Sabato, 08 Ottobre 2016 18:53

Intervista a Gianluigi Rossini, autore del libro "Le serie Tv". Viaggio tra serialità e nuove forme televisive

di  Alessandro Tettamanti e Roberto Ciuffini

Quella che vi proponiamo è un'intervista a 360 gradi al dottore di ricerca in Generi Letterari all'Università dell'Aquila Gianluigi Rossini, autore del libro, edito da Il Mulino, "Le Serie Tv".

Un'intervista lunga, densa e particolareggiata, che sicuramente soddisferà il lettore che si approccia con curiosità anche sociologica alle serie tv, linguaggio ormai fondamentale per capire il nostro tempo.

Ma quella a Rossini è un'intervista anche al nostro amico Gianluigi, con cui siamo cresciuti nella stessa città coltivando passioni simili, divorando ora musica, ora serie Tv, appunto. E quindi a parlare nelle righe qui sotto, oltre al ricercatore, sarà anche quel consumatore onnivoro di Serie come lo siamo noi e tanti nostri lettori: potrete trovare titoli, commenti e opinioni che possono servirvi a guidarvi nell'universo delle serie TV, a scegliere la prossima. Più intensa, profonda psicologicamente e più contemporanea della precedente.

In "Le serie Tv" Rossini ricostruisce essenzialmente l'evoluzione della serialità mettendola in rapporto con l'evoluzione della TV nel suo complesso. Una Tv, nei confronti della quale, il pensiero apocalittico di matrice Francofortiana risulta da tempo superato e che è diventata altro dalla trasmissione broadcasting grazie alle nuove tecnologie, iniziando da quella via cavo.

E in effetti il pensiero di Francoforte - da cui il conseguente e duraturo approccio nello studio della comunicazione - non poteva immaginare quest'altra televisione oltre la televisione. Che è quindi qualcosa di diverso dal segnale unidirezionale di uno verso molti e che ha assunto, invece, forme complesse e connesse di narrowcasting ("a semina stretta"), che ovviamente modificano il linguaggio stesso. E che, ricorda Rossini, assomiglia nell'offerta "più a una biblioteca che ha contenuti rivolti a target precisi, consumati individualmente in maniera asincrona".

Il tutto mentre la nuova televisione è il social network, e la Tv diventa on demand.

Gianluigi Rossini perché le serie tv, oggi, hanno così tanto successo? Molti autorevoli critici sostengono che è perché hanno una capacità di lettura della realtà che il cinema ha perso

Io non credo affatto che il successo delle serie TV sia da collegare all'ennesima crisi del cinema. E poi bisognerebbe anche da mettersi d'accordo su cosa si intende per "successo" delle serie TV. Spesso il discorso nostrano sul tema soffre di una sorta di distorsione prospettica, dovuta al fatto che le serie TV da noi praticamente non esistevano prima dell'ondata di importazioni avvenuta negli anni '80: c'erano gli sceneggiati e le miniserie, ma erano cose molto diverse.
Leggevo qualche giorno fa un passo dell' articolo de "Il Sabato" del marzo 1990 diceva: «La nuova stella del piccolo schermo si chiama serialità, ovvero la fiction nell'era della televisione [...] Telefilm, soap opera e miniserie hanno scalzato i generi tradizionali come il varietà». Ma quello che da noi sembrava un fenomeno nuovo, negli USA o in Gran Bretagna è nato più o meno con la televisione.
Negli USA, in particolare, le serie TV erano diventate una componente centrale dei palinsesti già alla fine degli anni '50 e facevano ascolti stellari, oggi peraltro impensabili.
Dunque, quello che davvero è cambiato negli ultimi anni è: il numero di serie prodotte, aumentato a dismisura; la sofisticazione del linguaggio, tanto a livello di racconto quanto a livello di immagine; il livello di legittimazione culturale raggiunto.
Le ragioni di questi cambiamenti vanno cercate innanzitutto negli sviluppi del sistema televisivo nel suo complesso, non in un qualche vuoto lasciato dal cinema o dal romanzo.

