il risarcimento del danno tanatologico, conseguente alla lesione del diritto alla vita, quando, cioè, il soggetto danneggiato muore immediatamente o entro un breve lasso di tempo.

La questione non è di poca importanza, atteso che bisogna accertare se gli eredi possono chiedere il ristoro per la lesione del diritto alla salute ovvero anche quello per il danno al bene vita. Il fatto riguardava il decesso immediato di un'autista di un veicolo coinvolto in un incidente e per tale ragione gli eredi chiedevano il risarcimento del danno tanatologico.

In primo grado, il Tribunale riconosceva agli eredi il risarcimento del danno biologico iure proprio e non iure hereditatis, mentre in secondo grado, la Corte di Appello, aderendo al tradizionale orientamento, riteneva che gli eredi dell'autista morto possono chiedere il riconoscimento pro quota dei diritti entrati nel patrimonio del de cuius e quindi nel caso di specie essi potrebbero concretamente richiedere il risarcimento derivante dalla lesione del diritto alla salute della vittima. Con riferimento all'istituto del danno tanatologico, però, è utile ripercorrere le tesi giurisprudenziali che hanno dato vita ad un vero e proprio dibattito.

L'orientamento tradizionale riteneva non risarcibile iure hereditatis il danno tanatologico, sulla base del fatto che diversamente opinando si ammetterebbe che il risarcimento del danno per lesione al bene vita. Esso, cioè, avrebbe funzione sanzionatoria di matrice penalistica e non di reintegrazione e di riparazione, come invece il codice civile impone. Infatti, il risarcimento del danno da fatto illecito assolve ad una funzione meramente riparatoria delle conseguenze pregiudizievoli per il danneggiato con l'unico requisito che questi resti in vita e ne subisca gli effetti negativi.

Per tali ragioni, la giurisprudenza ammette il risarcimento del danno biologico terminale, quando tra lesione e la morte vi sia un apprezzabile lasso temporale (minimo tre giorni) ed il danno catastrofale che impone il risarcimento a favore del soggetto che provato da lesioni fisiche rimane lucido durante l'agonia e vede incombente la morte. Al contrario, la giurisprudenza maggioritaria non riconosce il risarcimento del danno tanatologico, quando la morte sia avvenuta immediatamente o in un breve lasso di tempo.

La Cassazione, in sostanza, applica il criterio cronologico, distinguendo così l'ipotesi morte avvenuta in un apprezzabile lasso di tempo rispetto alle lesioni e quindi trasmissibile iure hereditatis e quella invece che sia intervenuta immediatamente, non meritevole di risarcimento. Ulteriore argomento che valorizza tale tesi riposa nel fatto che quando il soggetto sia morto, questi perde la capacità giuridica, necessaria per essere titolare di diritti e quindi si arriverebbe al paradosso di una configurabilità di una situazione giuridica soggettiva adespota, cioè priva di titolare e della sua trasmissibilità agli eredi. 

Tuttavia, un orientamento recente della Cassazione sembrava aver aperto alla possibilità di risarcimento di tali diritti.

Una prima sentenza datata 2006, riteneva che la dottrina italiana ed europea riconoscono la tutela civile del bene vita, e quindi si asserisce che la morte non è mai immediata (a parte le due eccezione di decapitazione o spappolamento di cervello) ed il danno morte, così, è trasferibile mortis causa, facendo parte del diritto di credito del defunto verso il danneggiato.

Nel 2014, la Cassazione ha sostenuto che il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita è un bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile ed è garantito dall'ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile.
Secondo tale tesi, il diritto al risarcimento del danno alla vita deve essere individuato nel momento della lesione mortale inflitta – e quindi non nel momento del decesso- così che il diritto al risarcimento può essere trasferito iure hereditatis ai suoi eredi.

Questa tesi ha posto numerose problematiche: infatti, così opinando, si ammetterebbe la risarcibilità del danno tanatologico quale danno evento, escludendo l’operatività delle norme sulla causalità. Inoltre è poco convincente la tesi nella parte in cui ritiene che tale danno è risarcibile nel momento della lesione letale, ma prima del decesso il bene leso risulta essere esclusivamente la salute del soggetto.

La Cassazione a Sezioni Unite, nel 2015, sostiene l’irrisarcibilità del danno tanatologico in caso di morte immediata o nel breve lasso di tempo sotto almeno tre profili.

In primo luogo, i Supremi Giudici ritengono che con la morte, il soggetto non ha più la capacità giuridica, poiché il danneggiato, una volta deceduto, non ha più la capacità di acquistare alcun tipo di diritto. Ne consegue che "nel caso di morte cagionata da atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico vita, che costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente . La morte non rappresenta la massima offesa al bene salute, pregiudicato dalla lesione dalla quale sia derivata la morte, diverse essendo, ovviamente, le perdite di natura patrimoniale o non patrimoniale che dalla morte possono derivare ai congiunti della vittima, in quanto tali e non in quanto eredi". Poiché, dinanzi ad una perdita, vi deve essere necessariamente un soggetto legittimato a far valere la pretesa creditoria, nel danno tanatologico manca un soggetto al quale sia collegabile la perdita e che possa far valere tale diritto in giudizio.

