Non c'è niente da fare: il rugby all'Aquila vince sempre.
Non parliamo dei risultati sul campo, non parliamo della sonora sconfitta rimediata dall'Italia oggi pomeriggio contro l'Irlanda: parliamo di una cultura diffusa, da decenni carattere identitario peculiare e distintivo del dna del comprensorio aquilano, e che dimostra di emergere a ogni occasione, ordinaria o straordinaria che sia.
Quest'ultima, stavolta, era rappresentata dalla tappa della Dmax Clubhouse all'Irish Café sulla via Mausonia [leggi l'articolo]. La televisione del gruppo Discovery, che detiene l'esclusiva per la trasmissione delle partite del Sei Nazioni, ha scelto L'Aquila per concludere il suo viaggio nelle capitali del rugby italiano. Un viaggio che aveva toccato precedentemente anche Roma, Padova e Parma, quest'ultima campo base delle attività federali.
Diciamoci la verità: L'Aquila, forse insieme a Rovigo, è l'unica città in Italia che riempie i pub per le partite della nazionale, come accade per il derby della madonnina del calcio in tutti gli altri capoluoghi (compreso quello abruzzese, per carità) d'Italia. Oggi c'erano uomini, donne, anziani e bambini, gente che ha giocato per anni in nazionale e ragazzini che sognano di diventare un giorno come il concittadino Andrea Masi.
L'Aquila è uno dei pochi posti in tutta la penisola che vede compagini seniores in tutti i campionati nazionali, dall'Eccellenza alla C1. Certo, il movimento della palla ovale ha vissuto momenti migliori: la sua squadra principale da anni boccheggia tra la massima serie e la seconda categoria, e anche il movimento di base soffre di cifre meno lusinghiere rispetto al passato. Tutto questo ha evidenti cause (anche) nelle lotte fratricide, nella mancanza di sinergia e collaborazione - anche strumentale, non si fa in questa sede l'apologia dell'unità per l'unità, ci mancherebbe - e del protagonismo che ognuno degli attori principali del rugby all'Aquila (e dintorni) ha voluto nell'arco degli anni imporre.
Problemi - di cui parliamo spesso - a parte, la realtà si presta comunque a letture meno sociologiche e più pragmatiche: il rugby piace agli aquilani e, nonostante tutto il Paese viva un momento di bassa marea in termini di partecipazione alle manifestazioni sportive (basta vedere le cifre degli spettatori negli stadi), all'Aquila e dintorni la palla ovale viene seguita ogni settimana, nelle partite delle varie categorie seniores e giovanili, da migliaia di persone. Cifre mostruose, per uno sport che sarebbe dovuto qualche anno fa decollare, e che invece rimane ancorato all'annovero delle discipline considerate minori.
Come abbiamo sottolineato anche un anno fa [leggi l'articolo], il "merito" della tradizione rugbistica dell'Aquila non va certo dato alle caratteristiche intrinseche dello sport con la palla ovale, al di fuori di ogni retorica - divenuta ormai stucchevole - secondo la quale il rugby sarebbe il nobile sport dei corretti. Gli aquilani non sono mai stati tutti nobili, né è mai esistita nella storia una popolazione che abbia della "correttezza" un tratto distintivo.
Ora, se il rugby sta all'Aquila (e al suo comprensorio) come lo zafferano sta a Navelli o la neve all'Alto Sangro, perché non considerarla una volta per tutte eccellenza culturale e farne asset strategico per il futuro? Perché la maggior parte degli addetti al lavori (e non) ignorano completamente le possibilità, in termini di benessere sociale e perfino economico, che può dare una eccellenza all'interno di un territorio? Perché la pianificazione della crescita organica del rugby nel territorio aquilano non viene neanche annoverata tra le ipotesi di una classe dirigente miope, che preferisce (solo) propagandare di presunto turismo e supposta città della conoscenza?
Il rugby e lo sport in generale, al pari ad esempio dello sviluppo del Gran Sasso e del ritorno a una (perduta) cultura di città di montagna, sono innegabilmente fattori di benessere della comunità che vive all'interno di un determinato territorio. Basta vedere i sorrisi, la passione, il divertimento di un qualsiasi sabato pomeriggio in "diretta televisiva" nel pub di turno.
E qual è, dunque, l'obiettivo che si pone una comunità, se non quello di tentare di darsi il maggior grado di benessere che le è possibile?
La fotogallery della Dmax Clubhouse