Condannato definitivamente a 7 anni e 8 mesi nel terzo grado di giudizio. E' questa la sentenza della Corte di Cassazione di Roma per Francesco Tuccia, in relazione allo stupro, nel febbraio 2012, di una ragazza universitaria nel parcheggio di una discoteca a Pizzoli (L'Aquila).
Con un "lieve aggiustamento tecnico" la terza sezione penale della Cassazione - presieduta da Claudia Squassoni - ha confermato la condanna per violenza sessuale e lesioni dell'ex militare campano, che ridusse in fin di vita una studentessa, lasciandola nel parcheggio di una discoteca in mezzo alla neve e al gelo.
Il giovane era stato condannato in primo grado nel gennaio 2013 a otto anni di reclusione, pena confermata in secondo grado all'Aquila circa un anno fa [leggi l'approfondimento sul processo di appello].
La Suprema Corte lo ha oggi condannato a 7 anni e 8 mesi di reclusione, riducendo di 4 mesi la condanna d'appello per effetto della continuazione dei reati. "Il verdetto d'appello ha tenuto - ha commentato soddisfatto il pg Pietro Gaeta - anche se bisogna aspettare il deposito delle motivazioni di questa decisione, credo che questo lieve ritocco di pena sia solo un aggiustamento tecnico effetto della continuazione dei reati che non sono stati considerati come commessi in concorso". Ora per Francesco Tuccia la reclusione in carcere si fa concreta.
"E' stato centrale il tema del consenso - afferma a NewsTown Simona Giannangeli, avvocata del Centro Antiviolenza per le donne dell'Aquila, parte civile al processo - e l'ho sottolineato anche ieri durante la discussione davanti ai giudici. La difesa ha sempre utilizzato l'elemento del consenso della ragazza stuprata, per affermare che il reato non fosse stato consumato".
Giannangeli ci tiene a ribadire l'atteggiamento, definito "senza rispetto", da parte della difesa di Tuccia: "La linea difensiva - evidenzia l'avvocata aquilana - ha cercato ancora una volta di annientare, demolire e denigrare la figura della donna in quanto persona offesa, non c'è stato rispetto nei confronti della ragazza. Questo ci dispiace, perché è una costante che continua ancora oggi ad essere presente nei processi per stupro. Si cerca l'elemento di verità processuale a partire dalla demolizione della persona offesa e dal suo presunto comportamento".
Il Centro Antiviolenza dell'Aquila è naturalmente soddisfatto: "La sentenza ci conforta - continua Giannangeli - è la dimostrazione che ha retto l'impianto accusatorio. Una delle poche sentenze che restituisce un senso di giustizia alle donne che subiscono violenza. Non succede spesso nel nostro Paese. E' stato molto significativo anche che, caso raro, un centro antiviolenza sia stato ammesso come parte civile in un processo del genere". (m. fo.)