In secondo luogo, secondo la Suprema Corte non risulta vero che negare la pretesa risarcitoria agli eredi del de cuius sarebbe in contrasto con la coscienza sociale, in quanto la lesione del diritto alla vita sarebbe priva di conseguenze civilistiche. Infatti, l’eventuale riconoscimento di una tutela risarcitoria avrebbe soltanto la peculiarità di "far conseguire più denaro ai congiunti", quando invece la tutela al diritto primario della vita sarebbe concessa dalla sanzione penale che ha quale funzione principale quella di soddisfare le esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività, senza escludere, ai sensi dell’art. 185 co.2 c.p., il risarcimento danni in favore dei soggetti lesi dal reato. Quindi, secondo la Cassazione, non è vero che in caso di ferimento del soggetto il risarcimento danni sarebbe pieno ed integrale, mentre nel caso di uccisione di una persona, mancherebbe la liquidazione del danno tanatologico ("è più conveniente uccidere che ferire"), in quanto in caso di uccisione, la tutela al soggetto leso sarebbe approntata dalla diversa entità e rilevanza delle sanzioni penali.

In ultima istanza, la Suprema Corte sostiene che non bisogna confondere il bene vita con quello della salute, perché essi sono risarcibili in maniera distinta e diversa e quindi non si potrebbe adeguatamente sostenere, come in passato ha fatto la Cassazione nel 2014, che la nascita del credito risarcitorio nascerebbe nel momento della lesione letale.

Secondo tali argomentazioni, quindi, la Cassazione ritiene che il danno tanatologico è insuscettibile di trasmissibilità iure hereditatis agli eredi del soggetto morto immediatamente o in un brevissimo lasso di tempo.

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Quali sono gli effetti del contratto di locazione stipulato solo da uno dei comproprietari? In giurisprudenza ed in dottrina è sorto un dibattito circa la legittimazione ad agire diretta da parte del soggetto comproprietario che non ha stipulato il contratto di locazione nei confronti dell’altro proprietario che ha concluso il contratto di locazione con un terzo.

Tale legittimazione può essere giustificata secondo tre orientamenti: la prima tesi riteneva che il soggetto comproprietario che aveva stipulato il contratto era assimilabile al mandatario senza rappresentanza con conseguente possibilità dell'altro soggetto comproprietario non locatore di agire per la riscossione della quota di canone.

La seconda teoria giurisprudenziale sostiene che nel caso di specie ci troviamo dinanzi all'istituto della c.d. gestione di affari. Il modus agendi del comproprietario locatore rientra nei legittimi poteri gestori derivanti dalla norma sulla comunione e pertanto non si può pregiudicare oltremodo i diritti del terzo; così che il comproprietario non locatore non potrà agire per il rilascio o la rivendica del bene, ma potrà agire nei confronti del comproprietario locatore per il risarcimento del danno.

Un terzo indirizzo ritiene che dato che vi è un'equivalenza di poteri gestori tra i due soggetti comproprietari, allora vi è una presunzione che ognuno di essi agisca con il consenso dell'altro, così che ogni comproprietario è legittimato a stipulare il contratto di locazione, senza la necessaria partecipazione degli altri.

A dirimere il contrasto giurisprudenziale, ci pensa la Cassazione a Sezione Unite, che con sentenza 11135 del 2012 ha ribadito che “il contratto di locazione dell'intero bene comune stipulato da uno solo dei conduttori è valido ed efficace senza la necessità della preventiva allegazione di un vero e proprio potere rappresentativo” in capo al soggetto locatore, e quindi la locazione può essere stipulata da uno dei proprietari anche all'insaputa degli altri, purché abbia la disponibilità del bene e sia in grado di adempiere all'obbligazione del locatore e cioè di consentire il godimento al conduttore.

Secondo tale orientamento, nel caso di specie ci troviamo dinanzi all'istituto della gestione di affari con contestuale applicazione degli artt. 2028 e ss c.c. e tale soluzione mira a contemperare gli interessi e le posizioni di tutti i soggetti coinvolti.

In conclusione, il contratto sottoscritto dal comproprietario locatore ed il suo conduttore è valido ed efficace, rilevando l'opposizione del comproprietario non locatore soltanto nell'ipotesi in cui venga manifestata e portata a conoscenza del conduttore prima della stipula del contratto e, quindi, il comproprietario non locatore potrà o ratificare il contratto con contestuale produzione degli effetti anche nei suoi confronti, ovvero potrà manifestare espressamente il dissenso circa la stipula del contratto.

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Si è parlato molto in questo periodo della causa di giustificazione della legittima difesa domiciliare e dei suoi limiti.

Secondo l'art. 52 c.p. "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa”.

Il fondamento di tale causa di giustificazione è stato dibattuto in dottrina ed in giurisprudenza: secondo una tesi, la legittima difesa troverebbe cittadinanza nel principio dell'interesse prevalente tra il bene aggredito e quello dell'aggressore, secondo un'altra tesi essa si baserebbe sul principio del bilanciamento degli interessi, infine per un'altra teoria ancora, essa si ravviserebbe in un "residuo di autotutela" delegato dallo Stato (impossibilitato ad intervenire) al privato.

