Il 12 gennaio 2010, a nove mesi dal sisma che colpì L'Aquila e buona parte dell'Abruzzo interno, una fortissima scossa di terremoto sconvolse la nazione centro americana di Haiti. Nell'isola caraibica, confinante con la Repubblica Dominicana, morirono più di 200mila persone, ne rimasero ferite altre 300mila. Per lo più nella zona metropolitana della capitale Port-au-Prince, che con il suo milione e mezzo di abitanti attrae una parte importante dei dieci milioni di abitanti nel Paese.
Joseph Alliance è un giovane haitiano, responsabile nello stato centro americano della organizzazione non governativa internazionale Actionaid. Alliance ha fatto visita, per alcuni giorni, all'Aquila, dove Actionaid opera da oltre quattro anni.
Nel giorno in cui si commemorano anche i 40 anni della prima devastante scossa di terremoto in Friuli Venezia Giulia, appare quasi superfluo sottolineare come tutti gli eventi catastrofici, su ogni territorio, posseggano le proprie peculiarità e al tempo stesso vivano di ineludibili similitudini con altri eventi. E questo succede in lande vicine e lontane, e persino in quelli che molti considerano "altri mondi". Come Haiti, appunto. A migliaia di chilometri da Roio, epicentro del sisma aquilano, o da Gemona del Friuli.
Ma alcuni percorsi, dinamiche, problematiche sono talmente simili da poter essere comparati: Alliance, ad esempio, lavora al processo di riappropriazione e di partecipazione dei cittadini haitiani alla faticosissima ricostruzione. Actionaid Haiti, infatti, fa parte di Je nan Je ("occhio per occhio", in creolo sinonimo di "ti sto osservando"), rete di undici organizzazioni sparse da nord a sud del Paese, che si pone come obiettivi la riapproprazione degli spazi rurali e che propone una riforma agraria che riconsegni il possesso delle terre alle persone, in una nazione dove la maggior parte della popolazione vive ancora di quello che produce. Prima di arrivare nel capoluogo abruzzese, Alliance è stato, non a caso, ospite della Fao a Roma proprio per mostrare le linee guida della nuova, auspicabile, riforma.
Come accaduto in diversi casi anche all'Aquila, molto del denaro destinato alle comunità colpite dal terremoto è stato utilizzato per altri scopi: nel nord, ad esempio, è stato costruito un grande parco industriale di manifattura tessile, per il quale è stato necessario espropriare centinaia di famiglie, colpendo l'economia diretta di almeno 6mila persone.
Joseph Alliance: il tema, insomma, ricorre. Chi viene colpito da un disastro naturale è spesso escluso dal processo decisionale di ricostruzione della propria comunità, nonostante ponga all'attenzione dei decisori bisogni, esigenze, priorità.
In Haiti lavoriamo proprio sul diritto di accesso alla terra. Abbiamo costituito una vasta rete di organizzazioni anche per assumere il ruolo di watchdog (cane da guardia, ndr) per capire come è stato impiegato il denaro arrivato nel Paese. Un Paese con standard economici di povertà, prima e dopo il sisma del 2010. Se un europeo si vuole informare su Haiti può ascoltare principalmente due storie: quella dei grandi donatori, come l'International developement bank (Idb) o la United States Agency for International Development (Usaid), che racconta di successo e ricostruzione. E poi c'è la storia raccontata dalle persone, quella dei progetti mai realizzati.
La maggior parte dei tre milioni di haitiani colpiti dal terremoto vivevano nell'area urbanizzata di Port-au-Prince. Oggi qualcosa è cambiato? Le persone sono andate via?
Il motto dei grandi donatori internazionali è stato building better (costruire meglio, ndr), proprio perché quasi tutte le persone rimaste sotto le macerie erano nella capitale Port-au-Prince (l'epicentro si è registrato a soli 25 km dalla città, ndr). Ci sarebbe potuta essere davvero un'opportunità per ricostruire meglio, per cercare di allontanare grandi concentrazioni di persone dal posto dove vivevano (e dove vivono), solo perché è l'unico luogo dove esistono servizi. Ma questo, ad oggi, non è stato fatto, vengono costantemente ignorati i reali bisogni delle persone. Per non parlare delle istituzioni nate ad hoc dopo il terremoto, come l'Interim commission for the reconstruction, che hanno messo in moto anche processi decisionali opachi.
Dove abitano oggi le persone?
La gran parte della popolazione colpita dal sisma vive nei recepting camps, simili, almeno nella natura, alle vostre new town. L'area di Kana'an, per esempio, è in mezzo al nulla. Non ci sono market né campi da lavorare, non esiste un percorso di vita che ti rimetta al centro. Non si sta creando nessuna condizione sulla base della quale le persone possano costruirsi una vita al di fuori di questi insediamenti.
Qual è stata la tua prima sensazione, arrivato nel centro storico dell'Aquila?
Mi ha sorpreso, francamente, notare che dopo sette anni la città non sia stata ricostruita. Il terremoto in Haiti ha generato mille problemi, ma sappiamo benissimo che nel Paese c'erano mille problemi anche prima. All'Aquila, invece, non esisteva prima una situazione così problematica. Mi fa piacere sapere, dai racconti, che le persone si sono messe al centro del processo di ricostruzione, fatto non accaduto nel mio Paese. In Haiti si vive certamente di più la via intesa come piazza, si sono tolte subito le macerie e si è scesi in strada, si interviene in prima persona ma non si è mai protagonisti del processo di ricostruzione. Qui, mi sembra, invece, che si reclami e si pretenda che il governo deliberi per la comunità.
Quali sono le prospettive, dal punto di vista politico?
Il vero dramma, più del terremoto, è che lo Stato haitiano era collassato ben prima che lo facessero gli edifici. Quando la terra ha tremato non c'erano servizi per la popolazione, e dopo sono state mancate tante occasioni. E' questo che stiamo cercando di riprenderci oggi. Tra agosto e ottobre dello scorso anno ci sono state le elezioni per il nuovo Parlamento e per il nuovo presidente, ma ancora non è stato eletto nessuno, dopo Michel Martelly (al potere dal 2011, ndr), perché ci sono forti sospetti di brogli e scarsa trasparenza. Da un lato, gli Stati Uniti fanno una gran pressione affinché si formi al più presto un governo. Dall'altra la popolazione vuole vederci chiaro, perché un governo eletto senza trasparenza è il primo passo per innescare una nuova crisi. Ed è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno.