Le donne tornano a mobilitarsi.
La rete 8 marzo dell’Aquila ha aderito allo sciopero lanciato dalla rete Non una di meno. A quasi un anno esatto dal lockdown che aveva bloccato le mobilitazioni non ci sarà un corteo ma due presidi: uno alle 11:30 davanti Palazzo dell'Emiciclo, alla Villa Comunale, e uno alle 16:30 alla Fontana Luminosa.
“Abbiamo reinventato la mobilitazione rivendicando a gran voce l'importanza del lavoro di cura, svolto principalmente dalle donne, fondamentale dentro e fuori la sfera familiare”, si legge nel testo di convocazione delle iniziative di protesta.
Sarà uno sciopero femminista, sociale e politico e non solo uno sciopero dal lavoro tradizionalmente inteso: ci si asterrà da ogni tipo di attività produttiva o riproduttiva, gratuita o retribuita, dal consumo e dai ruoli imposti dagli stereotipi di genere.
Il movimento femminista torna in piazza per un reddito di autodeterminazione, un welfare universale, per il diritto al lavoro, per chiedere più fondi ai Centri antiviolenza e il potenziamento dei consultori, per rivendicare rivendicare una corretta applicazione della legge 194. Il diritto all’aborto continua ad essere sotto attacco: da un lato la pandemia ha reso ancora più difficile l’accesso al servizio di interruzione di gravidanza, dall’altro l’intervento di alcune amministrazioni regionali ha ristretto pesantemente le modalità di assunzione della Ru486. Dopo il Piemonte, l’Umbria e le Marche anche la regione Abruzzo, con una circolare a firma dell’assessora alla salute Nicoletta Verì, ha raccomandato di svolgere l’aborto farmaceutico in ospedale e e non presso i consultori familiari, come previsto dalle nuove linee guida approvate dal ministero della Salute.
Si scende in piazza a un anno dall'inizio dell’emergenza sanitaria che, come una cartina tornasole, ha fatto luce sulla violenza fisica, psicologica ed economica.
“Un anno difficile e doloroso” lo ha definito Simona Giannangeli, presidenta del Centro Antiviolenza Donatella Tellini dell’Aquila. Nella stanza del Centro, l’unica rimasta utilizzabile per via delle disposizioni anti-contagio, si lavora senza sosta. L’ultimo anno è stato il più nero di sempre: nel 2020 sessanta donne hanno denunciato violenza, già otto in questi primi mesi del 2021. Un carico di lavoro enorme per le operatrici volontarie che in un decennio di attività sul territorio hanno accolto in media quaranta donne l’anno.
La maggior parte delle donne si sono rivolte al Cav tra maggio e dicembre perché durante i mesi di marzo e aprile il telefono non ha mai squillato. Poi, con la fine delle misure restrittive più severe, sono tornate a denunciare. “Durante il lockdown le donne, costrette a casa con gli uomini maltrattanti, non avevano nessun margine di sicurezza a chiamarci. Dal 22 maggio i contatti sono tornati a salire: fino al 31 dicembre 2020 abbiamo accolto 49 donne. In sette mesi abbiamo fatto più di quello che facciamo in un anno intero, siamo state costrette a fissare appuntamenti per i colloqui anche a 20 giorni dal primo contatto, non era mai successo”.
L’emergenza ha svelato l’enormità dell’impatto della violenza maschile sulla vita delle donne ma dentro un dato che resta pericolosamente costante. “L’aumento di richieste al nostro centro non riflette un’impennata degli episodi di violenza” sottolinea Giannangeli. “Gli uomini sono violenti e maltrattanti in maniera costante. È questo che rende la violenza maschile così virale e pericolosa. Il fatto che sia costante, è un dato strutturale che non ha picchi e quindi non ha flessioni. E la pandemia, come ogni emergenza, ha amplificato le conseguenze della violenza sulla vita delle donne".
Ciò che i dati suggeriscono è che più donne hanno avuto la forza e il coraggio di denunciare. “I colloqui, specialmente il primo, sono lunghi - ci racconta la presidenta - a volte ci vuole un’ora perché una parola esca. Quando una donna viene qui per denunciare la violenza subita il silenzio può durare tantissimo. D’altra parte quanto può essere difficile e coraggioso raccontare la parte più nascosta della tua vita a un’estranea? Spesso l’immagine che ci viene restituita è quella di donne fragili, di vittime. Non è vero, sono delle lottatrici, delle guerriere”.
Dopo il primo contatto e il successivo colloquio inizia il percorso di uscita dal contesto di violenza. Il Cav dell’Aquila, come gli altri centri sul territorio italiano, è un avamposto in un deserto: le operatrici volontarie offrono consulenza legale, psicologica, orientamento al lavoro e un alloggio sicuro. Un lavoro portato avanti con pochissimo sostegno da parte delle istituzioni, tra le criticità consolidate legate alla carenza di fondi che arrivano a singhiozzo e le nuove difficoltà legate all’emergenza sanitaria.
