Pubblichiamo il messaggio dell'arcivescovo dell'Aquila, il cardinale Giuseppe Petrocchi, per il decimo anniversario del terremoto del 6 aprile 2009
Per la decima volta, quest’anno, sentiremo i rintocchi della campana che ricordano i 309 “martiri” del terremoto.
Facciamo memoria di tutte le vittime di quella immane tragedia; le stringiamo a noi con un unico abbraccio e, al tempo stesso, le chiamiamo per nome: una ad una. La “notte crocifissa” del sisma ha suscitato lunghi giorni di dolore, ma anche ha acceso la luce di una graduale “risurrezione”, più forte della furia devastante del sisma. Le lacrime versate si sono rivelate feconde, ed hanno generato una abbondante fioritura di fraternità e solidarietà.
“Il terrremoto dell’anima”
La ricorrenza - che celebriamo con raccoglimento e volontà di ricostruzione “integrale” - ci obbliga a fare, insieme, una seria revisione. Per questo, non parlerei di “terremoto”, ma di “terremoti”, non solo perché abbiamo avuto nuove repliche telluriche (nel 2016 e 2017), ma anche perché il sisma è un evento complesso e multiforme, difficile da cogliere nella sua distruttiva “globalità”.
Quando sono venuto a contatto con gli effetti demolitivi delle scosse, mi sono accorto che, accanto alle macerie “visibili” (materiali), c’erano pure quelle “invisibili” (spirituali); allora ho cominciato a parlare di “terremoto dell’anima”, che costituisce l’altra faccia (quella meno esplorata) della storia del sisma.
I sussulti geologici, che hanno fatto violentemente tremare il nostro territorio, non solo hanno demolito case e cose, ma hanno attivato anche “sciami problematici” profondi, che si sono propagati nella mente, nei sentimenti e nelle relazioni della nostra popolazione, producendo fratture e lasciando rovine: “nelle” e “tra” le persone. E queste “faglie” interiori, che caratterizzano il terremoto “dentro”, sono più dannose e durano più a lungo delle “onde” sismiche che determinano il “terremoto “fuori”.
Raggiungere il dolore nascosto
Ci sono luoghi di L’Aquila (tra cui il Duomo e la chiesa di S. Maria Paganica,,,), come anche nelle sue frazioni, in cui purtroppo il terremoto ancora si vede e “si respira”, con immensa tristezza! Viene da dire, guardando quei ruderi: tanti danni, per troppi anni.
Ma ascoltando la gente, si coglie un dolore che ha bisogno, anzitutto, di essere captato, accolto e condiviso. Ho notato che tanti hanno una comprensibile ritrosia a raccontare ciò che portano negli angoli più remoti dell’anima: anzi, loro stessi hanno difficoltà ad entrare nei “ripostigli” psichici in cui hanno cumulato - e chiuso a chiave - emozioni sconvolgenti e domande che non trovano risposte. Occorrono perseveranza e robuste dosi di “amore samaritano” per aprire queste porte sbarrate e scrutare, con umiltà e affetto, gli “spazi” psicologici e sociali in cui ricordi e sentimenti sono gelosamente custoditi. Sono traumi che non si superano con il semplice spostamento geografico, perché se uno il terremoto lo porta inchiodato nell’anima, anche se cambia città, lo trascina con sé.
La lotta secolare al terremoto
Anche di “ricostruzione”, è legittimo parlare al plurale!
Anzitutto citando i molteplici “riscatti” architettonici che sono stati realizzati, nel corso del tempo, per restaurare i danni inferti dai numerosi sismi che si sono abbattuti sulla Città. Infatti, se si scorrono gli annali della storia aquilana, si resta impressionati nell’apprendere che - nell’arco di otto secoli - si sono succeduti più di sette terremoti, di cui quattro disastrosi1. Viene da chiedersi: perché gli abitanti, con straordinario coraggio, sono rimasti sul posto ed hanno riedificato le loro abitazioni dove erano? Mi viene spontanea la risposta: perché gli Aquilani sono Aquilani. Cioè, gente tenace e motivata che, grazie alla radicata fede cristiana e a solidi valori umani (collaudati dalle asprezze dell’ambiente montano) ha maturato un’ammirevole “resilienza”, che l’ha “equipaggiata” per affrontare e vincere gli attacchi minacciosi del terremoto: senza mai indietreggiare. In essi ha prevalso l’attaccamento alla loro terra, la fedeltà alle tradizioni e la irremovibile convinzione di potercela fare. Oggi sentiamo di dire, con orgoglio, che hanno avuto ragione! Anche davanti alle incursioni devastanti del terremoto, la bandiera di L’Aquila non è stata mai ammainata dalle sue mura ed ha continuato a sventolare con fierezza davanti agli occhi del mondo.
