L’impetuosa crescita economica della Cina, l’eredità dei neocon, le guerre in Afghanistan, in Iraq, in Libia e in Siria, le tensioni costanti in Africa e nel continente eurasiatico, le crescenti conflittualità di ordine religioso, i poderosi flussi migratori, il collasso delle istituzioni e delle pratiche multilaterali, le trasformazioni tecnologiche, l’internazionalizzazione dei mercati e le tempeste finanziarie.
Sono alcune delle traiettorie seguite dal giornalista e docente universitario aquilano Salvatore Santangelo che torna in libreria con “Babel” per Castelvecchi Editore.
A due anni dalla pubblicazione di “Gerussia” che metteva su carta i rapporti tra Germania e Russia sulle ‘vie del gas’, Santangelo con la sua ultima 'fatica' non tenta di definire o spiegare cosa sia la globalizzazione; piuttosto, prova a dare conto dei diversi tentativi di farlo, tratteggiando una mappa di questo mondo nuovo. Un disegno incompleto, ma in cui è già possibile riconoscere alcune tendenze di fondo. L’impulso alla frammentazione, innanzitutto: la riscoperta delle identità particolari che si scontra con un orizzonte imperiale. Come sarà il nuovo nomos della Terra? Esso potrà assumere la forma di un vasto mercato planetario, di un’immensa zona di libero scambio, oppure di un mondo in cui i grandi blocchi continentali – nel contempo potenze autonome e crogioli di civiltà – svolgono un ruolo regolatore nei confronti della globalizzazione stessa, preservando così la diversità degli stili di vita e delle culture, unica vera ricchezza dell’umanità.
“A prima vista, la globalizzazione ci appare come un caos indecifrabile; il tentativo di questo libro è definire una cornice dando un volto, un’identità, individuando la strategia dei diversi attori, statuali e non statuali, protagonisti di un fenomeno enorme che ha in sé tante dimensioni: culturale, economica, informativa”, spiega Santangelo a newstown. “Personalmente, sono giunto all’idea che - nella storia dell’uomo - ci siano delle alternanze tra momenti di apertura e momenti di chiusura: dunque, non esiste ‘la globalizzazione’ ma esistono ‘le globalizzazioni’. Ce ne sono state tante, ed ognuna ha avuto termine con un momento di ritiro e di chiusura: noi non sappiamo quale sarà lo sbocco di questa ultima globalizzazione perché in campo c’è una variabile nuova, la tecnologia, che così massiccia, pervasiva e violenta non c’era mai stata precedentemente”.
A sostegno di questa tesi, Santangelo porta ad esempio, in apertura del libro, un verso della Medea di Seneca, siamo nel I^ secolo dopo cristo: “‘Sono venuti meno tutti i confini, il mondo è diventato percorribile, nascono nuove città’; ebbene, le città hanno un ruolo fondamentale nella storia dell’economia e della globalizzazione: qualche giorno fa, sul Financial Times, è stato pubblicato uno studio che dimostra come esista una continuità tra gli insediamenti ricchi dell’antica Roma e gli attuali centri strategici – in Europa occidentale, e così in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale, entro i confini dell’impero romano – in termini di ricchezza e centralità nei rispettivi sistemi economici. Nel tempo, quelle che erano le strade romane sono state sostituite da altre infrastrutture materiali e, oggi, immateriali. Sappiamo che la globalizzazione romana è bruscamente finita col collasso dell’Impero che ha portato a quasi mille anni di ritiro nel mondo medievale - per quanto la maggior parte degli storici non condividano più la visione dei secoli bui, sottolineando come già nel medioevo fossero presenti i semi della successiva rinascita - in una condizione di assoluta e profonda arretratezza”.