Gli elementi della legittima difesa sono l'aggressione e la reazione, ma l'aggressione deve presentare i seguenti caratteri: oggetto dell'offesa deve essere solamente un diritto (comprensiva anche di interessi legittimi e della difesa di un diritto altrui), l'offesa deve essere ingiusta (contraria ai precetti dell'ordinamento) ed il pericolo deve essere attuale, cioè la probabilità di un danno deve essere incombente o anche perdurante, ed infine il pericolo non deve essere stato determinato volontariamente dall'agente, pertanto l'esimente della legittima difesa non sarà applicabile a favore di colui che si sia messo volontariamente nella situazione di pericolo.

La reazione, invece, deve possedere tre elementi: in primis, deve essere presente l'elemento della costrizione, cioè un conflitto di interessi nell'aggredito, che si deve trovare nell'alternativa di reagire o essere bloccato, in secondo luogo la reazione importa la necessità di difendersi, quale unica soluzione inevitabile ed idonea, ed, infine, la proporzione tra difesa ed offesa, che sussiste nell'ipotesi in cui il sacrificio del bene dell'aggressore non risulti arbitrario o eccessivo rispetto all'offesa.

I problemi maggiori, però, dipendono dall'interpretazione del secondo comma dell'art. 52, secondo cui nei casi di violazione di domicilio “sussiste il rapporto di proporzione se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere a) la propria o altrui incolumità b) i beni propri o altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione. La disposizione si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.

Il legislatore, quindi, presuppone una proporzionalità tra reazione ed aggressione quando l'utilizzo di un'arma sia posta in essere al fine di difendere l'incolumità propria o altrui ovvero beni , posti in pericolo da colui che si è introdotto abusivamente nel domicilio privato o nel luogo dove venga esercitata un'attività. In tali casi, si riconoscerebbe in capo al soggetto un vero e proprio "diritto all'autotutela", assimilabile all'esercizio di un diritto; ma la dottrina e la giurisprudenza si sono divise sulla natura di questa nuova ipotesi di legittima difesa.

Secondo una prima tesi, il legislatore avrebbe introdotto una nuova ipotesi speciale di legittima difesa, pertanto il contenuto ed i limiti sarebbero quelli previsti dal comma 1 dell'art. 52 , mentre l'elemento speciale deriverebbe dalla nuova formulazione dell'elemento della proporzionalità. Secondo un'altra teoria, la fattispecie di cui al comma 2 dell'art. 52 integrerebbe una vera e propria ipotesi di scriminante autonoma, ponendosi su di un piano di eterogeneità rispetto all'esimente di cui al comma 1.

Proprio il requisito della proporzionalità previsto dall'art. 52 comma 2 del codice penale ha posto numerose problematiche. In ossequio ad un orientamento giurisprudenziale, la presunzione di proporzionalità ha valore assoluto e cioè il giudice dovrà limitarsi a verificare la sussistenza dei presupposti legali prescritti dalla norma e non dovrà effettuare alcun tipo di valutazione sul rapporto di proporzionalità tra aggressione e reazione. La teoria opposta ritiene, invece, che il giudice, caso per caso, dovrà effettuare ed accertare il pericolo attuale, l'offesa ingiusta, l'inevitabilità della lesione e soprattutto la proporzionalità tra reazione ed aggressione. Quindi, il Giudice ben potrebbe ritenere sussistente l'istituto dell'eccesso di legittima difesa nell'ipotesi in cui l'agente reagisca ad un soggetto che è entrato in casa del primo commettendo il reato di violazione di domicilio.

Secondo la Cassazione del 10 gennaio 2014 n.691, per invocare la legittima difesa (anche quella domiciliare) deve sempre sussistere un'aggressione o il pericolo di un'aggressione in atto, perché secondo i Supremi Giudici "neppure il novum legislativo legittima sempre una reazione implicante l'uso indiscriminato e senza limiti delle armi, finalizzato a ledere l'incolumità dell'aggressore, bensì impone una comparazione degli interessi. Il che significa che la difesa con armi dei beni è legittima solo se vi è un rischio concreto di un pregiudizio attuale per l'incolumità fisica dell'aggredito o di altri”.

Con sentenza del 2015 n.31001, i Giudici della Cassazione, confermando l'orientamento già espresso nel 2014, hanno ritenuto l'insussistenza della legittima difesa nella condotta dell'imputato che “al termine di una colluttazione con un rapinatore che si era introdotto nel negozio della sorella si era impossessato dell'arma del ladro e l'aveva ferito mortalmente mentre quest'ultimo, avvedutosi della condizione di pericolo, aveva desistito dall'aggressione, guadagnandosi una scappatoia a distanza dall'imputato”.

L'intensità del sindacato del Giudice nelle procedure concorsuali attiene soprattutto all'istituto della discrezionalità tecnica amministrativa, cioè quando la valutazione della P.A. avviene mediante il ricorso a cognizioni tecniche-scientifiche. Sino alla fine degli anni Novanta, era precluso al Giudice Amministrativo qualsiasi tipo di verifica che attenesse a valutazione tecnico-scientifiche.

