"Non esistono lingue morte ma solo cervelli in letargo", scrive il romanziere Carlos Ruiz Zafon ma la maggior parte degli studenti sembra non pensarla così. A L’Aquila, come in Italia.
A parlare sono i dati. Per il 2013/2014 a L'Aquila gli iscritti al primo anno del liceo classico sono 220, tanti quanti l’alberghiero, che registra 217 iscritti. A tenere alta la testa è invece il liceo scientifico, con 512 iscritti. Seguono gli istituti tecnici: 186 iscritti per amministrazione finanza e marketing (Itc), 141 per informatica e telecomunicazioni, 83 per meccanica e meccatronica e 19 per l’agrario. Tra gli altri licei si registrano 180 iscritti per i linguistico e 99 per l'artistico.
Anche i dati nazionali confermano sempre più un calo di interesse per Omero e Virgilio: solo 31 mila ragazzi italiani (6 su 100), quest'anno, hanno scelto di intraprendere il percorso di studi del liceo classico.
Un dato, secondo alcuni, preoccupante, se si calcola l’andamento degli anni precedenti: nel 2007, ad esempio, i ragazzi che sceglievano il classico erano il 10% degli iscritti al primo anno (in totale 65 mila studenti). Cifra da allora scesa inesorabilmente, fino ad arrivare al 6,6% dello scorso anno.
In questo quadro generale, il centro sud, Abruzzo compreso, mantiene percentuali più alte rispetto al nord: in Emilia Romagna gli iscritti al classico, quest’anno, sono appena il 3,5 %, mentre nel Lazio sfiorano il 10% della totalità di iscritti alle scuole superiori.
Un trend, quello della maggiore appetibilità delle materie scientifiche, che si rispecchia anche nelle scelte universitarie: molte matricole optano per facoltà più “concrete” quali Ingegneria, Informatica o facoltà mediche, che offrono, sulla carta, maggiori possibilità di trovare subito un lavoro.
Il futuro dei coraggiosi laureati nelle facoltà umanistiche resta, insomma, se non nero, quanto meno incerto. Ma i laureandi non si lasciano abbattere e, approfittando della crisi che ha riscritto le regole del mondo del lavoro, puntano tutto sul reinventarsi e rimettersi in discussione per offrirsi al meglio in diversi settori.
Laura, laureata in filologia all'università dell'Aquila, sa che insegnare unicamente le sue amate “lingue morte” potrà essere davvero un’impresa; per questo ha inserito nel suo piano di studi esami “bonus” che le consentiranno di insegnare anche italiano e geografia nelle scuole medie. Un compromesso, certo, ma sempre meglio della disoccupazione con cui laureati e laureate provenienti dallo stesso percorso di studi devono in molti casi fare i conti.
Che un futuro per gli umanisti sia possibile ce lo dimostrano, comunque, altri paesi europei, in primis la Francia. Nonostante anche Oltralpe ci siano stati pesanti tagli alla cultura, il governo garantirà ai neo laureati in materie umanistiche qualche opportunità in più. Ad esempio attraverso un piano assunzioni di 55 mila bibliotecari, che verranno impiegati nelle biblioteche pubbliche francesi e in quelle universitarie, come testimoniano i dati diffusi da uno studio interministeriale effettuato dal Ministère de l'enseignement supérieur et de la recherche ha commissionato all’Inspection générale des bibliothèques (IGB) lo scorso 4 aprile. Si tratta di figure distanti da quelle che conosciamo perché, in alcuni casi, si tratta di docenti-bibliotecari ed in altri di docenti-documentaristi. Personale che sta ampliando sempre più le proprie competenze per rendere le biblioteche luoghi di maggiore apertura ai cittadini, anche attraverso l’importante passo della digitalizzazione.
Tuttavia, anche nella bella Francia il liceo classico è stato soppiantato, da una decina d’anni, da quello scientifico; segno, forse, che la crisi che influenza le scelte dei ragazzi potrebbe non essere solo di tipo economico ma anche e soprattutto culturale.
Oggi tutto ciò che è antico perde quella connotazione di rispetto e fascino che lo ha contraddistinto per secoli per diventare semplicemente “vecchio”; dalle lingue, dialetti compresi, all’arte, alla storia, alle parole di antichi filosofi, fino ad arrivare alle città e, a questo punto, anche alle materie scolastiche.
Ciò che è stato e ciò che siamo si spezza in due schieramenti opposti e ognuno di noi sembra dover scegliere da che parte stare. Eppure, senza cadere nei soliti cliché, scuola e università dovrebbero garantire un pensiero critico e libero che prescinda da pregiudizi e dovrebbero insegnare prima di tutto l’amore per il sapere ( che non a caso è l’etimologia della parola “filosofia”).
Un Paese che vuole cancellare con una passata di spugna il suo patrimonio linguistico, artistico, storico e ritrovare la sua identità nel nuovo, nel pratico, nel moderno e nell’utile non ha futuro, neanche nei settori più avanzati della scienza e della tecnologia.
Se non si vuole dar retta a Ovidio, Virgilio e Seneca, forse coloro che di “vintage” ammettono solo l’abbigliamento, terranno più in considerazione l’esperienza di vita di Steve Jobs raccontata nel suo celebre discorso ai neolaureati di Stanford.
Questa volta però non bisogna soffermarsi allo “Stay angry, stay foolish” ma andare oltre per capire come chi ha rivoluzionato un’epoca nella tecnologia sia stato colpito e influenzato inaspettatamente anche da un “inutile” corso di calligrafia.
E' quanto si evince da questo estratto del discorso, che in pochi ricordano: “Il Reed College all'epoca offriva probabilmente la miglior formazione del Paese relativamente alla calligrafia. Attraverso tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai dei caratteri serif e san serif, della differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, di che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era artistico, bello, storico e io ne fui assolutamente affascinato”.
“Nessuna di queste cose” continua Jobs nella sua famosa prolusione “aveva alcuna speranza di trovare una applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo tutto per il Mac. E' stato il primo computer dotato di una meravigliosa capacità tipografica. Se non avessi mai lasciato il college e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o font spaziati in maniera proporzionale e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno.”