Di Ilaria Carosi* - Il violento episodio di cronaca verificatosi nei giorni scorsi ai danni di una famiglia aquilana con figli minori non lascia dubbio alcuno, la condanna non può che essere unanime.
La violenza fine a se stessa va sempre condannata, ugualmente quella motivata dalla volontà di togliere a chi si presuma possieda. Non parliamo nemmeno di quanto deprecabile sia la violenza sui minori, dirompente a livello psichico anche “solo” se assistita, osservata mentre avviene. Nel caso in questione, peraltro, sono i propri genitori a subirla: coloro i quali proteggono e danno sicurezza sono improvvisamente minacciati da persone sconosciute e armate, non solo non possono proteggere ma nemmeno proteggersi, salvaguardare la propria incolumità. Possiamo facilmente immaginare quanto drammatico sia per un bambino vivere una simile esperienza, quale terrore si viva in quei momenti.
Non è difficile immedesimarsi, nelle città come la nostra ci si conosce facilmente. Chi non conosce direttamente si immedesima perché genitore, figlio, o semplicemente perché leggere quanto accaduto rievoca ancestrali paure, intacca quel primordiale “bisogno di sicurezza” necessario alla sopravvivenza fisica e psichica degli individui.
Certo una cosa è immaginare, seppur immedesimandosi, ben altra trovarsi a vivere un’esperienza così. Una vicenda che richiederà tempo, e forse anche un certo tipo di ascolto, per essere elaborata dai suoi sfortunati protagonisti.
Non è difficile, parimenti, essere sopraffatti da una grande rabbia. La rabbia dettata dalla paura e dalla percezione di ineluttabilità di certe situazioni, quelle che si è costretti a subire al di fuori della propria volontà e del proprio controllo. Ancora una volta, in questa città.
Ed è proprio la rabbia che colpisce, prima ancora della paura di chi dichiara di non sentirsi più sicuro in casa propria, nella propria città che “non è più quella di prima”. La rabbia (e non la paura) ha invaso nei giorni scorsi i social - network e le conversazioni che si instaurano alla cassa del supermercato, dal medico, allo sportello delle Poste, dal parrucchiere, nei bar: “hai visto cosa è successo?”, “hai visto che bestie?”, “ci stanno invadendo”, “vedi che succede a farli venire qua?”, “quanto vorrei avere una pistola”.
Qualcuno si preoccupa anche di aggiungere: “Non sono razzista, è che sono sempre loro”.
La rabbia, a volte, viene trasmessa ai figli che assorbono come spugne quello che “respirano” in famiglia. Con gesti e commenti velati ma anche in modo diretto, senza giri di parole: non sono come noi, degli stranieri si deve aver paura, stai attento, sii diffidente, sappi difenderti da loro.
Figli che spesso, con grande facilità, hanno con “l’altro da sé” maggiori probabilità di contatto dei propri genitori, lo straniero lo hanno come compagno di banco e magari frequentano una scuola che attivamente pratica l’intercultura, un modello di riferimento mentale prima ancora che un progetto.
Come fare a spiegare tali contraddizioni? Come mettere insieme la richiesta di diffidenza che è facile e indispensabile che un genitore trasmetta, con quella di inclusione e convivenza interculturale che la società globalizzata favorisce e alimenta?
Azzardo un ragionamento e qui lo condivido.
“Il male” nella sua “banalità” esiste e prescinde dal colore di pelle e dalla provenienza etnica. Ne troviamo traccia già nella Bibbia con l’uccisione di Abele per mano del suo stesso fratello Caino.
Tuttavia, negli ultimi anni, l’aumento di crimini violenti compiuti da stranieri (ma non solo) ha contribuito ad aumentare il senso di insicurezza personale, rendendo alcuni interrogativi più pressanti.
In realtà ci si interroga da sempre sul rapporto tra criminalità e migrazioni, nel tentativo di comprendere se ci sia tra le due una relazione precisa: gli stranieri delinquono di più degli autoctoni?
La risposta che studiosi diversi, in epoche differenti, hanno dato al quesito è stata per lo più negativa. Non ho interesse a riportare qui statistiche facilmente reperibili on-line, per chi volesse avere delucidazioni in merito.