Soltanto nel 1999, il Consiglio di Stato ha ritenuto dover distinguere tra merito amministrativo (e quindi insindacabile) e discrezionalità tecnica, che è comunque oggetto di tutela da parte del G.A., in quanto la norma tecnica può comportare valutazioni di fatti suscettibili di vario apprezzamento, quando la norma contenga dei concetti indeterminati. A tale ricostruzione si è aggiunto anche il fatto che in sede di giudizio amministrativo è sempre ammissibile la consulenza tecnica di ufficio quale mezzo istruttorio volto all'accertamento dei fatti suscettibili di cognizione tecnica.

Si è così superato l'orientamento dottrinale e giurisprudenziale che riteneva che nei casi di discrezionalità tecnica il G.A. potesse esercitare un sindacato debole, al contrario si è affermata l’impostazione secondo cui il sindacato in capo al G.A. debba essere sempre pieno ed effettivo e volto alla verifica dell'attendibilità delle operazioni tecniche.

Il problema che la giurisprudenza recente si è posto riguarda il sindacato del G.A. in caso di valutazioni effettuate dalla Commissione esaminatrice in sede di procedura concorsuale. La giurisprudenza del Consiglio di Stato aveva sempre ribadito il principio della sufficienza, sotto il profilo della motivazione, dell'attribuzione di un punteggio alfa numerico, in quanto questa si configura come formula eloquente e sintetica che esterna la valutazione della commissione di esame.

Successivamente, lo stesso Consiglio di Stato ha affermato che, in linea con il principio di trasparenza, è necessario che la stessa Commissione d'esame debba esplicare l'iter logico che ha portato la stessa ad una valutazione anche negativa della prova di esame: cioè la Commissione oltre ad un punteggio numerico dovrà imporre ulteriori elementi, tali da poter ricostruire ab externo la motivazione della decisione (apposizione di note a margine, uso di segni grafici etc.).

Recentemente, però, sia il Consiglio di Stato che la Corte Costituzionale hanno di nuovo precisato l'indirizzo secondo cui è sufficiente che la Commissione giudicatrice attribuisca un punteggio alfanumerico, senza cioè ricostruire l'iter logico della motivazione, anche attraverso segni grafici all'interno del compito, purché la stessa Commissione si sia dotata di criteri valutati, predisposti prima della correzione degli elaborati.

Di certo, il Giudice Amministrativo potrà sindacare la valutazione dei compiti sotto il profilo del vizio riconducibile all'illogicità manifesta ovvero al travisamento dei fatti.

Così come, la stessa giurisprudenza amministrativa riconosce legittima la valutazione da parte della Commissione di gara di un appalto sulla base di criteri alfa numerici, purché i parametri delle singole voci siano talmente analitici da delimitare il giudizio della commissione.

L'orientamento della giurisprudenza amministrativa, però, è ancora in evoluzione, tanto è vero che il TAR della Puglia nel 2015 ha evidenziato che “il mero punteggio numerico non consente di esercitare neanche il sindacato estrinseco perché, salvo casi clamorosi, nemmeno è possibile determinare l'esistenza di quei profili sintomatici dell'eccesso di potere sulla base di un mero numero senza la possibilità di rivalutare la prova poiché ciò costituirebbe una indebita invasione nel merito amministrativo” e la mancata adozione di criteri valutativi a monte rischiano di far apparire la decisione della Commissione alquanto arbitraria. Secondo il TAR Puglia, quindi, oltre il punteggio alfanumerico, la Commissione dovrà adottare la c.d. correzione parlante.

Il Giudice di legittimità ha, pertanto, valorizzato la nuova norma, oltre la questione della sua immediata applicabilità, riconoscendo che la sopravvenienza di cui all’art. 46, L. 247/2012 permette di fondare un’interpretazione evolutiva costituzionalmente orientata della regola, al fine di non discriminare fattispecie del tutto identiche, salvo che per il dato cronologico (perché verificatesi prima o dopo l’entrata in vigore della norma). Il TAR Puglia ha accolto così il ricorso di una candidata all'esame abilitativo per l'esercizio della professione forense, ammettendola alla prova orale.

L'art. 35 del D.Lgs. 165 del 2001 prevede che l'assunzione nelle pubbliche amministrazioni possa avvenire attraverso procedure selettive, volte all'accertamento della professionalità richiesta.

Tale articolo, inoltre, specifica i principi cui devono conformarsi le procedure di reclutamento del personale e cioè: adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che garantisca imparzialità, economicità e celerità; adozione di specifici meccanismi oggettivi e trasparenti idonei a verificare il possesso dei requisiti; rispetto delle pari opportunità; decentramento delle procedure di reclutamento; composizioni delle commissioni con personalità di comprovata esperienza; assenza di pregiudizi penali specifici in relazione ai delitti dei pubblici ufficiali contro P.A.

Il successivo art. 38 del medesimo decreto stabilisce, inoltre, che a tali concorsi possono accedere anche i cittadini dell'Unione Europea ed i loro familiari anche non aventi cittadinanza in un paese dell'U.E., purché siano titolari di diritto di soggiorno permanente.