Questo primo anno di pandemia è coinciso anche con il primo anno di attività della casa rifugio, concessa in comodato d’uso gratuito dal Comune dell’Aquila all’associazione Donatella Tellini. La struttura permetterà di gestire l'emergenza in attesa della ristrutturazione dell'immobile da destinare alla Casa delle Donne, che oggi ha sede provvisoria nel quartiere del Torrione. La sede definitiva si aspettava già nel 2017, presso l'ex orfanotrofio nel complesso di Collemaggio, secondo la convenzione sottoscritta nel 2015 tra Comune dell'Aquila e Provincia e finanziata con i fondi Carfagna (3 milioni di euro), stanziati subito dopo il terremoto e destinati al sovvenzionamento di attività e progetti sociali. Lo scorso 18 gennaio l'intervento è stato affidato alla ditta che si è agiudicata l'appalto ma ad oggi il cantiere non è stato ancora avviato.
Per avere la casa rifugio in emergenza ci sono voluti dodici anni di richieste da parte delle operatrici del Cav alle due amministrazioni che si sono succedute alla guida della città. Adesso, finalmente, la struttura è operativa e ospita una donna e un nucleo con minori. Il sistema di tutela però è ancora troppo spesso caratterizzato da difficoltà gestionali, economiche e di coordinamento a vari livelli.
“La casa rifugio ci è stata data a fine febbraio 2020, qualche settimana prima del lockdown. Avevamo tutta una serie di adempimenti burocratici quindi siamo riuscite a renderla operativa solo a fine maggio” dice Rosita Altobelli, operatrice e coordinatrice delle attività della struttura. Fino a dicembre, ci racconta, le volontarie non hanno avuto alcuna copertura finanziaria. L’unico sostegno economico è infatti garantito dalla Legge Regionale 31/2006 che prevede il trasferimento dei fondi dal Ministero delle Pari Opportunità non direttamente a chi opera ma attraverso un avviso pubblicato ogni anno a settembre. I contributi vengono poi erogati a gennaio sulla base di una rendicontazione delle spese sostenute. “Non avendo potuto partecipare al bando - ci spiega Altobelli - da maggio a dicembre abbiamo anticipato tutte le spese. Poi attraverso il bando della legge 31 abbiamo ottenuto un contributo di 30mila euro, una cifra però troppo bassa”.
All’Aquila ad occuparsi della gestione della struttura sono tre operatrici volontarie che accompagnano le donne nel percorso di fuoriuscita dalla violenza per ritrovare autonomia e libertà. Le operatrici, oltre ad occuparsi della prima fase dell’accoglienza, si relazionano con i servizi sociali e con il Tribunale, che è sempre coinvolto in caso di nucleo con minori. Gestiscono inoltre le pratiche di cambio del medico di base, dell’iscrizione a scuola dei figli che devono essere anche accompagnati agli incontri protetti con il padre maltrattante; provvedono alla spesa settimanale, ai trasporti e alle eventuali trasferte del nucleo, e affiancano la donna nella ricerca di un lavoro. Quando possibile, se la copertura lo permette, si riesce anche a garantire un tirocinio formativo. Poi ci sono le spese per la psicologa, che segue con almeno un incontro a settimana ogni donna ospitata, e per l’educatrice che si occupa dei minori.
Le volontarie, attraverso il Coordinamento Antigone che mette in rete sette associazioni e cooperative che gestiscono 6 Centri Antiviolenza e 4 Case Rifugio in Abruzzo, avevano rivolto un appello alla regione per l’istituzione di un tavolo sulla programmazione degli interventi in materia di contrasto alla violenza di genere. Tra le istanze portate all’attenzione dell’assessora Verì e del presidente Marsilio, la redazione di un “Piano regionale contro la violenza di genere” e la modifica delle modalità di erogazione dei contributi affinché diventino strutturali. Tutte richieste rimaste inascoltate.
“In un anno di covid caratterizzato da grandi silenzi e da grandi assenze - sottolinea Giannangeli - abbiamo premuto tantissimo anche affinché i tribunali adottassero più rapidamente le misure di protezione, soprattutto gli ordini di allontanamento dell’uomo maltrattante. Una misura che è prevista dalla legge: l’ abbiamo mutuata dalla Convenzione di Istanbul, dalla legge sul femminicidio, da tutte le leggi successivi compreso il Codice Rosso. Oggi il sistema funziona meglio anche a L’Aquila, con il Tribunale e le Forze di polizia ma questi provvedimenti non sempre sono applicati puntualmente. Resta ovviamente la necessità di avere sempre posti nelle case rifugio perché se la donna decide di allontanarsi dall’abitazione va sempre messa in protezione”.
“Lunedì manifesteremo come Rete 8 marzo, e parteciperemo all’inaugurazione della Panchina Rossa a Fossa” dice Giannangeli ricordando l’importanza di iniziative che creano una rete tra realtà del territorio ma anche l’urgenza di “un intervento forte delle istituzioni che promuovano tavoli di lavoro e una programmazione che renda effettiva l’applicazione delle leggi. Da sole non ce la facciamo - conclude - il nostro lavoro è solo un pezzo, servono le istituzioni”.