Differenze ci sono anche nella loro fruizione che avviene in modo radicalmente diverso, basti pensare al binge watching o a case di produzioni come Netflix che rilasciano tutta insieme un'intera stagione. Questo è indicatore di cosa, esattamente, secondo te?

Ovviamente è troppo presto per dirlo: al momento sembra evidente che Netflix, Amazon, Hulu e tutti i vari fornitori di contenuti OTT (Over The Top) siano il prossimo stadio evolutivo del medium, ma allo stesso tempo mettono in discussione la nostra idea di cosa sia la televisione. Uno dei fenomeni secondo me più interessanti, un questo senso, è il progressivo separarsi delle serie TV dalla TV, e di conseguenza da tutte le modalità produttive, narrative e di fruizione tradizionalmente connesse a essa.
Una delle serie più belle della stagione 2015-16, Horace and Pete, è stata prodotta da Louis CK e distribuita tramite il suo sito personale, senza passare per un distributore. Anche per questo motivo ha potuto permettersi cose difficili da immaginare perfino su HBO, come un episodio i cui primi 20 minuti consistono in un'inquadratura ferma sul viso di un'attrice che monologa. Non so quanto il modello Louis CK sia ripetibile da altri, anche perché le serie costano molto.
Netflix sembra sicuramente vincente, nel suo trasferire alcune logiche televisive sul web mentre ne sovverte altre. Anche il cambiamento avvenuto con la diffusione del binge, partito dai primi cofanetti DVD con le stagioni complete, è fondamentale: è un modo completamente diverso di approcciarsi alle serie, che così diventano un testo durevole al di là del passaggio televisivo.

Le serie tv hanno sostituito il cinema nella creazione dell'immaginario collettivo?

Non lo penso affatto. Le serie TV hanno notevolmente aumentato la loro capacità di influenzare l'immaginario collettivo, ma non è che prima non lo facessero: B.A. Baracus, MacGyver o Starsky e Hutch fanno parte del nostro immaginario. Ora prendiamo le serie più sul serio, ma non vedo nessuna sostituzione in corso, semmai un aumento delle sinergie tra i due. Basti pensare all'universo Marvel, che ormai si muove con disinvoltura tra grande e piccolo schermo.

Come è cambiato o come si è evoluto il linguaggio delle serie tv in questi anni? E' possibile operare delle periodizzazioni?

Questa è in sostanza LA domanda che è alla base del libro, quindi per me è difficile rispondere in poche battute. Ci provo lo stesso: sì, si possono individuare tre età, che io chiamo "classica" (anni '50-'70), "multicanale" (anni '80-'90), "digitale" (dal nuovo millennio in poi), seguendo uno schema ormai condiviso dalla maggior parte degli specialisti.
Le periodizzazioni in parte cambiano tra Stati Uniti e Europa, e anche tra i paesi europei, perché sono in stretta connessione con lo sviluppo della televisione nel suo complesso, ma la sostanza dell'evoluzione è paragonabile. Se parliamo di Stati Uniti, i due momenti chiave sono l'uscita di Hill Street Blues nel 1981, che in pratica inventa la serie serializzata contemporanea, e le produzioni HBO della seconda metà degli anni '90, che rompono tutti i limiti imposti dal broadcasting tradizionale.

Fino a qualche anno fa le serie tv erano bistrattate dalla critica e dagli intellettuali, ora sono diventate argomento di studio nei corsi universitari. A cosa si deve questo cambio di atteggiamento? Qual è stata, se c'è stata, la chiave di volta?

Su questo argomento sono stati scritti libri interi, dunque non è facile individuare una singola chiave di volta. Di norma, The Sopranos è visto come lo spartiacque tra la vecchia serialità e la nuova. Ma già nei primi anni 80' Joyce Carol Oates metteva Hill Street Blues alla pari con Dickens, e nel 1996 Robert Thompson pubblicò Television's Second Golden Age, dove tracciava un percorso che andava da Hill Street a ER passando per Twin Peaks. Io credo che il cambiamento sia dovuto all'incrocio tra due fattori fondamentali: il primo è la progressiva diffusione, dagli anni '80 in avanti, di un nuovo modo di leggere la televisione, che supera definitivamente le posizioni apocalittiche derivate soprattutto dall'influenza della scuola di Francoforte. Il secondo è la fioritura dei canali via cavo negli Stati Uniti, che hanno creato un ambiente dove la serialità potesse sviluppare le sue potenzialità slegandosi dai vincoli imposti dal broadcasting.