Il passaggio dalla fase di selezione a quella di costituzione del rapporto di lavoro ha un'importanza rilevante, poiché il legislatore ha affidato la scelta del contraente al diritto pubblico ed a quella di diritto privato la costituzione del rapporto, così rendendo necessaria una netta linea di confine tra tali momenti ai fini della regolamentazione del rapporto.

Sono escluse dalla disciplina le procedure di selezione che non comportano la valutazione comparativa dei candidati, garantite soltanto dal concorso.

Di certo, la regola principale cui si fonda la procedura selettiva è la scelta oggettiva dei migliori fra i candidati, posti in una situazione di uguaglianza; in questa ottica si pone la regola dell'anonimato degli elaborati redatti dai candidati durante le prove scritte, tanto è che l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha ribadito che “il criterio dell'anonimato costituisce il diretto portato del principio costituzionale di uguaglianza, nonché del buon andamento e dell'imparzialità della P.A., la quale deve operare le proprie valutazioni senza lasciare alcuno spazio a rischi di condizionamento esterni e garantendo la par condicio tra i candidati” e soprattutto non è consentito all'Amministrazione attuare forme di reclutamento basate su criteri meramente soggettivi.

Ad ogni modo, la Corte Costituzionale ha ribadito che, nell'ambito della P.A., il pubblico concorso costituisce la forma generale ed ordinaria di reclutamento, attesa la necessità di soddisfare le esigenze di imparzialità e buona andamento della P.A.

Ciò ne consegue che “la facoltà del legislatore di introdurre regole al principio del concorso pubblico deve intendersi delimitata in modo rigoroso, potendo tali deroghe essere considerate legittime solo quando siano funzionali al buon andamento della P.A. e ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico, idonee a giustificarlo” (Cons. Stato, sez. IV, 25 giugno 2013 n.3438) e quindi tali deroghe sono consentite soltanto nell'ipotesi in cui sussistano esigenze di pari rango costituzionale.

Lo stesso Consiglio di Stato, nella medesima sentenza, ha ribadito che “l'assunzione a tempo indeterminato da parte della Regione di tutto il personale precedentemente in servizio presso due società controllate, in mancanza di una procedura selettiva aperta al pubblico viola i canoni di ragionevolezza e del principio del pubblico concorso”.

Posto il principio stabilito dal Consiglio di Stato circa la possibilità di assumere il personale di società controllate della Regione, in assenza di concorso, ci chiediamo se è possibile, invece, per le P.A. stabilizzare il personale precario, assunto con contratto a tempo determinato.

In questo caso la Corte Costituzionale (sentenza n.277/2013) ha ribadito il principio del preventivo superamento di un concorso pubblico, affermando che “sono costituzionalmente illegittime le norme che dispongono stabilizzazioni di personale precario delle P.A. senza prevedere la necessità del superamento del concorso pubblico, d'altra parte deve ritenersi eccessivamente generico, al fine di autorizzare una successiva stabilizzazione senza concorso, il requisito del preventivo superamento di una qualsiasi selezione, ancorché pubblica, perché tale previsione non garantisce che la previa selezione abbia natura concorsuale e sia riferita alla tipologia e al livello delle funzioni che il personale stabilizzato è chiamato a svolgere”.

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Il reato di accesso abusivo ad un sistema informativo, previsto dall'art. 615 ter c.p., descrive due condotte punite a titolo di dolo generico: la prima è l'introduzione abusiva ad un sistema informativo protetto da misure di sicurezza per l'accesso alla conoscenza dei dati o delle informazione effettuato sia da lontano (cioè dall'hacker), ovvero da vicino (persona che si trova a diretto contatto con il pc), la seconda è il mantenersi nel sistema contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di esclusione, cioè il persistere nell'avvenuta introduzione nel sistema informatico, inizialmente autorizzata o casuale, violando le disposizioni ed i limiti posti dal titolare del sistema.

In tali casi, il reato è procedibile soltanto a querela della persona offesa; mentre il legislatore ha previsto un aggravamento della pena (reclusione da uno a cinque anni), con tanto di procedibilità di ufficio, nel caso in cui il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio con abuso di poteri o con violazione dei doveri di funzione, ovvero se il colpevole utilizza violenza sulle cose o persone, ovvero se dal fatto deriva distruzione o danneggiamento del sistema informatico o l'interruzione.

Con l'art. 615 ter c.p., in sostanza, il Legislatore ha assicurato la protezione del c.d. domicilio informatico, quale spazio ideale in cui sono contenuti i dati informatici della persona.

E' condiviso sia in dottrina che in giurisprudenza che il delitto in questione sia di mera condotta (eccettuati i casi di violenza e danneggiamento del sistema di cui al comma 2 lett.b e c.) e si perfeziona con la mera introduzione nel sistema informatico, senza sia necessaria un'effettiva lesione.

La Cassazione, con sentenza n.17325/2015, ha posto fine sul dibattito interpretativo sul locus commissi delicti in tema di accesso abusivo ad un sistema informatico.

