Giovedì, 13 Settembre 2018 17:21

L'Aquila e la guerra delle città

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Solo qualche giorno fa si ragionava su queste stesse pagine di ricchezza e disuguaglianze territoriali (qui), facendo eco all’allarme lanciato qualche mese prima su L’Espresso riguardo l’economia della conoscenza che, unitamente ad altri fattori, starebbe uccidendo la provincia. Dinamiche già note agli addetti ai lavori e tangibili da chi si faccia anche solo una passeggiata fuori porta.

«Il sistema capitalistico funziona perché esistono persone e gruppi che vincono e altri che perdono. Se vincessero tutti non sarebbe capitalismo. E ci sono anche regioni che vincono e altre che perdono» scrivevano nel 1994 Georges Benko e Alain Lipietz, e in questo probabilmente si nasconde la chiave di tutto, il nodo con cui ancora oggi fare i conti.

Proviamo a ragionarne su L’Aquila e dintorni, dunque, lasciando da parte ogni pregiudizio, e assumiamo la consapevolezza che il tempo degli alibi e dei narcotici (politici ed economici) del post-sisma è finito e che il panem et circenses allevia i dolori ma non risolve i futuri.

Diciamo anche che L’Aquila non mostra (più) di avere una consapevolezza di sé e del proprio futuro. Ne è stata molto consapevole dalla propria fondazione fino agli anni ’70 e forse ’80, tra alterne vicende che le avevano comunque garantito una rendita di posizione, per quanto discutibile, data da alcune fortune posizionali oltre che configurative: il sistema policentrico della città-territorio su tutte. Non ne era (più) consapevole alle soglie del 2009, quando però la città si poteva ancora scegliere per la straordinaria qualità spaziale del suo centro storico e del suo territorio, in un connubio paragonabile a quelli di altre straordinarie città come Innsbruck o Vancouver. Ne è stata poco consapevole nel decennio del post-terremoto che si avvia a conclusione, tra cose fatte e da fare, con molte occasioni perse nonostante l’imponente effervescenza culturale e sociale che ha per un certo periodo di tempo sopperito alla drammatica carenza spaziale.

Non c’è stato un vero masterplan, come pure se ne usano da Copenhagen a Faenza, e neppure il piano regolatore è stato effettivamente e definitivamente aggiornato. Così si è deciso di volta in volta e un po’ per caso, quando si è deciso. Tutto in linea con i tempi, con questa condizione liquida e la politica dell’istante e dell’annuncio che stiamo attraversando. Quando si è certato di fare una qualche programmazione come nel 2010 con il famoso Avviso Pubblico per le Aree a Breve o nel 2012 con i Progetti Strategici, tra lungaggini burocratiche e passaggi amministrativi non si è stati capaci di ottenere risultati fisici e spaziali ma solo montagne di carte e tempo perso.

Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare, diceva Seneca; quando poi il vento è tutt’altro che favorevole nel bel mezzo della tempesta perfetta in cui sono scivolate le aree interne del Paese, la prospettiva rischia di farsi ancora più preoccupante. I bei palazzi ristrutturati con la gente che torna tra i vicoli rischiano di trasformarsi, con il passare della ricostruzione, in un passaggio illusorio e falsante.

La condizione delle aree interne è prestazionale, oltre che posizionale, e dunque non necessariamente coincidente con la condizione di marginalità geografica. Se è inverosimile pensare a una inversione generalizzata di tendenza, è possibile immaginare la costituzione di isole ed arcipelaghi di attrattività. E’ su questo aspetto che si dovrebbe giocare, innanzitutto, la partita. E poi, oltre alla guerra tra campagne e città, è in corso anche una guerra tra città che – stando a recenti previsioni del CRESME – in Italia vedrebbe le sole Milano, Torino e Firenze tenere botta rispetto alla competizione globale.

In tale contesto non basta annunciare, sui media o anche per legge, di voler fare il Capoluogo d’Abruzzo e la Capitale degli Appennini, senza che il ruolo venga guadagnato nei fatti e sul campo; raggiunto consolidando vecchie amicizie e immaginando nuove alleanze. Cosa possa e debba diventare L’Aquila è giusto che lo decidano i suoi cittadini e i suoi amministratori, sperabilmente dopo aver cercato di comprendere il quadro complesso della situazione che spazia dall’economia della conoscenza al digital divide, dalla multuculturalità alla sicurezza sismica e idrogeologica, dalla facilità di trovare un lavoro alla capacità di raccontare una storia unica e diversa.

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Dove si colloca L’Aquila oggi nel panorama locale, nazionale e internazionale, dove sta andando e dove potrebbe ancora scegliere di andare? Non è affatto facile rispondere ma proviamo per il momento a definire i termini del problema.

