C’era una volta Lucoli.
Nell’immaginario cittadino Lucoli è il paese da attraversare per arrivare a Campo Felice o il paese di provenienza di qualche collega o amico. In realtà il Comune montano di Lucoli ha una storia ricca e gloriosa non solo per avere dato i natali a Pietro Marrelli, avvocato mazziniano membro della Carboneria, condannato a 16 anni di carcere per cospirazione, ma per aver avuto un’economia fondata sulla pastorizia e sul lavoro del bosco in una splendida valle attraversata da un piccolo corso d’acqua.
Con il tramonto della civiltà contadina, l’urbanizzazione e l’industrializzazione, Lucoli inizia a spopolarsi e decide di darsi un futuro legando le sue sorti al turismo monotematico invernale dipendente dagli impianti sciistici di Campo Felice. Fino a qualche decennio fa sopravviveva ancora qualche scampolo di vita rurale e il paese, soprattutto d’estate, era molo animato, tant’è che qualcuno scrisse sul lavatoio di Colle di Lucoli “alla fonte ci sarà sempre qualcuno”; così è stato, a qualsiasi ora si attraversava il Colle, alla fonte c’era sempre qualcuno. Ai margini del percorso stradale che conduce a Campo Felice insistevano molte attività commerciali e di ristorazione frequentate non solo da turisti ma anche da numerosi allevatori. Poi arrivò lo “sviluppo” legato agli impianti sciistici, sorsero numerose costruzioni edili, fu realizzato il casello autostradale di Tornimparte, in ultimo la galleria di Forca Miccia per collegarsi con le Rocche.
Il risultato fu disastroso: residence di Casamaina abbandonati, sequestrati, in rovina; Prato Lonaro deserto e spettrale; lottizzazioni a Collimento mai completate; villette a schiera buttate qua e là senza nessuna congruenza con il paesaggio e invendute. Nel frattempo i collegamenti viari da Tornimparte verso le Rocche tagliavano definitivamente fuori Lucoli anche dai semplici transiti. Lo spopolamento è aumentato e in ultimo è arrivato anche il commissario prefettizio a certificare la crisi economica, politica e sociale di quello che rimane uno dei più bei paesi appenninici.
La vicenda di Lucoli è emblematica di come l’adesione acritica, dogmatica, un atto di fede, ad un modello di sviluppo finisce per compromettere le poche possibilità di futuro di un territorio montano. Negli anni in cui tutto questo accadeva i centri montani hanno vissuto un forte e continuo spopolamento: dal 1920 ad oggi il 90% della popolazione delle aree montane è andata perduta, in Italia il 43% dei comuni è in area montana, vi risiedono 9 milioni di persone, il 14% della popolazione, su una superficie che rappresenta il 49% del totale. In Abruzzo i dati sono ancora più pronunciati: il 65% dei comuni è montano, vi abita il 23% della popolazione ed occupano il 67% della superficie (Rapporto Montagna 2017, Fondazione Montagne Italia).
Lo spopolamento delle aree rurali ha origine ormai secolare (dalla rivoluzione industriale inglese alle enclosures di marxiana memoria) e riguarda l’intero pianeta, non a caso la maggior parte della popolazione mondiale vive ammassata in enormi agglomerati urbani: Shanghai 27 ml di abitanti, Pechino 21, Lagos 21, Delhi 16, e si calcola che in molte grandi metropoli come Lima, Città del Messico, Lagos ci sia l’equivalente di un quarto della popolazione totale non censito, che vive in enormi favelas! L’effetto globale è l’aumento impressionante della povertà, del conflitto sociale, della disuguaglianza economica. Diversi rapporti economici internazionali segnalano che il 10% della popolazione del pianeta detiene circa l’80% della ricchezza globale mentre l'1%, da solo, arriva a concentrarne su di sé il 50%.
Il filosofo francese Lefebvre distingue tra l’epoca urbana in cui siamo entrati e quella industriale da quale veniamo e ci dice che lo spazio urbano viene plasmato in base a una logica interna all’espansione capitalistica; Marc Augé, sociologo francese, introduce nel 1992 il famosissimo concetto di Non-Luogo: i Non-Luoghi sono spazi generici, di accumulazione; nella città contemporanea sono i supermercati, i quartieri residenziali, le autostrade. La loro vocazione non è territoriale, non crea identità singole, rapporti simbolici e patrimoni comuni, ma piuttosto facilita la circolazione, dunque i consumi. Infatti una società che abita i non-luoghi è più esposta alla propaganda, all’impoverimento del linguaggio, all’indifferenza civile, alle politiche del consumo. L’uniformità insediativa dei (non) luoghi per abitare, lavorare, divertirsi, comunicare, impedisce di affezionarsi ad essi.
