Di Ilaria Carosi * - Che cosa si può dire, di nuovo, dopo 7 anni?
Esiste qualcosa che non sia stato detto, scritto, ascoltato, letto, visto di già?
Probabilmente nulla. C’è una ritualità del dolore (e della rabbia) che ci accompagna da sette anni ormai.
Lo sappiamo, ognuno lo percepisce, a fasi alterne anche nel corso dell’anno, oltre che in questa due giorni cittadina, del 5 e 6 di aprile. Non ce lo diciamo apertamente ma è come se avessimo sentito l’esigenza di estendere e spalmare su un tempo più lungo quel che dentro ad un unico giorno troppo stretto stava. In un’ideale congiunzione del prima e del poi che la tremenda scossa delle 3.32 ha distanziato in modo assolutamente identico alle crepe che si sono aperte nei muri. Con una frattura. È questo che fa un trauma. Crea una cesura psicologica tra “prima” e “poi”, interrompe la continuità dell’esperienza di un individuo, quando si è fortunati e un “dopo” ti è concesso di viverlo; e lo fa, lasciando spesso degli elementi non integrati, scissi, che vagano come schegge impazzite nell’esperienza di un sopravvissuto. Perché è questo, che siamo. Sono lunghi i tempi di ritorno e di elaborazione di grandi traumi, me ne accorgo ascoltando quel che in giro si dice e respira, ce se ne accorge anche solo scorrendo le bacheche social della maggior parte degli aquilani. “…perché quest’anno fa più male?”, leggo su uno di questi non luoghi che hanno assunto la dimensione di veri e propri spazi fisici e mentali?
Chissà.
Però lo penso anche io che faccia più male o, comunque, che questa ricorrenza triste venga vissuta con una diversa intensità, quest’anno. Lo penso quando alla testa del corteo, ormai prossima alla Casa dello Studente, mi volto per guardare la coda delle fiaccole e non ne vedo la fine.
Cosa è cambiato? Forse è il livello di consapevolezza a cambiare, nel tempo. Me lo conferma, indirettamente Marco, sopravvissuto alla strage di Viareggio, del giugno 2009, le cui parole mi riecheggiano nella testa, stamattina. Le prime persone che ha visto, dopo aver riaperto gli occhi dal coma, le osservava parlare come fosse “in una bolla”. Sapeva di conoscerle, le sentiva pronunciare parole che cascavano addosso a lui inerme con la stessa imprevista violenza dei mattoni della sua casa. Lui, le accoglieva con la stessa rassegnazione con cui “accolse” il calore rovente sulla pelle, quando si rese conto di non avere altra scelta. E non capiva, non aveva modo, se non attendendo. Di essere estratto vivo, prima; che la sua testa riuscisse ad integrare i pezzi, poi. Il che accadeva solo molto tempo dopo, quando le persone che erano andate a trovarlo se ne erano, ormai, andate via. Andati per sempre, piuttosto, furono sua moglie e due dei suoi tre figli, in quella maledetta notte.
È il tempo che restituisce senso, quando va bene. Qualche volta i costi psicologici di questa elaborazione sono altissimi e passano attraverso il dolore per chi o quanto sia stato perso e attraverso la rabbia per quanto vorresti almeno riconosciuto da uno Stato che hai percepito distante, lontano, quando non del tutto complice di quanto si è subito. Lo sa bene Mario, che perse il cognato venticinquenne nella strage di Piazza della Loggia, a Brescia. Mario che porta con fierezza i suoi 71 anni sui nostri sampietrini acciaccati, non trascurando di continuare a scattare fotografie. Di questi suoi anni, oltre la metà li ha impiegati nella ricerca di una Verità che forse restituirebbe un Senso -di giustizia, quantomeno. Perché, aggiunge guardandomi negli occhi che si intristiscono impercettibilmente nell’apprendere il mio lutto, “cose così la vita te la cambiano per sempre”.
È lo stesso “sempre” che leggo negli occhi di Antonio, il tempo immobile in cui continua a far vivere sua figlia, quando ne parla, rigorosamente al tempo presente. Non gli ho chiesto se l’avesse portata lui a scuola, quella mattina, so che è stato lui il primo a ritrovarla, tra le macerie della scuola elementare di S. Giuliano di Puglia, emblema di un paese che pure continua a piangere, negli anni, sulle proprie gravissime mancanze.
Il senso del tempo, della rabbia e del dolore lo intuisci solo così. E fa male sempre, se lo ascolti dall’esterno, ancor più se lo vivi o lo hai vissuto in prima persona.
Cosa consola o può essere minimamente consolatorio, in situazioni di questo tipo?
Elaborare i lutti. Andare avanti. Vivere. Scegliere. Pensavo a questo martedì sera, mentre scambiavo qualche parola con Francesca, cui mi lega un affetto di “sorellanza” e mi accomuna quel palazzo che si è portato dietro le vite di mia sorella e suo fratello. Solo la morte non lascia scelta e il sospetto che le loro scelte siano state condizionate da quanto accaduto a L’Aquila nei giorni precedenti al sisma, non ci dà pace.
Non è facile elaborare i lutti conseguenti a morti traumatiche, non naturali. Lo ha reso ancor più difficile l’essere costretti a privarci -a causa della devastazione che colpì l’intero territorio- anche delle più elementari forme di ritualità che non solo mitigano il dolore ma contribuiscono a pieno al processo di elaborazione del lutto. Quelle pratiche di bei vestiti e fiori colorati che sono assolutamente necessarie non tanto ad accompagnare chi se ne va ma a fare da “consolo” solo e soltanto a chi resta. Per questo abbiamo bisogno di ritualizzare ancora e ancora anche il dolore e restiamo attoniti e in silenzio ogni volta che la madre di Vassilis, studente greco, ne grida il nome al vuoto aggiungendo quel “mou”, mio, che solo una madre capisce, quasi glielo avessero tirato via dalle viscere.
Finirà, forse, un giorno. Non è ancora questo il tempo. Rabbia e dolore si intrecciano e si tengono per mano. E il dolore degli altri simili a noi- riuniti nel Comitato Nazionale Vittime di Stragi che da anni ormai ci affianca in fiaccolata- è anche un po’ nostro, proprio come il nostro diventa il loro. E -almeno per una notte- si dimostra falso l’adagio che vuole “per tutti il dolore degli altri (…) dolore a metà”.
* Psicologa e psicoterapeuta