1. Cosa offrono le altre città per risultare attrattive? Qualche anno fa ci provò Richard Florida a spiegare i requisiti delle città vincenti del XXI secolo , salvo poi ritrattare almeno in parte le sue stesse tesi. Fino a quando ci sarà il sistema capitalistico a governare i funzionamenti del mondo, ricordavamo in apertura, persone e ricchezza andranno verso le città capaci di offrire lavoro, benessere e accesso alla conoscenza.

Questi tre requisiti possono essere generati da una miriade di fattori ma, se pensiamo a quali caratteristiche debba avere lo spazio in cui si verificano, questo deve essere evocativo, facilitare la mobilità e l’interazione tra persone di culture diverse, essere sufficientemente flessibile da adattarsi al continuo mutare delle esigenze e sufficientemente variegato da far convivere diversi usi e diverse funzioni.

2. In cosa si caratterizzano la città dell’Aquila ed il suo territorio? La ciambella aquilana esterna alle mura e alla periferia più consolidata di Pettino, Torrione e Via Strinella è ormai diventata un brano di metropoli piccola, per come è stata felicemente definita da Pepe Barbieri, o metropoli di provincia, o metropoli nella natura; si tratta di un fenomeno che riguarda quelle realtà che vanno trasformandosi in aree metropolitane in dialettica costante tra la continuità della natura e la discontinuità della costruzione.

Come ci siamo arrivati? I primi dieci anni del nuovo millennio ci hanno lasciato una prima espansione edilizia e la dismissione industriale della città, con la sua forma urbana policentrica del capoluogo primus inter pares che riusciva ancora a reggere e, in qualche misura, ad attrarre. La gestione emergenziale del sisma e ciò che ne è ulteriormente scaturito hanno interrotto il rapporto virtuoso che si fondava sulle qualità urbane del centro storico e sulle qualità ambientali del territorio.

Alla mancanza di lavoro e alle difficoltà di accesso ai servizi si è aggiunta, quindi, la crisi spaziale con perdita pressoché assoluta benché temporanea del centro storico. Nell’attesa, retta grazie al “contado” e al motore economico della ricostruziuone, si è definitivamente sviluppata una città diffusa energivora che va da Poggio Picenze a Scoppito e San Vittorino con cui il ritorno dei centri storici dovrà fare i conti, alla ricerca di un equilibrio.

3. Quali i temi degli ultimi dieci anni? Molte sono state le decisioni cruciali che hanno riguardato in questi ultimi anni L’Aquila come città capoluogo investita in pieno, ricordiamolo, da un terremoto fino al IX grado della scala Mercalli.

Volendosi avventurare in un elenco acritico in ordine sparso e incompleto, queste riguardano:

  • la localizzazione delle 19 aree da progetto C.A.S.E. e la conservazione (o meno) del policentrismo;
  • il GSSI e ciò che ne consegue;
  • la destinazione funzionale dell’area di Piazza D’Armi;
  • vocazione e ruolo strategico della campagna e della montagna aquilana;
  • metropolitana di superficie e corsie ciclopedonali;
  • riconversione energetica, 5G e sottoservizi;
  • ricostruzione come occasione di rigenerazione urbana;
  • il più grande cantiere d’Europa come raccolta di know-how incubatore di futuro;
  • centro storico car-free;
  • sicurezza come contingenza o come scelta;
  • le criticità del tessuto storico e il rilancio del sistema Corso-Piazza Duomo;
  • patrimonio abitativo, attrattività, nuove vocazioni;
  • il fascio naturalistico e infrastrutturale del fiume Aterno;
  • il servizio di trasporto pubblico;
  • servizi o poli di eccellenza.

4. Quali i fatti compiuti? In questo contesto, con la ricostruzione pubblica ancora al palo e lasciando da parte quella privata, registriamo come nuovi fatti urbani compiuti: 

  • il sistema Basilica di Collemaggio - Parco del Sole;
  • il sistema Palazzo dell’Emiciclo - Villa Comunale;
  • capillarità e ridisegno delle stazioni ferroviarie;
  • sperimentazione 5G;
  • smart tunnel dei sottoservizi;
  • la nuova viabilità di Viale Corrado IV e il sistema a rotatorie;
  • l’Auditorium del Parco.

5. Quali i principali temi ancora sul tavolo? Ciascuno di questi fatti attiene a uno specifico tema urbano o territoriale e rimanda ad altri temi, affini o differenti che siano, o semplicemente a interventi rimasti in sospeso o inevasi.

Gli edifici pubblici avrebbero dovuto tracciare la via di una sapiente reinterpretazione dell’esistente, in luogo del meno adatto com’era-dov’era, e invece sono rimasti ingessati tra i puntelli delle procedure e dei ricorsi. E così la via è stata tracciata dal mix esplosivo tra assemblee condominiali e capacità dei tecnici di turno, restituendoci una città talvolta peggio di com’era.