Nel caso di specie, si faceva riferimento alla condotta di un'impiegata della motorizzazione civile di Napoli che, in concorso con altri soggetti ed al fine di poter effettuare visure elettroniche che esulavano dalle sue mansioni, si introduceva ripetutamente nel sistema informatico del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti.

Il dibattito giurisprudenziale, in merito al luogo di consumazione del reato, era articolato su di almeno due teorie: la prima riguardava il luogo ove si trovava il server, l'altra dove si trovava la residenza dell'imputato.

La Cassazione, infatti, ha dovuto risolvere un conflitto di competenza per territorio, stante il fatto che il GUP di Napoli (luogo di residenza dell'imputata) si era dichiarato incompetente in ragione dell'ubicazione della banca dati della Motorizzazione civile di Roma ed il GUP di Roma aveva sollevato conflitto negativo di competenza, poiché riteneva il luogo di consumazione fosse Napoli, cioè dove agiva il soggetto agente.

La Suprema Corte ha ritenuto che il luogo in cui si trova il server non tiene adeguatamente conto del fatto che la nozione di collocazione spaziale o fisica è completamente estranea alla circolazione dei dati in una rete di comunicazione telematica.
Per tale motivo, è preferibile secondo la Corte di Cassazione che "il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico si consumi nel luogo in cui parte il dialogo elettronico tra i sistemi interconnessi e dove le informazioni vengono trattate dal colpevole".

Di conseguenza, la stessa nozione di accesso abusivo non coincide con l'ingresso nel server fisicamente collocato in un determinato luogo, ma con l'introduzione telematica o virtuale che avviene instaurando un colloquio elettronico o circuitale con il sistema centrale e con tutti i terminali ad esso collegati.

Pertanto, secondo la Suprema Corte, la competenza è del Tribunale di Napoli, cioè del luogo dove l'imputata aveva agito, accedendo al sistema della Motorizzazione.


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Prima che entri in vigore il testo di legge sull'omicidio stradale, il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sulla guida in stato di ebbrezza è stato molto acceso, soprattutto in relazione al fatto se la condotta di chi è alla guida sotto l'effetto di alcool o di droghe sia dolosa (sub specie di dolo eventuale) o colposa con previsione.

Secondo la giurisprudenza maggioritaria per dolo eventuale si intende la condotta di chi, prevedendo la probabilità in concreto di cagionare un evento, agisce anche a costo di provocarlo, mentre la colpa cosciente si configura nell'azione di colui che, pur rappresentandosi la possibilità di cagionare un evento, sottovaluti tale eventualità, oppure sopravvaluti la capacità di controllare l'azione.

Nel 2008 un ragazzo, sotto l'influenza di alcool, aveva investito due persone ( di cui poi una deceduta), che si trovavano sul marciapiede nel centro storico di Salerno, finendo la sua corsa dinanzi ad una vetrina di un negozio. La Cassazione nel 2009 ha ritenuto che la condotta dell'imputato fosse colposa, in quanto "la giovane età del conducente", la condotta "imprudente e negligente", la propria "sicurezza nella guida, il predominio e la padronanza della strada e dell'auto", insieme allo stato di ubriachezza, hanno "ingenerato nello stesso un senso di onnipotenza che ha consentito di agire convinto di non correre rischi, confidando nelle capacità di guida".

Secondo i giudici della Suprema Corte tutte queste circostanze descritte sono indici di una condotta colposa e non dolosa, cioè di un comportamento che non si è realmente reso conto dei pericoli che poteva procurare, unicamente facendo affidamento sulla sua capacità di guida.

Nel 2011, però, la Cassazione cambia orientamento e anche in base ad una rideterminazione dei limiti tra colpa cosciente e dolo eventuale, ha sostenuto che il dolo eventuale presuppone che l'agente abbia un dubbio sulla possibilità di causare un evento delittuoso, ma lo superi positivamente accettando che esso si verifichi. Nella colpa cosciente, invece, il superamento del dubbio avviene in negativo e cioè il soggetto confida che esso non si verifichi.

Nel caso in esame dalla Suprema Corte, nonostante l'imputato fosse sotto l'influenza di alcool, e si fosse prospettato la possibilità di cagionare un evento mortale, ha agito costi quel che costi.

Nel 2012, la Cassazione è tornata a discutere dei limiti tra dolo eventuale e colpa cosciente nei riguardi di un soggetto, che alla guida di un Suv, avendo percorso l'autostrada contromano, aveva procurato un incidente nel quale erano morti quattro ragazzi. Gli ermellini, nel caso specifico, hanno ritenuto che il dolo eventuale si configura anche quando l'agente si rappresenti la semplice possibilità di cagionare un evento, mentre, addirittura quando lo stesso si rappresenti l'evento morte come conseguenza probabile, allora egli lo ha voluto e quindi la condotta integrerà una forma di dolo più intenso che è quello diretto. Nonostante, però, questa disamina, nel caso concreto, la Suprema Corte ha ritenuto sussistere il dolo eventuale e non quello diretto.