Tu come ti ci sei avvicinato? Ti ha portato verso di loro più il tuo interesse da ricercatore o c'era una naturale passione a priori?

Le due cose sono nate più o meno contemporaneamente. La mia passione per le serie TV è arrivata piuttosto tardi: se si eccettuano pochi casi come X-Files, Twin Peaks e le molte serie animate (Simpson, Futurama, Daria), la prima volta che ci sono davvero andato sotto è stata con Lost. Poi ho scoperto The Sopranos, Six Feet Under e The Wire e da allora non ho più smesso.
Nel frattempo frequentavo la specialistica a Roma, dove ho sostenuto degli esami sulle serie TV e ho fatto una tesi su HBO e Six Feet Under.
Finita la specialistica sono tornato a L'Aquila per il dottorato, dove ho ripreso i contatti con Massimo Fusillo che è attualmente il mio maestro e con l'aiuto del quale ho cercato di indagare l'argomento da un punto di vista interdisciplinare, che mettesse insieme i media studies e la comparatistica.

Uno dei casi di maggior successo è quello di House of cards, una serie che esplora il mondo del potere americano. Qualcuno l'ha addirittura definita la serie perfetta. Sei d'accordo?

Dissento di brutto: a me House of Cards non sembra poi così innovativa e meno che mai perfetta. È sicuramente un prodotto di alto livello ma sono convinto che, come nel caso di True Detective, gran parte dell'hype generato da HoC derivi dall'apparentamento con il cinema, dal coinvolgimento di Kevin Spacey, David Fincher e altri nomi associati al grande schermo. Io consiglio sempre di guardare la trilogia inglese dei primi '90 da cui la serie statunitense è tratta: House of Cards, To Play the King e The Final Cut. Nonostante soffra gli anni, secondo me è molto più appassionante e crudele, si tiene con maggiore grazia sulla linea di confine tra rappresentazione realistica del potere e dramma shakespeariano.

Altro fenomeno globale è Game of Thrones, apice forse di un ritorno imponente del genere fantasy nell'epoca contemporanea che ben si integra con il linguaggio seriale. Che ne pensi?

Sono malato di Game of Thrones, come tutti. Saprei collocare Winterfell e Pentos su una mappa con più sicurezza di quanta ne avrei per molte città italiane. Nonostante ciò, se dovessi dare un parere critico un po' più obiettivo, GoT non è tra le vette della serialità televisiva, soprattutto nella deriva soap dell'ultima stagione. Ciò non toglie che abbia una notevole importanza nella storia del genere: da un lato è il più riuscito di quelli che si possono considerare dei veri e propri kolossal seriali, idea impensabile fino a poco tempo fa, perché le serie TV non avevano sufficiente potere mitopoietico. Dall'altro, credo che segnali la fine di un'epoca sperimentale, in cui nascevano progetti folli e anticommerciali come Carnivàle o anche Breaking Bad. Io temo che il successo di produzioni come GoT o The Walking Dead non sia una buona notizia per la serialità che parla di vita quotidiana, che si sofferma sulla psicologia del personaggio e che cerca di leggere la realtà, come si diceva all'inizio di quest'intervista.

Quali sono, secondo te, le migliori serie tv in circolazione?

Di recente, in ordine sparso, ho adorato Better Call Saul, Broad City, Transparent, The Get Down, Rectify, The Girlfriend Experience. Tra le miniserie Horace and Pete e The Night Of secondo me sono davvero notevoli. Ma se me lo chiedi domani ti rispondo una cosa diversa. Una delle certezze che ho è che Louie sia una delle serie più importanti e meglio riuscite degli ultimi anni.

Cosa pensi del dibattito sollevatosi di recente sulla serie tv Gomorra, che, secondo i detrattori, mitizzerebbe troppo il mondo della criminalità? Certe polemiche sono concepibili o comunque trovano spazio  anche sui media americani?