La ricostruzione “oggi”
Quando, poi, si parla della ricostruzione odierna, bisogna riconoscere con gratitudine che molto è stato fatto e si sta facendo. Ma va pure detto, con onesta franchezza, che numerose promesse sono state smentite dai fatti e tante attese sono state tradite. Sta, penosamente, davanti agli occhi di tutti, la ricostruzione mancata. Poi, se lo sguardo spazia oltre il perimetro urbano di L’Aquila, si ha l’impressione che in diversi borghi e in frazioni periferiche si stia ancora all’ “anno zero”.
Nonostante la buona volontà di soggetti istituzionali e di organismi locali, si sono sommati disguidi e ritardi, causati da “labirinti normativi” e “artrosi burocratiche”. Gli errori fatti debbono essere rilevati con rigore, per essere “riparati”, se possibile! In ogni caso, vanno segnalati perché altri non incorrano negli stessi incidenti di percorso.
Auspichiamo una semplificazione delle procedure e una velocizzazione delle operazioni attuative, perché, sulle corte distanze, vengano riaperte case, strutture pubbliche e chiese (che non sono solo sedi di culto, ma luoghi identitari): ancora inagibili.
La dimensione “popolare”
Non si evidenzierà mai abbastanza che la ricostruzione di una Città è impresa di popolo. C’è una saggia sentenza latina che così asserisce: “quod omnes tangit, ab omnibus tractari debet” (ciò che riguarda tutti, deve essere da tutti trattato). Gli amministratori e i tecnici operano a nome del popolo, non al posto del popolo: sono servitori, non sostituti.
Per ricostruire bene le pareti delle abitazioni, occorre prima ricostruire le case nel cuore della gente: con i mattoni della fiducia e il cemento della concordia.
Bisogna avere orizzonti ampi, visioni lungimiranti e capacità di confronto “allargato”: nelle comunicazioni progettuali e nei dibattiti civici è necessario adottare la grammatica dell’unità e il vocabolario dell’amicizia, promuovendo la fattiva testimonianza della convergenza, della corresponsabilità e della partecipazione.
Si deve combattere, come patologia sociale, ogni forma di particolarismo e di egocentrismo elitario, per evitare ogni miope restringimento prospettico: ricordando che è legittimo sostenere un punto di vista, purché non si riduca solo alla vista di un punto.
“Ricostruire” i cittadini
La ricostruzione più importante, che deve marciare parallela a quella “edilizia” è la “ricostruzione dei cittadini” e della comunità: sociale ed ecclesiale. Va precisato, però, che difficilmente si esce dal “terremoto dell’anima” per “guarigione spontanea”. La terapia che cura questi “dissesti” interiori non si improvvisa. Occorrono percorsi spirituali, psicologici e sociali adeguatamente “calibrati” e attrezzati. È urgente, perciò, mettere in atto sistemi ed esperienze di accompagnamento che aiutino le persone a dialogare con le tensioni che covano dentro, per imparare ad integrarle positivamente nella propria esistenza. Questi interventi mirati chiedono competenze professionali, specificità di contenuti e metodologie appropriate. Si tratta, infatti, di apprendere e praticare l’arte di ricavare vantaggi dalle avversità e perfino dalle sventure.
La convergenza solidale
Risulta fondamentale che tutti i Soggetti “abilitati” a questo tipo di lavoro (la Chiesa, le Istituzioni pubbliche, la Scuola e l’Università, gli Organismi che hanno fini educativi ed assistenziali, il Mondo della Sanità e dei Media….) trovino forme di raccordo e di intesa, che consentano di scambiare idee e strategie capaci di favorire dinamiche sananti e processi migliorativi per la vita delle persone e della popolazione. In sintesi; occorre mobilitare - in forme di buona sinergia - la dimensione religiosa, culturale, sociale e politica (nel senso più nobile del termine), sapendo che solo insieme (nessuno escluso) si può vincere la sfida che il terremoto ci ha lanciato. Si tratta di un’opera da mettere in cantiere, nel segno della coesione: lo dobbiamo non solo ai nostri compagni di viaggio (specie i giovani e i ragazzi), ma anche alle generazioni che verranno.