In controtendenza agli ultimi orientamenti, la Cassazione ha ritenuto, con sentenza n. 20645/13, che la condotta di un soggetto, che svegliato nella notte dal padre che gli chiedeva di prestare aiuto ad una terza persona, si metteva alla guida nonostante avesse assunto stupefacenti e complice anche l'asfalto bagnato cagionava un incidente mortale, integrasse un'ipotesi di colpa cosciente.

In questo caso, i giudici della Suprema Corte hanno sostenuto che l'imputato non si era messo alla guida, prefigurandosi l'investimento, né tanto meno aveva la convinzione di provocarlo.

In attesa del testo definitivo sull'omicidio stradale, il dibattito sulla guida in stato di ebbrezza non è ancora del tutto definito.

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L’ultima vicenda del calcio scommesse ci fa riflettere sulla responsabilità delle società sportive dinanzi ai fatti commessi dai suoi tesserati.

L’ordinamento sportivo conosce la responsabilità diretta e quella oggettiva: nella prima, la condotta criminosa è commessa dai legali rappresentanti della società (con potere di firma), in quanto vi è una vera e propria immedesimazione organica tra la società ed il socio e le sanzioni previste dal Codice di giustizia sportiva sono particolarmente severe, poiché vanno da una penalizzazione assai elevata sino alla radiazione della società sportiva; mentre la responsabilità oggettiva si configura negli atti in violazione del diritto sportivo posti in essere da dirigenti, tesserati e calciatori, e per i quali, il Codice di giustizia sportiva prevede pene meno severe, tipo penalizzazioni da scontare o nel campionato in corso o in quello successivo sino ad arrivare, però, anche alla retrocessione della squadra.

Accanto alle due figure, però, c’è anche la c.d. responsabilità presunta, caratterizzata dal comportamento di persone estranee ai quadri dirigenziali della società che comportano un vantaggio alla società.

Nell’agosto del 2012, la Corte federale della FIGC ha disposto la retrocessione del Lecce calcio, in quanto fu provato, a livello di giustizia sportiva, che l’allora Presidente del Lecce, Pierandrea Semeraro, era il “mandante della combine Bari-Lecce”, in quanto avrebbe avuto un interesse personale societario al risultato di quella partita. Secondo i giudici federali, alla società Lecce calcio, stante il ruolo del suo presidente, è stata contestata una responsabilità diretta, e per tale ragione è stata condannata a ripartire dal campionato di Lega pro.

Non fu provato, nello stesso anno, invece il ruolo di concorrente nel reato del Presidente del Grosseto, Piero Camilli, e per tale motivo, soltanto in appello la responsabilità del Grosseto fu graduata da diretta in oggettiva, tanto che la squadra di calcio fu soltanto penalizzata.

La discriminante quindi per evitare la retrocessione è il mancato coinvolgimento nelle inchieste dei legali rappresentanti della società.

Ma quali sono i reati che possono commettere i tesserati? Sicuramente l’illecito più importante e anche più odioso è quello di frode sportiva (art. 1 l.401/89) secondo cui è punito chiunque offre o promette denaro per raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione; di tale reato, ovviamente, risponderà anche colui che ha ricevuto il denaro e le persone che hanno beneficiato di tale azione.

Lo scopo di tale norma è tesa ad impedire qualsiasi irruzione nel mondo dello sport dell’attività di gioco e delle scommesse clandestine.

A norma del Codice di giustizia sportiva, invece, si configura l’illecito sportivo ogni qualvolta un soggetto ponga in essere atti tali da alterare lo svolgimento o il risultato di un gara, nonché di assicurare un vantaggio in classifica. L’illecito sportivo, però, può essere anche commesso in associazione,ex art. 9 CGS, cioè quando due o tre soggetti si riuniscono al solo fine di commettere tali reati e per questo motivo, la sanzione prevista è aggravata. Esso è formulato sulla stessa falsariga del delitto di associazione per delinquere ed ai fini della sussistenza della societas scelerum, è sufficiente che si coagulino le volontà degli associati, accompagnate da un minimo di struttura organizzativa.

Infine, per concludere la trattazione, un breve accenno sull’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche nei procedimenti disciplinari sportivi. Esse sono disposte all’interno del processo penale e disposte dal P.M. procedente e secondo l’art. 270 c.p.p. , le intercettazioni telefoniche possono essere eccezionalmente utilizzate in procedimenti diversi da quello penale. Per ciò che riguarda il giudizio dinanzi al giudice sportivo, tali intercettazioni non possono essere utilizzate, ma esse possono essere fonte di prova nel giudizio sportivo per illecito sportivo, purchè, ai fini della trascrizione, siano provenienti dall’Autorità giudiziaria.

Pertanto, secondo la giurisprudenza maggioritaria, le captazioni telefoniche sono pienamente utilizzabili nei giudizi sportivi per illecito sportivo, ferma restando la necessità di un’attenta lettura e di una meditata valutazione nel contesto sportivo cui ineriscono.

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I compiti relativi allo sviluppo ed alla valorizzazione dell'attività sportive sono devolute ad un ente pubblico: il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (Coni). Accanto ad esso, vi sono le Federazioni sportive.