Personalmente trovo la polemica completamente priva di senso, tanto più che il protagonismo criminale è una delle colonne della nuova serialità televisiva e, se si critica Gomorra per questo, bisognerebbe allora rigettare in toto la maggior parte dei capolavori del genere. Trovo assurda anche l'idea secondo la quale Gomorra danneggerebbe l'immagine di Napoli: ogni volta che sento queste cose mi torna in mente Cuffaro che accusava Falcone di aver "costruito un'immagine della Sicilia" che ne danneggiava l'economia.
Ma non succede solo in Italia: The Sopranos subì critiche feroci da parte delle associazioni italoamericane. Il presidente della NBC scrisse una lettera al New York Times in cui si diceva preoccupato per il livello di violenza visiva raggiunto, che non avrebbe mai accettato sui suoi palinsesti: dal suo (interessato) punto di vista, The Sopranos pescava nel torbido in maniera immorale. Anche The Wire ha avuto i suoi bei problemi sia con le istituzioni di Baltimora sia con chi protestava contro il ritratto troppo umanizzante dei criminali, tanto più che alcuni degli attori erano veri ex-gangster. Forse questo tipo di critiche sono solo il segnale che un racconto ha toccato le corde giuste.

A tal proposito, Gomorra è la prima serie TV italiana che assomiglia di più a quelle americane. Recentemente è andata in onda anche negli States e qualcuno l'ha promossa definendola un mix tra I Sopranos e The Wire. L'autore, almeno per le prime due stagioni, è Sollima, lo stesso di Romanzo Criminale, forse la prima vera Serie Tv Italiana moderna. Cosa è successo? Una possibile via italiana al Crime (peraltro ripresa del vecchio poliziesco)? Una questione legata alla produzione con l'entrata nel mercato italiano di Sky? Infine, credi che l'Italia può ambire ad avere una sua industria legata alle serie Tv?

Intanto, "somigliare alle serie americane" non è necessariamente un pregio: la tradizione europea ha prodotto grandi cose, anche grazie alla logica del servizio pubblico che in America è quasi inesistente. Questa nostra peculiarità non va sottovalutata. In secondo luogo, il vero cambiamento deriva dall'arrivo di Sky, senza dubbio: cose come Boris, Romanzo Criminale e Gomorra potevano nascere solo su Sky, come d'altra parte The Wire poteva nascere solo su un canale via cavo a pagamento. I problemi dell'industria culturale italiana con la serialità vengono da molto lontano: la prima vera produzione seriale italiana è Un posto al sole, se si escludono esperienze dalla vita breve come I ragazzi della III C. Il nostro prodotto di eccellenza, storicamente, è la miniserie. L'entrata nel mercato di Sky, da questo punto di vista, è sicuramente un fattore positivo e secondo me ciò che accomuna queste prime produzioni non è tanto il crime, quanto la volontà di segnare la differenza con la TV generalista, toccando nervi scoperti della società italiana, andando a pescare nella storia del paese. È una strategia efficace che segue l'esempio dei canali via cavo statunitensi.

Le produzioni, tra l'altro, sono davvero in quantità sterminata. Questo aumenta il rischio di un abbassamento di qualità. Non credi?

Qualche tempo fa il presidente di FX, il canale statunitense che ha prodotto The Shield, Sons of Anarchy e Louie, ha utilizzato l'espressione "peak TV" per indicare il fatto che l'industria ha raggiunto un livello oltre il quale non si può andare. Da allora è nato un vivace dibattito che collega l'enorme espansione del numero di titoli alla fine dell'età dell'oro della serialità televisiva. Io non credo che le due cose siano poi così direttamente collegate. Landgraf rappresenta il punto di vista dell'industria e poneva un problema molto pratico: questi ritmi produttivi non sono sostenibili, dunque alla fase di espansione che abbiamo vissuto finora ne seguirà necessariamente una di compressione. Tutto ciò ha già prodotto dei cambiamenti: serie come Girls, Enlightened, Transparent, Master of None utilizzano il formato ridotto da mezz'ora, tipico della comedy, pur essendo in larga parte drammatiche. È una scelta di sopravvivenza, per prodotti destinati a restare di nicchia, che non possono sopportare i costi che sopportava Six Feet Under dieci anni fa. Eppure sono tra le cose migliori realizzate negli ultimi anni, secondo me. Le produzioni più grandi e costose, nel frattempo, riducono il numero di episodi. Io credo che l'aumento produttivo sia sempre una buona notizia, le storie e le forme sono in grado di adattarsi all'ambiente in cui vivono. È molto peggio quando i soldi sono pochi e si produce il minimo indispensabile, come succede da noi.