Non ci sono evidenze scientifiche che giustifichino una risposta affermativa alla nostra imponente domanda, proprio come si rivelò del tutto errata la lombrosiana teoria della fisiognomica, il tentativo di identificare “la faccia da criminale”.
Piuttosto, alla base di tali inferenze ci sono spesso pre-giudizi di natura xenofoba alimentati da paure interiori, quelle che facilmente ciascuno proietta sull’altro da sé, sul diverso. Lo sostiene il sociologo Alain Touraine, il quale spiega che la dinamica della xenofobia spinge a negare l’umanità dello straniero proprio in virtù della sua diversità. Uno straniero che facilmente viene percepito come minaccia alla propria identità e ai propri valori di riferimento, baluardi in difesa del proprio, fragile, “Io”.
Così può capitare facilmente che il diverso divenga “capro espiatorio”, anche quando non ci siano da parte sua responsabilità di alcun tipo.
Ricordiamo tutti la strage di Erba, furono massacrate quattro persone, tre donne e un bambino piccolo. Un altro uomo, ridotto in fin di vita, si salvò miracolosamente. Fu appiccato un incendio, persino, dopo le coltellate, il sangue e le vittime lasciate nell’abitazione. Il primo ad essere sospettato fu il padre della piccola vittima, marito di una delle donne, un pregiudicato tunisino che aveva usufruito dell’indulto e che al momento del delitto non era neppure in Italia. Solo il suo alibi di ferro spinse gli inquirenti a guardare altrove. Gli assassini, incastrati dopo alcune settimane di indagini ed intercettazioni ambientali, erano i vicini di casa, gli ormai noti Olindo e Rosa.
Qualcuno potrebbe esortarmi a ricordare la terribile rapina in villa avvenuta a Perugia nel 2012. Fu ucciso un giovane di 38 anni, davanti alla propria madre e al nipote di 8 anni e no, in quel caso gli assassini non erano italiani e la violenza fu inaudita. Come inaudita fu la violenza di quel romeno senza fissa dimora che stuprò e uccise a Roma la moglie di un Ufficiale della Marina. Lei morì dopo due giorni di coma.
Italiani e della “Roma bene” erano invece gli autori del massacro del Circeo: due giovani donne vennero tenute prigioniere per un giorno e mezzo, violentate, seviziate, drogate. Una delle due fu affogata, l’altra si salvò fingendosi morta, dopo che avevano tentato in tutti i modi di strangolarla. I giovani “pariolini”, dopo averle chiuse nel portabagagli della loro macchina ironizzando su come “dormissero bene”, andarono a cena in un ristorante.
Parliamo di soggetti che spesso convivono con gravi disturbi di personalità. Casi estremi, mi si potrà obiettare, tuttavia potremmo ricordarne decine e decine.
Per cercare di comprendere ciò che accade intorno a noi, interrogandosi il più possibile, evitando di scivolare nei giudizi facili perché non è possibile darli in un campo così complesso e, soprattutto, cercando di discernere quanta parte delle nostre angosce contribuiscono a renderci vittime del pregiudizio anche nell’educazione dei nostri ragazzi.
Angosce e paure spesso strumentalizzate e strumentalizzabili, in primis da chi governa e non ha né risposte, né adeguati strumenti di sicurezza da offrire. Pensiamo a quello che sta accadendo, proprio in questi giorni, con la gestione dell’emergenza Ebola.
Che le angosce siano strumentalizzabile lo sostiene Zygmunt Bauman, uno dei maggiori pensatori dei nostri tempi. Egli ha coniato il termine “paura liquida”, per indicare una paura fluttuante che assume forme sempre diverse, una paura tipica della nostra società e da essa costantemente alimentata.
Esiste una sorta di “ossessione per la sicurezza” che spinge a proteggersi ma anche a percepirsi sempre più insicuri, minacciati, esposti a pericoli, in un circolo vizioso apparentemente senza fine.
Siamo tutti vittime, in questo caso.
*Psicologa e psicoterapeuta aquilana. Si occupa di migranti e politiche dell'immigrazione dal 2000.