Quest'ultime, pur agendo come soggetti privati, in presenza di determinati presupposti assumono la qualifica di Organi del Coni, e cioè in caso di applicazione di norme che attengono alla vita interna della federazioni ed ai rapporti tra società sportive e tra società e tesserati, le Federazioni sono associazioni di diritto privato. Quando invece l'attività è finalizzata alla realizzazione di interessi fondamentali ed istituzionali, le Federazioni sono considerati a tutti gli effetti organi del Coni.

A seguito dell'entrata in vigore del Decreto-Legge 220/2003, convertito in Legge n. 280/03, rubricato come "disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva", il Legislatore ha voluto regolare il riparto di giurisdizione tra quella sportiva e quella ordinaria. Nelle materie riservate all'ordinamento sportivo, vige il principio del sistema del così detto "vincolo sportivo", caratterizzata dall'onere di adire gli organi di giustizia sportiva e sull'operatività incondizionata delle clausole compromissorie previste dai regolamenti e statuti del Coni e Figc.

Secondo tale legge:

1) le questioni che hanno per oggetto l'applicazione di norme regolamentari, lo svolgimento dell'attività sportiva e le questioni disciplinari derivanti dalla violazione delle norme sportive, tali regole non hanno rilevanza sul piano dell'ordinamento interno e perciò saranno devolute alla giurisdizione degli organi di giustizia sportiva;

2) le questioni regolanti i rapporti patrimoniali tra società ed associazioni, per le quali esaurito l'obbligo del rispetto delle clausole compromissorie, le controversie saranno devolute al Giudice ordinario;

3) per tutte le altre controversie aventi ad oggetto atti del Coni o delle Federazioni, esauriti i gradi di giustizia sportiva sono sottoposte alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo.

Pertanto, nel caso in cui un tesserato viene squalificato o per un'espulsione comminata durante un'attività sportiva ovvero per altri ragioni (ad esempio una squalifica comminata dalla Commissione antidoping), questi potrà essere giudicato soltanto dai vari organi della giustizia sportiva, al termine del quale la decisione della Commissione di appello competente sarà irrevocabile e non soggetta più a sindacato di altro giudice.

Nell'ambito delle convenzioni matrimoniali rientra anche l'istituto del fondo patrimoniale, caratterizzato dal complesso di beni immobili, mobili registrati e titoli di credito che sono destinati a far fronte ai bisogni della famiglia.

Tale destinazione può essere effettuato o con atto inter vivos o con atto mortis causa ed i beni appartenenti al fondo sono assoggettati ad uno specifico regime, secondo cui non possono essere alienati o essere gravati da qualsivoglia vincolo senza l’autorizzazione di entrambi i coniugi e nel caso in cui vi sia un figlio minore, senza l'autorizzazione del Giudice.

Il fondo patrimoniale è caratterizzato dalla temporaneità e presuppone sempre l'esistenza del vincolo matrimoniale, perciò l'annullamento del matrimonio, scioglimento o cessazione degli effetti civili determinano la cessazione del fondo.

Attraverso questo istituto, viene a costituirsi un patrimonio autonomo, la cui titolarità spetta ad entrambi i coniugi che l'amministrano secondo le norme della comunione legale. Il fondo patrimoniale, quindi, costituisce un regime di gestione comune di beni ed i beni ad esso assoggettato non possono essere oggetto di esecuzione per debiti che il creditore sapeva essere stati contratti per bisogni estranei alla famiglia.

La Cassazione ha ritenuto la possibilità di pignorare il fondo patrimoniale se il credito cui si procede riguarda le spese condominiali, infatti "con la conseguenza che l'esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso può avere luogo qualora la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia" (Cass. Sent. N. 23163/2014)

Ne consegue che i beni del fondo rispondono soltanto per le obbligazioni assunte per soddisfare le esigenze di mantenimento dei coniugi, dei figli minori e per le obbligazione di gestione del fondo stesso.

A questo punto potremmo sempre supporre che il coniuge che ha contratto numerevoli debiti, per occultare i beni di proprietà della comunione legale, può in ogni momento costituire un fondo patrimoniale sottraendoli alla garanzia generica di tutti i creditori.

Al fine di tutelare gli interessi dei creditori, la prevalente giurisprudenza ha ammesso l’esperibilità dell’azione revocatoria avverso l’atto di costituzione del fondo patrimoniale entro il termine di cinque anni dalla data dell’atto, ex art. 2903 c.c. Tale azione consente al creditore di domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio, in quanto pregiudizievoli delle sue ragioni creditorie.

Infatti, secondo la Cassazione "nonostante il valore etico e morale che può aver spinto il debitore a vincolo determinati beni nel fondo patrimoniale, se ricorre la consapevolezza di porre in essere un atto pregiudizievole delle ragioni del creditore, la tutela delle ragioni di quest’ultimo prevale nei limiti di quanto serva per il suo soddisfacimento" (Cass. Sent. N. 16498/14).

L'elemento psicologico va desunto anche attraverso presunzioni, il cui apprezzamento è devoluto al giudice, tanto è che nel caso in esame, la Suprema Corte ha ritenuto esistente il pregiudizio nell'esistenza di una sentenza di condanna in primo grado a carico del debitore e nell’assenza di ulteriori beni personali dello stesso.

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