Il futuro della tv è nell'on demand? E della vecchia tv, cosa rimarrà?

La personalizzazione del consumo televisivo è un trend ormai affermato, adatto ai tempi e indiscutibilmente più efficiente del broadcasting tradizionale. Come scriveva già diversi anni fa Horace Newcomb, uno dei padri dei Television Studies, se la televisione classica era un forum culturale, quella contemporanea è più simile a una biblioteca: contenuti rivolti a target precisi, consumati individualmente in maniera asincrona.
Il processo di trasformazione, però, si sta rivelando molto più lungo del previsto, e la "vecchia TV" gode ancora di ottima salute, basta guardare i dati degli ascolti tanto in Italia quanto negli Stati Uniti. NCIS fa ancora 20 milioni di spettatori sulla CBS, e anche il Movimento 5 Stelle si è reso conto che della TV non si può ancora fare a meno. Con tutto il male che ne diciamo di solito, la TV è stata il luogo centrale della creazione dell'identità nazionale dal secondo dopoguerra in poi. Sostituirla non sarà così facile.
I candidati migliori sono i social network, che a loro modo sono diventati il nuovo forum culturale in cui si discute della vita pubblica. Mi sembra fra l'altro molto interessante che di recente i social network si stiano appropriando della diretta, con cose come Periscope e Facebook Live. La diretta era lo specifico televisivo per eccellenza: mentre la TV diventa on demand, i social diventano live.

Il cinema, invece, sopravviverà?

Bisognerebbe chiederlo a qualcuno più esperto di me, ma se mai il cinema dovesse sparire non sarà di sicuro per sostituzione da parte delle serie TV. Anzi, fenomeni come Stranger Things rendono evidente quanto la sudditanza verso il cinema sia ancora forte, e quanto le due industrie si avvicinino sempre più l'una all'altra. Che poi, in sostanza non esistono più da tempo due industrie separate: negli Stati Uniti cinque megacorporation (Disney, Comcast, Viacom, Time Warner e News Corp.) possiedono la quasi totalità dei due mercati.

Cosa pensi dell'estesissimo utilizzo dello streaming e del downloading ed i subtitle pirata per vedere le serie tv? Senza tale fenomeno, intrinsecamente legato al web, non ci sarebbe stata forse una diffusione così alta globalmente del linguaggio delle serie, funzionale anche al mercato?

Ammiro moltissimo la comunità dei subbers italiani e penso che facciano un lavoro meritorio, al limite dell'eroico, visto che è tutto volontariato. Spesso i sottotitoli che si trovano su italiansubs e simili sono fatti meglio di quelli che si trovano nei DVD. Il downloading pirata ha senza dubbio contribuito alla creazione di una cultura della serialità nel nostro paese, cosa fondamentale per il mercato. Tuttavia, a volte resto sbalordito dal livello di inconsapevolezza diffuso: sento spesso ragionamenti del tipo: "perché dovrei pagare Netflix, tanto posso scaricare gratis tutto quello che voglio", ed è un'assurdità. Ammiriamo le serie statunitensi, ma non si può non capire che senza gente che tira fuori cento dollari al mese di abbonamenti vari Game of Thrones non esisterebbe. Per quanto mi secchi difendere multinazionali dalle dimensioni abnormi come Netflix o Time Warner (casa madre di HBO), la pirateria non deve creare l'illusione che sia possibile avere prodotti culturali fantastici, gratis. La televisione storicamente è stata finanziata o dalla pubblicità o dallo Stato: di fatto, la rivoluzione seriale di cui parliamo è avvenuta quando alcuni canali si sono fatti pagare direttamente dal pubblico.

 

Ultima modifica il Domenica, 09 Ottobre 2016 11:24

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