Le nuove opportunità
II terremoto ha portato non solo distruzioni, ma anche nuove opportunità.
Ad esempio: i rimescolamenti sociali, provocati dai trasferimenti imposti dall’urgenza di lasciare le case lesionate per occupare contesti abitativi diversi (es. new town), ha suscitato – congiuntamente a disorientamenti e precarietà – alcuni effetti positivi, perché sono stati rotti alcuni schemi abitudinari e aperte inedite prospettive relazionali.
Anche dal punto di vista economico e produttivo, come pure nelle logiche imprenditoriali e professionali, si sono spalancate promettenti vie di sviluppo, destinate - se percorse con investimenti opportuni e imprenditoria intelligente - ad assicurare fonti di benessere alle famiglie e offerte di lavoro ai giovani.
Le stesse spinte propulsive - in una Città che riacquista e migliora il suo splendore - dovrebbero registrarsi in campo turistico, culturale e artistico. Anche sulla funzione di Capoluogo di Regione cala l’obbligo di conseguire forme più efficaci di sana “leadership” e di coordinamento creativo. Ci auguriamo che queste previsioni e linee di tendenza non vengano frenate e ridimensionate - o peggio ancora, bocciate - dalla realtà.
L’Aquila “patiens” e “docens”
La sciagura del sisma, che ha lacerato con ferocia il nostro territorio, non va solo sofferta, vinta e capovolta nel suo contrario (cioè, in una opportunità di crescita), ma va pure pensata e trasformata in una preziosa lezione di vita e di progresso scientifico/tecnologico, per noi e per gli altri. L’Aquila deve superare la insidiosa “sindrome del cratere”, che potrebbe chiuderla nella cinta delle montagne che le fanno corona. La vicenda che ha vissuto la chiama ad esercitare una “docenza” universale; non solo trovando la forza di raccontare l’evento traumatico che l’ha duramente colpita, ma offrendo contributi teorici e applicativi, che possano risultare paradigmi di buona gestione, utili anche per altri centri feriti da calamità simili.
L’Aquila, dunque, ha la missione di offrirsi come Luogo di incontro (a livello nazionale e internazionale), come Città-laboratorio e come Sede di studi che si specializzano sul tema della emergenza, del soccorso e della ricostruzione.
La temporalità “recuperata”
Dobbiamo recuperare, con parametri diversi, il senso del “tempo”, perché il terremoto ha spezzato la normale continuità storica, scavando un solco tra il “prima”, l’ “oggi” e il “dopo”. Tra questi “segmenti” temporali vanno ristabiliti buoni collegamenti. L’Aquila, infatti, non ha bisogno solo di giorni in più, ma di giorni “nuovi”: carichi di un “fertile” avvenire. Per sostenere questo processo, occorre tenere la mano al polso degli eventi, per registrare il ritmo cardiaco della Comunità: infatti, non si può parlare del futuro di un popolo se si non si conosce il suo passato, poiché, come scrive Primo Levi: “il futuro batte con un cuore antico”.
La gratitudine verso i soccorritori
Il decennale è anche occasione preziosa per fare memoria di tutti coloro che si sono fatti “prossimi”, nei giorni del terremoto e nel periodo successivo, spendendosi con generosità e scrivendo indimenticabili pagine di ordinario eroismo. Penso agli innumerevoli interventi di aiuto, fatti con intelligenza, con tempestività e con operosità instancabile.
Come non ricordare la visita di Papa Benedetto XVI (il 28 aprile 2009), le Forze dell’Ordine (e tra di loro la Guardia di Finanza), i Vigili del Fuoco, la Protezione civile e i Volontari che si sono prodigati con commovente dedizione? La fiamma del “grazie” non si estingue dal cuore degli Aquilani, anche perché il bene - ricevuto e ricambiato con sincerità - rimane per sempre.
Il segno della risurrezione
La fede ci dona la certezza che Gesù ci accompagna tutti i giorni della nostra vita (specie in quelli visitati dalla sofferenza), per rendere ogni “via crucis” (singolare o collettiva) una “via lucis”: se con Lui facciamo Pasqua. Per questo, l’eco di quel tragico 6 aprile di dieci anni fa, non resta un grido di dolore chiuso nell’anima della nostra Città, ma deve tramutarsi in voce gioiosa: che testimonia, al mondo intero, una Vita abitata dall’Amore-Risorto e annuncia un’Alba di speranza, che si alza - già da ora - sul cielo intrepido di L’Aquila!