Latita un dibattito sul futuro di Santa Maria Paganica; per la De Amicis non si riesce a immaginare altro che la scuola e per gli uffici comunali non si riesce a prendere decisioni che dotino la città e il territorio di una sede degna di questo nome; l’ex Ospedale Psichiatrico di Collemaggio non vede sfruttate le sue enormi potenzialità e la ricettività turistica è delegata all’iniziativa privata, se c’è. In ultimo, non per importanza ma perché sotto gli occhi di tutti, manca la sicurezza delle scuole e degli uffici pubblici, senza la quale qualsiasi altro ragionamento rischia di farsi drammaticamente velleitario.

Numerose attese riguardano poi il tema della mobilità. Alcune criticità propriamente logistiche continuano a rimanere irrisolte, nonostante le importanti risorse investite nel post-sisma. Quello della trasversalità, per esempio, per cui L’Aquila è più facile a percorrersi in lungo che in largo e i sistemi Mausonia - Aterno, Via XX Settembre – Viale Corrado IV e Via Amiternum – Viale Aldo Moro risultano fasci infrastrutturali lontani, con pochi e talvolta inadeguati punti di contatto. Basti pensare all’imbuto in zona Rivera e al dedalo sotto Porta Napoli. Se ne torna a parlare, ogni tanto, senza che alcuna strategia venga messa realmente in campo.

Altra tematica essenziale, affine alla precedente e finalizzata alla buona qualità della vita del centro storico, riguarda i nodi di scambio ferro-gomma, auto-bici-pedone, motore-elettrico: 

  • intermodalità di scala regionale nella parte ovest della città e, più precisamente, nel triangolo Hotel Amiternum - Stazione Ferroviaria – Viale della Croce Rossa, vista l’ambizione ridotta a giudicare dalle previsioni per la stazione RFI e l’occasione persa delle possibili stratificazioni di Piazza d’Armi;
  • intermodalità finalmente efficace e stringente ai margini delle mura, ma con grandi capacità penetrative nell’esteso centro storico della città, sui modelli di molte altre città tra cui Perugia e Urbino con capacità di innovazione che offra riscatto per il ritardo e le “scorie” che i processi avviati nel passato hanno fatto gravare sulla comunità.

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Esiste poi il grande tema della qualità degli spazi pubblici di periferia, spesso generati nel difficile rapporto tra logistica e spazio.

La chiave sta nel mettere in campo adeguate azioni capaci di attribuire caratteristiche spaziali combinate a funzioni e servizi di prossimità. Si tratta di pianificare, progettare e finanziare interventi anche minimi e diffusi strategicamente che sappiano recuperare all’uomo interstizi, spiazzi, bordostrada ceduti frettolosamente al degrado e all’automobile nel periodo dell’emergenza come anche in occasione della prima espansione urbana (Pettino, Cansatessa, Coppito, San Giacomo, Gignano, ecc.).

Una tematica questa che a L’Aquila non è stata ancora mai affrontata secondo i parametri e utilizzando i materiali fisici ed urbani della città contemporanea, indugiando con quelli – in tali contesti inefficaci - della città storica. Da tutto questo ne deriva che uno spiazzo a Pettino, senza determinate accortezze, non si trasformerà mai in una piazza così come il decoro di Viale Corrado IV o delle numerose rotatorie cittadine mal si risolve con paramenti in finto pietrame o statue in stile novecento.

Va ricordato che esistono diversi progetti di ampio respiro per importanti zone o arterie cittadine a riguardo di Piazza D’Armi, di Via della Croce Rossa, del sistema Porta Barete - Santa Croce - Via XX Settembre - Villa Gioia. Tutti questi sono ancora fermi, eppure dopo quasi dieci anni si rimanda la loro realizzazione. Si è discusso recentemente di Piazza Duomo laddove esiste un problema di decorso, riconoscibilità ed effettiva praticabilità e per la cui risoluzione occorrono coraggio e capacità immaginative che vadano oltre l’assetto esistente e l’arte dei giardini.

Dal punto di vista delle strategie, infine, L’Aquila attende decisioni su scale opposte ma di ugual portata per il proprio futuro: l’utilizzo dell’ingente patrimonio abitativo pubblico come volano di attrattività e un ruolo ben definito di area vasta in quella che è già stata definita Macroregione Mediana da Pierluigi Properzi e altri, più verosimilmente come partner complementare di Roma piuttosto che di Pescara. Un obiettivo che parrebbe raggiungibile qualora si tornasse a giocare di squadra con quelle porzioni di territorio che hanno consolidati legami con la Capitale, replicando la felice esperienza della Randstad Holland , per esempio, a cui molti aspetti latenti del caso aquilano farebbero pensare.

E’ una disamina complessa che approfondiremo, se avrete ancora voglia e pazienza di leggerci.

*Marco Morante – architetto e dottore di ricerca in architettura e urbanistica

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