Stante l’idea ciclica delle ‘diverse’ globalizzazioni, l’attuale, che stiamo vivendo, come potrebbe collocarsi temporalmente? “Individuo due momenti iniziali: il 1973 e il 1978. Se utilizziamo l’indice economico di Gini, che permette di misurare le diseguaglianze all’interno delle società, vediamo che, a partire dal ’73, negli anni in cui si impone la visione neo-liberista con la sconfitta del modello keynesiano, nelle società occidentali si innesca un processo che porterà all’estrema polarizzazione della ricchezza che viviamo oggi, con l’erosione del ceto medio. Il secondo colpo al modello che oggi tutti rimpiangono è datata 1978: la Cina, sotto l’azione diplomatica di Kissinger, si sposta rispetto all’asse della Guerra Fredda, pur mantenendo un assetto formalmente comunista: è in quel periodo che per le imprese occidentali si chiudono le possibilità d’investimento in Cina. Così come abbiamo utilizzato l’indice di Gini per leggere l’impatto delle politiche neo-liberiste sui ceti medi, possiamo leggere un altro fenomeno: fino al ’78, i salari dei lavoratori americani crescono di anno in anno; ciò ha reso gli Stati Uniti, con l’ideologia consumista, il più importante mercato mondiale. Nel ’78, però, la crescita si ferma, si cristallizza, entrando in competizione con i salari cinesi”. Ma se nel ’78 si ferma la crescita dei salari dei lavoratori americani, come mai l’economia, di converso, ha continuato a crescere? “Semplice, le famiglie sono state indebitate: il modello economico che ha sorretto la più importante economia del mondo è stato quello del debito. Ad un certo punto, però, ci si è scontrati con la realtà e, a partire dal 2008, con la crisi dei mutui sub-prime, il modello è entrato profondamente in crisi e abbiamo potuto misurare tutti i limiti dell’attuale globalizzazione”.
E dunque, se dovessimo trarre un bilancio di ciò che è accaduto in questi anni? “Possiamo dire che la Cina, pur con la spregiuticatezza estrema con cui ha vissuto questa fase, ha portato quasi un miliardo di esseri umani fuori dalla condizione di povertà estrema, guidando un immane processo di urbanizzazione senza che si siano creati i così detti ‘slum’ – parliamo di periferie ingovernabili, le abbiamo in Messico, le abbiamo avute nella Londra della prima rivoluzione industriale, ce le abbiamo a Parigi con le banlieu –; il pugno di ferro del partito comunista ha reso possibile una sorta di ‘miracolo’ e, di fatto, la Cina si prepara ad assumere un ruolo d’assoluto primato. Non è tutto oro quel che luccica, però: il modello cinese vive di profonde contraddizioni, il processo di modernizzazione e arricchimento non è stato accompagnato dal riconoscimento di diritti civili e politici alla borghesia nascente, per non parlare dei problemi ambientali che sono devastanti in termini di inquinamento, e della violenta repressione delle minoranze. Ognuno di questi problemi potrebbe trasformarsi in una linea di faglia capace di squassare il sistema economico cinese. Ha fatto molto anche l’India, la più grande democrazia del mondo che, pur non essendo riuscita a togliere dalla condizione di povertà un numero analogo di esseri umani, gioca oggi un ruolo importante negli scenari economici e geopolitici. Ad uscire sconfitti dalla globalizzazione sono stati i ceti medi dell’Occidente e, in generale, il mondo musulmano, che non ha trovato la sua strada alla globalizzazione; la stagione del terrorismo, dell’integralismo e della radicalizzazione, è frutto anche della profonda frustrazione di quasi un miliardo di esseri umani che si trovano in una situazione di assoluto svantaggio. Pure i paesi, pochi, di successo, hanno modelli legati ad una economia vecchia, quella del petrolio, che ha vita breve”.
Insomma, gli sconfitti sono i lavoratori che non possono delocalizzarsi, quei modelli economici che non hanno avuto la capacità di riconvertirsi rispetto alla globalizzazione. Santangelo ribadisce come la Germania rappresenti una storia di grandissimo successo; al contrario, l’Italia vive di qualche luce e di molte ombre. “Quest’anno, le imprese italiane faranno numeri record nelle esportazioni ma resta congelata la domanda interna dopo la stagione di Monti. Il tentativo di Renzi di rimetterla in moto con gli 80 euro è parso assolutamente fallimentare e, oggi, si persegue il miraggio di una politica espansiva senza rendersi conto che è fondamentale lavorare sugli asset del paese in termini di formazione, in particolare. Nei giorni scorsi, è stata pubblicata una classifica dei paesi Ocse che denuncia come la Gran Bretagna sia al secondo posto per numero di lavoratori avanti con l’età che hanno meno competenze per affrontare il mondo digitale; va detto che anche i giovani arrancano. Ebbene, la notizia ha scatenato un grande dibattito. Indovinate chi guida la classifica, qual è il paese messo peggio? L’Italia. Eppure, qui non se ne è parlato affatto”.