L’antica polis era fondata sul culto di un eroe morto, la città cristiana è fondata sul culto di un santo eroe, la società che abitava la città pre-rivoluzione industriale era fondata sui valori dell’eroe, santo o pagano che fosse. La città moderna è fondata invece sugli affari, sulla possibilità che ha il capitale di espandersi, infatti ormai parliamo di agglomerati urbani, la città è abitata dal cittadino, colui che è titolare di diritti e doveri ed è protetto dallo Stato, l’agglomerato è abitato da individui/ massa agglomerati e consumatori.
Sappiamo che esiste tra l’esperienza degli spazi e dei luoghi e il vissuto psichico una correlazione, i correlati psicologici del vivere nei non-luoghi risultano essere la perdita di identità, la frammentazione sociale, l’isolamento, la solitudine, depressione e sradicamento. Vissuti psichici di miliardi di individui che sempre più spesso cercano nei luoghi rurali un nuovo modo di essere al mondo, anche se la tendenza continua ad essere quella all’urbanizzazione e alla crescita smisurata degli agglomerati urbani. Se questa è la tendenza si capisce come il vivere in montagna rappresenti un opus contra naturam, cioè un qualcosa che si oppone alla tendenza dominante. Questa difficile opera è addirittura ostacolata dalle politiche messe in atto dai governi che si sono succeduti almeno negli ultimi trent’anni: dimensionamenti scolastici che hanno portato alla chiusura di quasi tutte le scuole superiori nei centri montani e all’accorpamento della scuole primarie, chiusura dei presidi sanitari, razionalizzazione, che poi è risultata essere chiusura dei servizi al cittadino come farmacie, sportelli postali e altro ancora.
In questo modo vivere nei centri montani è divenuta una scelta eroica che porta con sé correlati psicologici come il senso di estraneità al Mondo, accompagnato da sensazione di non-esserci o di essere diverso dagli altri. La strada che porta a ripopolare o quanto meno salvare i paesi montani è quella che passa per la possibilità di rifondare una comunità che è fatta di valori, ideali, luoghi, tradizioni, personaggi, animali, storie. Se si daranno gli strumenti per ricreare una collettività allora questa si baserà su una struttura socioeconomica.
Su questo punto si scontrano due modelli diversi, quello sviluppista e quello dei servizi e comunitario. La parola “sviluppo”, come ci ricordano Pasolini e Latouche, fa riferimento alla mistica della crescita infinita, per questo ha smesso da tempo di essere una cosa scientifica, è diventata mistica, mitologia, religione. Per dirla con le parole di Latouche “un feticcio imbroglione che anestetizza le sue vittime, il vero oppio dei popoli, che garantisce solo i pochi ricchi a danno di tutti gli altri”. Il modello sviluppista si fonda sulla teologia del PIL, puntando a creare dei non-luoghi ovunque, in montagna come al mare, omologando culture diverse, stili di vita e di consumo, sacrificando il genius loci. Il modello dei servizi e comunitario cerca invece di ricostruire comunità riaprendo scuole, presidi sanitari, offrendo servizi culturali, digitali, riformando enti pubblici (accorpare i Comuni e togliere alle agonizzanti Province la gestione delle strade, ad esempio), sostenendo le economie legate ai luoghi; in questo modo si restituisce un’identità collettiva basata su una coesione sociale e su una valorizzazione di storie e tradizioni. Si ridà vita allo Spirito del Luogo.
Le politiche delle Grandi Opere (legge Obiettivo di Berlusconi, Sblocca Italia di Renzi) trasformano i territori i non-luoghi, aperti solo per il consumo e il transito, non certo per viverci. Quei fondi dovrebbero essere investiti per una politica della montagna che preveda al bisogno l’adeguamento dei trasporti e delle infrastrutture (evitando opere sovradimensionate che fanno la fortuna di progettisti e imprese), ma che dia soprattutto la possibilità di creare una comunità con un suo genius loci. Da queste poche righe si intuisce come i paesi montani non saranno salvati dal tentativo destinato a fallire di portare la città in montagna o di ammassare quante più persone possibile in un luogo montano in un determinato periodo dell’anno. Se questa politica funziona in determinate situazioni non vuol dire che può essere applicata ovunque (si ricorderà la proposta di far diventare Tornimparte come Roccaraso!) e soprattutto non è sufficiente a creare una comunità, un luogo per vivere (basti pensare alla tantissime stazioni balneari, vive per tre mesi l’anno, spettrali per gli altri nove mesi).
Quando affrontiamo questo tema ricordiamoci di Lucoli…