Ieri, il quotidiano "La Repubblica" ha pubblicato un reportage sull’evidente e forte sovra-dimensionamento della città fisica che la ricostruzione sta determinando all’Aquila (Potete leggerlo qui e qui). Il 31 dicembre scorso "Il Fatto Quotidiano" aveva pubblicato un altro reportage che poneva l’accento sullo stesso tema (Potete leggerlo qui).
Articoli che hanno fatto molto discutere. "Il tono - come sempre quando si parla dell’Aquila - è quello della denuncia e della colpa", ha scritto sul suo blog Antonio Calafati, docente di "Economia urbana" all’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera Italiana e coordinatore dell’International Doctoral Programme in Urban Studies del Gran Sasso Science Institute.
"D’altra parte - aggiunge Calafati - è difficile che nel dibattito pubblico italiano si possa parlare di 'cause', si cercano sempre delle colpe (e non si trovano mai le cause e spesso neanche le colpe). Sul tema del sovradimensionamento della città fisica dell’Aquila come conseguenza del modello di ricostruzione che emergeva ho richiamato l’attenzione già dal 2012. Il sovra-dimensionamento dell’Aquila era al centro del Rapporto che ho coordinato nel 2012 (“L’Aquila 2030: una strategia di sviluppo economico”) su incarico del Ministro per la Coesione Territoriale del Governo Monti, Fabrizio Barca. Tra novembre e dicembre 2015, ho pubblicato alcuni post sul sovra-dimensionamento della città sul blog [qui e qui] - cercando le cause, non le colpe. Avevo poi richiamato il tema nell’introduzione al forum su “L’Aquila del futuro” (14/11/2015), nel quale sono stati presentati i risultati dell’attività di ricerca sull’Aquila in corso al GSSI".
E cosa emerge dalle analisi di Calafati? Emerge che all’Aquila "si è manifestato un clamoroso fallimento della cultura urbana italiana. Un fallimento, in particolare, della comunità scientifica, incapace di costruire un paradigma di riferimento per la ri-costruzione. Un fallimento inoltre del giornalismo italiano, incapace di alimentare un dibattito pubblico informato, equilibrato e pertinente. Quale paradigma di riferimento poteva avere una città come L’Aquila per la sua ri-costruzione? Una piccola città con alle spalle alcuni decenni di sviluppo spaziale sregolato e incongruo - non diverso da quello di gran parte delle città italiane? Il 'dov’era, com’era' – proposto e interpretato dopo il terremoto del 2009 come l’orgogliosa rivendicazione di un progetto di ricostruzione identitario – nascondeva una completa afasia progettuale. Incolpare il sistema politico locale (e nazionale) è consolatorio ma sbagliato".
"Chi ha proposto qualcosa di diverso?", si domanda Calafati. "Chi è sceso in campo in Italia - e con quali competenze - per collaborare alla definizione di un paradigma sul quale fondare un progetto di ricostruzione moderno? Che strumenti aveva la società locale - oltre l’emergenza, che non ha gestito per ovvie ragioni - per definire una politica di ri-costruzione coerente? Che strumenti aveva lo Stato? Sollevo di nuovo la questione perché è ancora possibile correggere la traiettoria di sviluppo spaziale ed economico ed evitare si rendere il sovra-dimensionamento della città fisica persino maggiore e insostenibile. Per peseguire questo obiettivo, però, è necessario provare a comprendere le cause, non evocare colpe".