Riflessioni che aprono ad un argomento più generale, il destino dell’Unione Europea in questo scacchiere internazionale. Santangelo dedica all’Europa un intero capitolo, raccontandone i grandi successi; “sarà controcorrente e impopolare dirlo, ma vivere in Europa, oggi, è come vivere in una sorta di paradiso terrestre rispetto al resto del mondo. Pensate soltanto che negli Stati Uniti non c’è un sistema sanitario universale per tutti, che frequentare l’università significa condannarsi ad una vita di sacrifici per ripianare i debiti contratti; per dire, hanno una settimana di ferie in meno rispetto ai lavoratori europei. Diamo tutto ciò per scontato, ma l’Europa racconta storie di successo che hanno fatto del punto di equilibrio tra competitività del lavoro e welfare il vero modello vincente”. Quest’anno, la Germania investirà 1000 miliardi di euro nel welfare, “in totale controtendenza rispetto alle visioni neo-liberali che affermavano che per poter essere competitivi bisognava tagliare in welfare; al contrario, i paesi che funzionano e vincono sanno che debbono dare a lavoratori e famiglie una condizione di sicurezza. Non è vero come afferma Serra, il famoso economista e spregiudicato investitore vicino a Renzi, che bisogna lavorare come i cinesi: abbiamo alle spalle due secoli e mezzo di lotte sindacali, di strenua conquista dei diritti dei lavoratori e dobbiamo tenerceli stretti”. Tuttavia, la Germania, ancora una volta, “per la terza volta in meno di due secoli”, ha mostrato un atteggiamento ottuso, se non proprio ostile, nei confronti dei paesi dell’Europa del sud, in particolare la Grecia: “una partita che poteva chiudersi con qualche decina di miliardi è costata lacrime e sangue al popolo greco e ha creato una serie di sussulti che hanno portato all’affermazione dei partiti populisti e sovranisti. Faccio mia la visione di Andreotti che a pensar male alla fine non si sbaglia: non vorrei che questo effetto collaterale sia stato pensato e perseguito. D’altra parte, esiste nella classe dirigente tedesca un gruppo assai autorevole che ragiona in termini di ‘Europa forte’, una sorta di nocciolo duro con la Germania e i paesi satelliti, con la mitteleuropa e, forse, con la Francia, con un pezzo di Spagna – la Catalogna – e chissà anche con un pezzettino d’Italia, le regioni produttive del nord. In questo senso, non vorrei che alcune scelte politiche siano state assunte per creare le condizioni alla vittoria dei populisti e scaricare i paesi che si ritengono una zavorra. Sarebbe un peccato. L’Italia è un paese fondatore, ha giocato un ruolo importantissimo, è ancora un’economia forte”.
Anche l’atteggiamento assunto da Bruxelles innanzi alla presa di posizione del Governo sulla vicenda ‘Diciotti’ potrebbe andare in questa direzione. “L’Italia non è un paese razzista: in un quinquennio di crisi economica, però, le persone si sono trovate ad affrontare i problemi senza poter contare su nessuno; abbiamo avuto 890 suicidi di imprenditori, non sono stati aiutati. La domanda è: al netto della tara sui 32 euro al giorno per i migranti, come mai il Paese ha risposto con efficienza alla crisi migratoria e non altrettanto ai problemi dei cittadini italiani? Perché debbo essere solo – si domanda la gente – perché quando vado a chiedere una casa popolare il sistema di welfare non mi aiuta? Non è affatto un caso che oggi i poveri, o coloro che temono di diventarlo, votino in massa per i partiti populisti, che non è detto faranno i loro interessi tra l'altro; è la bocciatura fragorosa dei governi di centrosinistra che, in questi anni, non hanno saputo dare risposte a queste domande. D’altra parte, schierarsi al fianco dell’Europa è, oggi, davvero complicatissimo, una sorta di stigmata. Bisognerebbe avere la capacità di raccontare gli effetti positivi dell’Unione sul nostro paese e di smontare, altresì, alcune fake news che circolano; non è vero, ad esempio, che l’Italia riceve 10 miliardi a fronte di un contributo di 20, piuttosto diamo 13 e riceviamo 11 e mi sembra consono per il secondo paese industriale e manifatturiero del Continente. Non è vero che siamo stati lasciati soli nella gestione dei migranti: da inizio 2018, la Germania ha accolto 90mila immigrati, l’Italia 18mila; ci sono paesi che affrontano sfide molto più impervie. Lo ripeto: alcune uscite stonate di questi ultimi mesi, si pensi all'incauto Juncker, non vorrei fossero state fatte appositamente per spingere l’Italia fuori dal consesso europeo”.